Corriere 7.11.16
Bonino: «Erdogan verso la dittatura. Ma con lui l’Europa ha sbagliato molto»
di Paolo Valentino
E sull’Iraq: «Può tornare la guerra civile»
«I
segnali della svolta autoritaria in Turchia si accumulano da anni —
dice nell’intervista al Corriere l’ex ministro degli Esteri Emma Bonino
—, ma certamente l’ultima escalation, con l’arresto dei leader del
principale partito curdo, suggerisce che Erdogan taglia i ponti con
l’Europa e l’Occidente. Preso da due guerre, una interna e l’altra
esterna ma entrambe collegate alla questione curda, egli sceglie una
strada in fondo alla quale c’è un regime dittatoriale. La situazione è
preoccupante, anche perché la Turchia è membro della Nato e ospita
testate nucleari, mentre l’Europa ha perso ogni leva di pressione».
In che senso?
«Nel
momento in cui abbiamo deciso, sbagliando, che la nostra priorità nei
confronti di Ankara era che si tenessero rifugiati e migranti, tutto il
resto è diventato secondario».
Come dovrebbe reagire ora l’Europa?
«E’
molto difficile, tenendo conto del contesto, le basi Nato, la
dipendenza energetica. Dovremmo tornare credibili, affrontare la
questione migranti con l’integrazione e liberarci dalla dipendenza nei
confronti della Turchia, cui abbiamo di fatto appaltato il problema dei
rifugiati e la difesa delle frontiere esterne. Ci siamo consegnati mani e
piedi a Erdogan, la cui deriva autoritaria non è cominciata con
l’arresto dei leader curdi».
Una deriva inevitabile?
«Non
era inevitabile che noi ci privassimo di ogni leva, rifiutando di
affrontare il problema migranti e profughi a livello europeo, con una
dimensione europea, come ci imponevano la nostra responsabilità e anche i
nostri interessi. Lo sanno tutti che abbiamo bisogno di persone per
compensare il calo demografico, lo dicono le ricerche dei radicali, di
Confindustria, di Assolombarda. Quindi non è solo un problema di valori
ma anche di necessità. Non lo abbiamo fatto per miopia, ragioni di
bottega elettorale e questo è il risultato: siamo nelle mani di
Erdogan».
Che fare quindi?
«Ci saranno com’è giusto una
serie di dichiarazioni: questa deriva non è accettabile. Ma occorre
anche riconoscere i nostri errori e correggerli. Solo la Germania ha
fatto una legge sull’integrazione. Gli altri nessuno, noi in Italia
siamo bravissimi a salvare le persone e dobbiamo esserne orgogliosi, ma
poi quando arrivano siamo ancora fermi alla Bossi-Fini, al reato di
clandestinità e via continuando».
Sbagliammo nel 2006 a chiudere la porta dell’Unione europea alla Turchia?
«Assolutamente
sì, e fu quella la prima perdita di credibilità. Quando il Consiglio
europeo decise all’unanimità di aprire i negoziati tutti sapevano che
sarebbero durati vent’anni. Ma appena due mesi dopo, trascinati da
Merkel e Sarkozy, i leader europei cambiarono idea. Gli errori passati e
quelli recenti non giustificano però l’attuale deriva autoritaria. Il
cammino è stretto, o facciamo la nostra parte e ci mettiamo in
condizione di parlare con Ankara senza dover mendicare nulla, oppure non
abbiamo alcuna possibilità di incidere. Detto questo, anche la Turchia
deve pensarci due volte prima di continuare su questa strada: rotti i
ponti con l’Europa, dove va? Il progetto di Davutoglu, nessun nemico ai
nostri confini, è in macerie. Il Paese è isolato anche nella regione e
ha grossi problemi economici».
Considera chiusa ogni prospettiva di negoziato della Ue con Ankara?
«No, non vorrei finisse così. Ma dobbiamo prima riappropriarci della nostra credibilità e della nostra agenda».
Facciamo bene in Libia a sostenere Serraj o è una partita senza speranza?
«Avevo
espresso dubbi sin dall’inizio, il piano messo a punto da León e poi
ripreso in toto da Kobler era troppo poco inclusivo, non teneva conto
della realtà del terreno. Dieci mesi dopo i miei dubbi trovano conferma.
Non penso che la situazione libica, che ha livelli di violenza
inferiori alla Siria, sia destinata a migliorare. Probabilmente la
comunità internazionale appoggia Serraj perché non vede un’alternativa.
Intanto la Francia cura i propri interessi sostenendo il generale
Haftar. Ricordo anche che la Libia è un enorme carcere a cielo aperto:
nei campi libici ci sono centinaia di migliaia di disperati che arrivano
da tutta l’Africa, sottoposti a maltrattamenti e torture».
In Iraq continua l’offensiva su Mosul. Sarà la vittoria decisiva contro Daesh?
«Prima
o poi li cacceremo, sia pure a un costo umano esorbitante. Mi preoccupa
che non ci sia alcun accordo sul dopo: chi lo gestirà? I peshmerga? Gli
iraniani? I sunniti? Rischiamo di avviarci verso una nuova guerra
civile in Iraq. Senza una gamba politico-diplomatica, ogni intervento
militare è monco, come insegna la cacciata di Gheddafi».