COLLETTANEA DA MANIFESTO, IL FATTO IL SOLE DEL 29 NOVEMBRE 2016
Il Fatto 9.11.16
Amalia Signorelli
L’antropologa e la sfida del 4 dicembre: in gioco c’è la nostra subordinazione ai poteri forti (amici del premier Renzi)
“Fermiamoli: vogliono distruggere la democrazia”
intervista di Luca Sommi
qui
il manifesto 29.11.16
La cultura per il no: ridare speranza in un futuro diverso
Siamo
scrittori, docenti, registi, autori, attori, artisti, scenografi,
direttori della fotografia, produttori, musicisti, giornalisti,
ricercatori, operatori culturali.
Abbiamo storie personali e
percorsi diversi, ma tutti ci siamo ritrovati concordi nel ritenere
giusto e responsabile che i lavoratori della cultura, dell’informazione e
della conoscenza si schierino apertamente nel merito del referendum
sulla cosiddetta «riforma» costituzionale.
Poiché siamo convinti
del ruolo determinante della cultura e della conoscenza per combattere
la rassegnazione e l’antipolitica, per la costruzione di una democrazia
vera basata sulla partecipazione e non sull’esclusione, per una vera
riforma delle Stato e delle sue istituzioni il cui compito è quello di
«rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che … impediscono
il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di
tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese», poiché siamo convinti di tutto questo sentiamo in pieno
l’importanza di un nostro impegno diretto nella battaglia per impedire
questo devastante tentativo di stravolgimento della nostra Costituzione.
Noi
firmatari di questo «appello» votiamo no e chiediamo di votare no per
ridare speranza in un futuro diverso, per opporre il «nostro»
cambiamento alla loro «restaurazione» antidemocratica.
Dopo una
serie di leggi che hanno demolito i nostri diritti fondamentali – dal
«jobs act» alla «buona scuola» alla riforma della Rai – con questa
«deforma» costituzionale si tenta di demolire i principi fondamentali
per i quali abbiamo sempre lottato e che sono alla base della nostra
democrazia.
Questa revisione costituzionale è stata fatta da un
Governo in forza di una maggioranza ottenuta in base a una legge
dichiarata incostituzionale dalla Corte. Questa revisione ha diviso il
paese in due mentre la Costituzione è e deve essere di tutti.
Calamandrei disse durante i lavori preparatori della Carta: «Nel campo
del potere costituente il governo non può avere alcuna iniziativa,
neanche preparatoria». «Quando l’Assemblea discuterà pubblicamente la
nuova Costituzione, i banchi del governo dovranno essere vuoti».
Questa
revisione costituzionale riduce il Senato ad un’assemblea non eletta
dai cittadini ma composta da nominati dai partiti che godranno
dell’immunità parlamentare; sottrae poteri alle Regioni per consegnarli
al Governo; non ci sarà nessuna semplificazione ma la moltiplicazione
dei procedimenti legislativi e la proliferazione di conflitti di
competenza tra Camera e nuovo Senato, tra Stato e Regioni; ridotte le
autonomie locali e regionali, l’iniziativa legislativa passa decisamente
dal Parlamento al Governo, contro il carattere parlamentare della
nostra Costituzione.
Il nostro orizzonte è invece l’attuazione
piena della nostra Costituzione, il nostro cambiamento è la costruzione
di una democrazia partecipativa nella quale i cittadini possano tornare
ad essere protagonisti.
Se vincerà il no, il 5 dicembre potrà essere per tutti un nuovo inizio.
Primi firmatari:
Citto Maselli (regista)
Moni Ovadia (autore, regista, attore)
Massimo Carlotto (scrittore)
Furio Colombo (giornalista)
Giancarlo Ruocco (fisico, Università La Sapienza)
Firmatari al 28 novembre 2016
Roberto Accornero (attore),
Danilo Amione (critico e docente di cinema presso Istituti Universitari),
Vitaliano Angelini (pittore, incisore),
Nicasio Anzelmo (regista),
Enzo Apicella (disegner, pittore, giornalista),
Piero Arcangeli (compositore, etnomusicologo),
Manuela Arcidiacono (attrice),
Mino Argentieri (docente universitario, direttore “Cinema sessanta”),
Tina Argiolas (docente e operatrice culturale),
Lino Ariu (presidente Circolo del Cinema “Nuovo Pubblico” – Monserrato),
Giorgio Arlorio (sceneggiatore),
Marco Asunis, (presidente FICC Federazione Italiana Circoli del Cinema),
Dorotea Ausenda (attrice),
Tiziana Bagatella (attrice),
Ugo Baistrocchi (funzionario Mibact e critico cinematografico),
Jaures Baldeschi (direttore artistico del Circolo del Cinema “Angelo Azzurro” di Castelfiorentino-FI),
Matteo Bartocci (giornalista, il manifesto),
Michela Becchis (docente di storia dell’arte Università di Chieti),
Aldo Beneduce (ISS),
Giancarlo Bocchi (regista),
Giuseppe Boy (attore),
Maria Concetta Borgese (danzatrice coreografa),
Marina Boscaino (docente, giornalista),
Benedetta Buccellato (attrice-autrice teatrale),
Memmo Buttinelli (docente di biologia Università La Sapienza),
Luigi Cabras (operatore culturale C.S.C. Società Umanitaria – Cineteca Sarda-Cagliari),
Paola Cabras (traduttrice e operatore culturale Sardinia Film Festival),
Giuseppe Cacciatore (docente di Storia della filosofia, Univ. Federico II di Napoli),
Maria Dolores Calabrò (operatrice culturale di Passaggi d’Autore – Intrecci Mediterranei – Sant’Antioco),
Marino Canzoneri (presidente Arci Sardegna),
Maria Caprasecca (operatrice culturale),
Renato Caputo (docente Storia e Filosofia Unigramsci)
Michela Caria (docente e operatrice culturale),
Pino Caruso (attore),
Luigi Cassandra (attore),
Alberto Castellano (critico cinematografico),
Kiki Casu (socia attivista del Cineclub Sassari, Ficc),
Alessandro Cauli (operatore culturale),
Valeria Cavalli (autrice),
Renato Cecchetto (attore),
Carlo Cerciello (regista, direttore del Teatro Elicantropo di Napoli),
Barbara Chiesa (attrice),
Lamberto Consani (attore),
Michael Crisantemi (scrittore),
Bruno Crucitti (attore),
Wasim Dahmash (docente di cultura araba Cagliari),
Enzo De Camillis (regista e scenografo),
Marco Dentici (scenografo),
Marino Demata (presidente Assoc. Culturale Rive gauche – Arte cinema),
Gerardo Di Cola (storico del doppiaggio),
Pippo Di Marca (regista teatrale-attore),
Angelo d’Orsi (docente di Storia del pensiero politico Università di Torino)
Amedeo Fago (scenografo, regista),
Matteo Fais (giornalista e scrittore),
Maria Paola Fanni (docente e attivista culturale),
Franca Farina (funzionaria archivista cineteca CSC),
Simonetta Fasoli (dirigente scolastica Roma),
Paolo Favilli (storico, Università di Genova),
Gianni Ferrara ((professore emerito di diritto costituzionale Università la Sapienza di Roma),
Marialuisa Fresi (docente linguistica italiana e operatrice culturale),
Clara Gallini (antropologa),
Gabriella Gallozzi (giornalista),
Mario Gelardi (autore e regista teatrale, direttore del Nuovo Teatro Sanità di Napoli),
Rosa Genovese (attrice),
Salvatore Gioncardi (attore),
Ignazio Gori (scrittore),
Giovanni Greco (scrittore, regista teatrale),
Gianni Guardigli (autore),
Andrea Ilari (ricercatore CNR)
Silvia Innocenzi (produttrice),
Biagio Interi (docente, presidente Circolo “Albatros” di Chiaramonte Gulfi – Rg), Gianfranco Laccone (ricercatore agronomo),
Franco La Magna (giornalista, storico e critico cinematografico),
Mariano Lamberti (regista),
Maria Lenti (poetessa),
Guido Liguori (docente di Storia del pensiero politico, presidente della International Gramsci Society Italia ),
Giorgio Lo Feudo (docente e operatore culturale),
Gaja Lombardi Cenciarelli (scrittrice),
Antonio Loru (presidente Circolo Amici del Cinema di Villacidro),
Fabiomassimo Lozzi (regista),
Gianni Lucini (scrittore e autore),
Salvatore Maira (regista),
Cecilia Mangini (regista),
Fabio Marceddu (attore),
Ivano Marescotti (attore),
Umberto Marino (autore, regista),
Claudio Marrucci (scrittore),
Gabriele Martini (attore),
Patrizia Masala (vice presidente FICC Federazione Italiana Circoli del Cinema), Sergio Massenti (attore),
Giovanni Mazzetti (direttore Centro Studi e Iniziative per la redistribuzione del lavoro)
Monica Mazzitelli (scrittrice e regista),
Gianni Minà (giornalista),
Giovanna Montella (docente di diritto pubblico La Sapienza),
Lia Morandini (costumista),
Raul Mordenti (docente Università Tor Vergata)
Martina Mulas (operatrice culturale Società Umanitaria-Cineteca Sarda),
Mattia Murgia (Associazione Notorius Università di Cagliari),
Francesco Nicolosi Fazio (ingegnere, scrittore, giornalista),
Dante Olianas (responsabile associazione Iscandula Cagliari),
Ottavio Olita (giornalista e scrittore),
Vincenzo Orsomarso (insegnante e scrittore),
Marco Antonio Pani (regista),
Vera Pegna (scrittrice),
Giuditta Peliti (operatrice culturale),
Massimo Pellegrinotti (operatore culturale Cineclub Roma),
Stefano Petrucciani (docente di Filosofia politica, Università di Roma “La Sapienza”),
Paolo Pietrangeli (musicista, regista)
Peppeto Pilleri (operatore culturale Associazione Laboratorio Ventotto),
Pina Rosa Piras (docente, Università Roma tre),
Angelo Pizzuto (giornalista, critico teatrale),
Giorgio Poidomani (operatore culturale),
Alessandro Radovini (Presidente del Circolo Lumière di Trieste),
Indiana Raffaelli (musicista),
Elisabetta Randaccio (critico cinematografico e operatrice culturale), Gianluca Riggi (Teatro Furio Camillo),
Anna Maria Rivera (antropologa, Università di Bari),
Nino Russo (regista),
Vincenzo Russo (musicista Scuola Popolare di musica Testaccio)
Paola Sambo (attrice),
Antonia Sani (docente, Scuola e Costituzione),
Massimo Sani (regista),
Enzo Saponara (attore),
Giovanni Saulini (produttore),
Nando Antonio Scanu (operatore culturale ed ecologista),
Nando Scanu (fondatore Cineclub Sassari),
Daniela Scarlatti (attrice),
Angela Scarparo (scrittrice),
Heidrun Schleef (sceneggiatrice),
Massimo Spiga (traduttore, scrittore),
Laura Stochino (docente e operatrice culturale),
Stefania Tuzi (architetto, ricercatrice),
Angelo Tantaro (direttore di Diari di Cineclub),
Mara Vardaro (docente),
Leonardo Varvaro (docente, Università della Tuscia),
Alfonso Veneroso (attore),
Antonio Veneziani (scrittore),
Pasquale Voza (prof. Emerito Letteratura italiana – Università di Bari),
Anita Zagaria (attrice),
Chiara Zanini (freelance e critica cinematografica),
Ann Zeuner (ricercatrice ISS),
Giulia Zoppi (autrice),
il manifesto 29.11.16
Dal No lettera aperta al ’terzista’ Pisapia
«Caro Pisapia, nella tua intervista a la Repubblica del 18 novembre (…) affermi che il Sì e il No sono determinati non dal giudizio sulla legge di revisione costituzionale, ma dalla volontà di far cadere il governo». Un gruppo di comitati per il No scrive all’ex sindaco di Milano che ha deciso di non schierarsi nella battaglia referendaria e di ragionare su una nuova formazione di sinistra. «Non è certamente così per il nostro Comitato, non lo è per la Cgil, l’Anpi, l’Arci e quelle associazioni che da sempre sono impegnate sul terreno della democrazia costituzionale», scrivono. «Siamo sostenitori del No per una sola ragione: se vincerà il Sì la nuova Costituzione non sarà più quella di prima», «il centro del potere passerà dal parlamento al governo», e «domani al governo del paese potrebbero andare forze populiste che hanno nel loro Dna la discriminazione contro i “diversi”. Avremmo posto nelle loro mani non solo tutti i maggiori poteri dell’esecutivo, ma anche la possibilità di ridurre le garanzie dei diritti fondamentali delle persone e delle minoranze». Caro Pisapia, è la conclusione, «con ferma convinzione riaffermiamo le ragioni per le quali difendiamo la Carta. Anche noi vogliamo cambiare: in meglio».
il manifesto 29.11.16
Dalle lotte al «No sociale»: in 50 mila a Roma contro il referendum di Renzi
Movimenti. Protestano contro il «silenzio mediatico»: sono volti e storie rimosse da settimane di dibattiti televisivi sul referendum del 4 dicembre. Dai No Tav ai No grandi navi. Domenica a piazza del Popolo a Roma sono intervenuti anche il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e l'attivista No Tav Nicoletta Dosio
di Roberto Ciccarelli
ROMA Si è chiusa domenica sera con un concerto in piazza del popolo a Roma la campagna per il «No» al referendum costituzionale del 4 dicembre più invisibile nei dibattiti televisivi che la storia politica italiana ricordi. Per gli organizzatori sono state cinquantamila le persone che hanno riempito la piazza, senza avere bisogno di photoshop, gazebo, fotografie scattate da angolature impensabili. Hanno sfilato in un pomeriggio festivo, lungo un percorso anch’esso atipico per i cortei nella Capitale, aggirando il centro, percorrendo il Muro Torto che attraversa Villa Borghese e arriva al Lungo Tevere. Tutto è stato fatto per nascondere agli occhi di una città deserta, e a quelli di un paese obnubilato dalla propaganda governativa per il «Sì», una campagna che dura almeno da ottobre con le prime manifestazione degli studenti il 7 ottobre e lo sciopero generale dei sindacati di base il 21 (con corteo il 22, sempre a Roma). Quello che è stato definito dai promotori del corteo «silenzio mediatico» non è riuscito ad allontanare i manifestanti da Roma. Le perquisizioni degli autobus diretti verso la Capitale o le voci infondate su scontri o disordini non li hanno fatti desistere. In un percorso lungo chilometri, insieme alle principali sigle dei movimenti sociali (dai No Tav ai No Triv, alla casa), molte reti di movimento, associazioni, studenti per il «No» hanno sfilato anche famiglie, cittadini e bambini.
«ERANO ANNI che non si vedevano in questa piazza persone in lotta, dalla ValSusa alla Laguna di Venezia, dai territori contro le trivelle – ha detto dal palco Marta del Comitato No Grandi Navi – Siamo convinti che si possa portare una ventata di cambiamento dopo il 4 dicembre. Un percorso per buttare in aria il partito stato del Pd e dei suoi alleati».
IL CORTEO «C’È CHI DICE NO» ha rappresentato, visibilmente, la smentita dell’immagine dell’«accozzaglia» usata da Renzi per diffamare l’opposizione alla sua riforma costituzionale. In questo caso il «No» è sociale ed è sostenuto da quelli che, veramente, conducono le lotte contro le politiche del governo: contro la riforma della scuola, ad esempio, o quella del lavoro. «Questi volti, queste storie in Tv nessuno li ha visti in questi mesi di dibattiti – sostiene Stefano, un altro portavoce della manifestazione – fa comodo distrarsi con i relitti della politica di questo paese e far tacere chi vive con 500 euro al mese o lavora con i voucher». «Renzi ci fa sbellicare dalle risate quando sostiene che questa costituzione gli impedisce di fare le sue “riforme” – ha aggiunto Lorenzo – il Jobs act, il Salva banche, lo Sblocca italia sono alcuni degli esempi di quanto possano essere devastanti le riforme di chi ora vuole ancora più potere».
DAL PALCO della manifestazione sono intervenuti anche il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e l’attivista No Tav, già candidata alle Europee per la Lista Tsipras Nicoletta Dosio, oggi sottoposta ai domiciliari. «La mia evasione è felice perché è appoggiata dal popolo No Tav, la solidarietà che mi viene da tante parti è grande insieme a me lottano in molti con grande determinazione – ha detto Dosio – Il mio “No” viene da lontano. A difesa di una costituzione che dovrebbe garantire un diritto al lavoro, che la sovranità dovrebbe appartenere al popolo. Lotto per un mondo diverso dove chi lotta non deve essere messo in ginocchio dalle misure preventive».
PIÙ VOLTE, nel corso del percorso che ha lambito anche il ministero dell’Economia protetto da grate alte cinque metri e da un temibile schieramento di camionette e reparti antisommossa, è stato scandito slogan, e l’auspicio: «il nostro NO lo senti nelle strade, il 4 dicembre il tuo governo cade». Il concetto è stato ripreso da De Magistris che ha evocato, dopo una vittoria del «No», «un grande movimento popolare contro le oligarchie dal 5 dicembre. La politica oggi deve mettere al centro le persone, il lavoro e i beni comuni. Napoli è l’unica città italiana che ha rispettato il referendum sull’acqua pubblica e l’ ha sottratta al capitale. Voglio ringraziare le persone che nella mia città si stanno riappropriando dei beni abbandonati e, con l’autogoverno, li stanno restituendo ai cittadini. Ai bugiardi che dicono che la riforma costituzionale elimina i costi della politica, ricordo che quello di Renzi è il primo governo europeo per acquisto delle armi, 64 milioni di euro al giorno».
il manifesto 29.11.16
L’ultima cartuccia di Renzi: 50 euro ai pensionati poveri
La campagna per il referendum. Il premier presenta la manovra insieme al ministro Padoan. Dal presidente della Commissione Ue Juncker fino all’Ocse, le grandi istituzioni internazionali con il Sì: «Assicura la governabilità»
Tutti ricordiamo la famosa uscita di Berlusconi – «cancellerò l’Ici sulla prima casa» – nel 2006 a pochi giorni delle elezioni, asso tirato fuori dalla manica in un confronto tv con l’avversario Romano Prodi: mutatis mutandis, dopo dieci anni, ci ritroviamo con il premier Matteo Renzi di fronte alla sfida più grossa della sua carriera politica, quella del referendum costituzionale. Chiaro che ci scappino anche in questo caso prebende e promesse: nella legge di Bilancio «ci saranno 30-50 euro al mese per le pensioni più basse», ha spiegato Renzi, aggiungendo poi che «non siamo riusciti ad arrivare a 80 euro».
Si tratta del capitolo pensioni che introduce anche l’Ape, e che vedrà anche «la ricongiunzione gratuita» dei versamenti fatti e i fondi per la non autosufficienza «che aumentano di 50 milioni, arrivando in tutto a 450 milioni».
Un modo per conquistare la base più popolare dell’elettorato? Può darsi, visto tra l’altro che le grosse istituzioni internazionali si sono tutte espresse per il Sì: dopo i prestigiosi endorsement di Barack Obama e Angela Merkel, passando per l’interessamento delle grandi banche d’affari, delle agenzie di rating, di bibbie della finanza come il Wall Street Journal e il Financial Times (con l’eccezione dell’Economist che è per il No), siamo arrivati ieri al presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker e all’Ocse.
Secondo l’Ocse il Sì al referendum costituzionale del 4 dicembre sarebbe «un passo avanti» per le riforme in Italia perché «semplifica il processo legislativo e chiarisce le responsabilità tra governo centrale e locale che impediscono gli investimenti pubblici e privati». Parola dell’outlook di novembre dell’organizzazione con sede a Parigi. «Proseguire e approfondire le riforme strutturali per migliorare il livello di vita di tutti gli italiani è fondamentale», conclude l’Ocse.
Altrettanto esplicito era stato, domenica in una intervista a La Stampa, il presidente della Commissione europea Juncker. Parlando del referendum del 4 dicembre, Juncker rileva che è un passaggio essenziale per definire l’architettura istituzionale dell’Italia nei prossimi anni. «Non voglio interferire in questo dibattito – ha precisato – Ma che l’Italia debba continuare un processo di riforme è una cosa ovvia. E che Renzi aggredisca i problemi dell’architettura istituzionale mi sembra una cosa buona». «Non so se sarei utile a Renzi dicendo che vorrei che vincesse il Sì, quindi mi limito a dire che non vorrei vincesse il No», ha concluso il presidente .
Ieri tra l’altro il Financial Times aveva rinnovato i suoi timori in caso di vittoria del No, ipotizzando addirittura il rischio di fallimento per otto banche, tra cui Monte dei Paschi di Siena, Banca Etruria, Carige e Popolare di Vicenza. Insomma la finanza internazionale guarda con attenzione al referendum, e lo testimoniano le tensioni dell’apertura di settimana ieri a Piazzaffari.
La manovra intanto ieri ha incassato il primo via libera del Parlamento: 290 i sì, 118 i no a Montecitorio, adesso passa all’esame di Palazzo Madama. Nessuno stravolgimento, ha sottolineato ieri Renzi in conferenza stampa con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. In Senato i margini per ulteriori modifiche dipenderanno in gran parte anche dall’esito del referendum.
Oltre ad annunciare i 30-50 euro per i pensionati con assegno inferiore a mille euro, il presidente del consiglio rivendica di aver tagliato le tasse: alle aziende come ai pensionati più poveri. Renzi e Padoan, a una settimana dal fatidico 4 dicembre, hanno lanciato messaggi rassicuranti: nessun rischio di esercizio provvisorio, il Senato va avanti e avrà anche il tempo per nuove modifiche al ddl Bilancio.
La direzione intrapresa dal governo – ha notato il ministro dell’Economia – «è quella giusta»: a confermarlo anche l’Ocse che «dà il debito in calo nel 2016». «La solidità finanziaria del Paese – ha concluso dunque Padoan – continua a essere perseguita».
Una volta che il ddl bilancio passerà all’esame del Senato, dove l’iter entrerà nel vivo solo dopo il ponte dell’8 dicembre, sulla carta saranno diversi i capitoli che potranno essere ulteriormente migliorati: banche, enti locali e giochi sono i nodi in attesa di essere sciolti.
il manifesto 29.11.16
50 milioni Ilva, Renzi contro Emiliano
Tra manovra e referendum. Il governatore pugliese annuncia un sit-in sotto Palazzo Chigi alla vigilia del voto, il premier attacca: "Mistificazione assurda e strumentale". I soldi per la sanità tarantina erano saltati all'ultimo momento dalla legge di Bilancio. Polemica anche con di Francesco Boccia
È scontro tra il presidente del consiglio Matteo Renzi e il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano dopo che quest’ultimo ha annunciato che il 3 dicembre, alla vigilia del referendum, sarà in piazza sotto Palazzo Chigi per un sit-in con le famiglie tarantine.
Al centro della polemica i 50 milioni destinati alla sanità tarantina saltati all’ultimo momento dalla legge di Bilancio. Ieri Renzi ha attaccato Emiliano: su Taranto – ha detto, senza nominare direttamente il governatore – c’è stata «un’assoluta mistificazione della realtà. Siamo pronti a discuterne al Senato. Tutto ciò che serve per Taranto lo faremo, ma trovo la polemica stravagante e strumentale e il sit-in organizzato nel giorno di silenzio elettorale mi sembra lo confermi».
Renzi ha ribadito più volte che l’emendamento sui 50 milioni è stato dichiarato «inammissibile» dal «presidente della commissione Bilancio»: cioè Francesco Boccia, un altro rappresentante del Pd con cui i rapporti non sono idilliaci. E Boccia, in risposta, non l’ha mandata a dire: «Quella sui soldi per Taranto – ha spiegato – era una decisione politica e Palazzo Chigi ha scelto di non stanziarli. Ora cerca di mettere una pezza peggiore del buco».
il manifesto 29.11.16
Legge Madia, la Consulta boccia anche il Sì
di Massimo Villone
La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità di varie disposizioni della riforma Madia della Pubblica amministrazione per aver previsto l’acquisizione di un parere, e non una formale intesa nelle conferenze Stato-autonomie. È una botta. Ma a palazzo Chigi si volta la frittata, dicendo che con la riforma non sarebbe accaduto. Renzi si scaglia contro la burocrazia soffocante e oppressiva. Dalla pronuncia si trae uno spot per il Sì nel voto del 4 dicembre. Come sempre è pubblicità ingannevole.
Partiamo dal principio di leale cooperazione, che per consolidata giurisprudenza della Corte è la pietra angolare del rapporto tra i livelli istituzionali quando l’intreccio di competenze è inevitabile. Una disciplina generale – qual è la legge Madia – sulla dirigenza, sul lavoro nelle pubbliche amministrazioni, sulle società partecipate incide sull’organizzazione amministrativa della Regione, e su materie che comunque rimangono ad essa affidate. In tal caso «il legislatore statale deve predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a difesa delle loro competenze. L’obiettivo è contemperare le ragioni dell’esercizio unitario delle stesse con la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle autonomie». Un mero parere non basta. Bisogna invece acquisire una intesa: in sostanza, una co-decisione.
Tutto questo rimane vero anche con la Renzi-Boschi. La regione rimane competente per la propria organizzazione amministrativa, come anche per le materie in cui si manifesta l’intreccio con le competenze dello Stato, come ad esempio la sanità, il trasporto e i servizi pubblici locali in genere. Trova conferma l’esigenza di un’intesa, in quanto strutturale e di sistema. Al tempo stesso le Conferenze, in cui le intese si realizzano, non sono smantellate dalla Renzi-Boschi. Se la riforma fosse stata già in vigore, la Corte con ogni probabilità avrebbe deciso allo stesso modo.
È ben vero che la Corte ha sottolineato (sentenza 278/2010) il rilievo della «perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi». Potrebbe sembrare un assist per la riforma, con il senato «dei territori» come sede appropriata per la leale collaborazione e le intese. Ma non è così.
L’intesa è co-decisione: in sostanza, si tratta finché non si raggiunge un accordo tra tutti i partecipanti. Ma come potrebbe questo tradursi in un’assemblea? Basterebbe un voto a maggioranza, o sarebbe necessario un voto unanime di tutti i componenti? Un’ipotesi, quest’ultima, quasi miracolosa, considerando che ogni consigliere senatore rappresenta solo sé stesso e il territorio che lo ha eletto, e vota come gli pare senza alcun vincolo di mandato. Il nostro futuro senato non è il Bundesrat. Si può anche temere che qualche senatore faccia mercimonio del proprio voto per strappare all’esecutivo regionale vantaggi per il territorio o le clientele di riferimento. Immaginate poi il caso – inevitabile – di appartenenze politiche radicalmente contrapposte: ad esempio, qualche M5S in un senato a maggioranza Pd. Infine, quand’anche tutto funzionasse alla perfezione, sarebbe di ostacolo il bicameralismo non paritario. Può un procedimento legislativo in cui il voto del senato è superato da un prevalente e diverso voto della camera produrre una co-decisione tra stato e autonomie? Anche per le leggi espressione della clausola di supremazia, che possono entrare in ogni ambito di competenza regionale, la Renzi-Boschi ugualmente prevede che la volontà legislativa della camera conclusivamente si imponga.
In sintesi, la sentenza 251 della Consulta nulla aggiunge alla già lunga lista di cataclismi e devastazioni che il fronte renziano – unitamente ai suoi fans dell’economia e della finanza – legano alla vittoria del No: crisi immediata, ritorno dei governi tecnici, uscita dall’euro, spread alle stelle, bancarotta, crollo del Monte Paschi, e altro. Tutto nasce con la cinica scommessa plebiscitaria di Renzi nella chiave del suo potere personale. Meno male che il popolo italiano è vaccinato contro i ballisti di governo che tentano di avvelenarlo, magari con fritture di pesce andate a male. Per queste non serve una riforma, piuttosto una potente lavanda gastrica.
il manifesto 29.11.16
17mila nati in meno. In calo le nascite anche tra stranieri
Istat. L'unico dato in crescita è quello dei bambini che non hanno genitori sposati: uno su tre dei nuovi nati
L’unico dato in crescita è quello dei bambini che non hanno genitori sposati: uno su tre dei nuovi nati. Tutti gli altri indicatori sulle nascite in Italia sono in calo, compreso quedei bimbi nati da genitori stranieri.
Per l’Istat nel 2015 sono diminuite di quasi 17 mila rispetto al 2014: sono nati 485.780 bambini. La tendenza continua dal 2008. Il calo è pari a 91 mila ed è stato attribuibile alle coppie italiane. Nel 2015 i nati sono scesi a 385.014, oltre 95 mila in meno negli ultimi sette anni. Calano anche i nati nelle coppie con almeno un genitore straniero. Per il secondo anno consecutivo: sono quasi 101 mila nel 2015, il 20,7% del totale dei nati a livello medio nazionale (il 29% nel Nord e l’8% nel Mezzogiorno). Calano anche i nati da genitori entrambi stranieri: nel 2015 72.096, quasi 3 mila in meno rispetto al 2014. In leggera flessione anche la loro quota sul totale delle nascite, pari al 14,8%.
Otto nati su cento hanno una mamma over 40. Nel 10,3% dei casi, sostiene l’Istat, la madre ha meno di 25 anni. Per le donne italiane la posticipazione della maternità è un fenomeno molto accentuato: il 9,3% ha almeno 40 anni e solo l’8,2% meno di 25 anni. A livello territoriale le differenze sono significative. Le nascite sono anticipate a Sud dove l’11,1% delle madri è under 25; nelle isole il 13,4%. Le madri con almeno 40 anni sono rispettivamente il 7,0 e il 7,6%. In Liguria, Toscana e Lazio (oltre che in Sardegna) la percentuale di nati da madri ultraquarantenni raggiunge il 12%. Le nascite da madri minorenni sono 1.739 oltre un terzo in meno rispetto al 1995 (3.142 unità). Al Centro-Nord, invece, le nascite da madri italiane minorenni sono in media lo 0,1% del totale di ripartizione, mentre nel Mezzogiorno si attestano intorno allo 0,6%.
Francesco resta il nome più gettonato. Questa ricorrenza è attribuita dall’Istat alla popolarità del Papa. Per le bambine il nome più ricorrente è quello di Sofia. Per quanto riguarda le scelte fatte dai genitori stranieri residenti in Italia, i nomi dei bambini sono Adam, Youssef, Rayan, Matteo, Alessandro e Davide. Per le bambine: Sara. «La tendenza a scegliere per i propri figli un nome diffuso nel Paese ospitante piuttosto che uno tradizionale – spiega l’Istat – è spiccata per la comunità cinese» mentre «un comportamento opposto si registra per i genitori del Marocco, che raramente scelgono per i loro figli nomi non legati alle tradizioni del loro paese d’origine».
L’Istat ieri ha comunicato anche i dati sulla fiducia dei consumatori. A novembre è rimasta stabile a 107,9 punti (era 108 a ottobre), mentre il clima di fiducia delle imprese scende lievemente, da 101,7 a 101,4, con cali per tutti i settori tranne il commercio. Tra i consumatori, il clima economico è stazionario mentre la componente futura peggiora. I giudizi sulla situazione economica del Paese scendono lievemente così come le aspettative, che toccano il valore più basso da marzo 2014.
il manifesto 29.11.16
Il silenzio di Cuba per Fidel: «La tua opera sarà difesa»
Hasta siempre. In attesa della «carovana della vittoria» che porterà le ceneri a Santiago, all’Avana c’è inquietudine e incertezza per il futuro
di Roberto Livi
L'Avana Ventun salve di cannone, sparate dal forte della Cabaña che domina il porto, hanno rotto una strana, impressionante atmosfera ovattata, un silenzio che, dall’annuncio della morte di Fidel, ha cambiato il volto tropicale dell’Avana. Erano le nove di mattina, inizio formale delle cerimonie di lutto in onore del Comandante che si estenderanno fino al funerale di domenica, nell’amata Santiago.
MA GIÀ DA VARIE ORE migliaia di persone, i cubani de a pié, erano allineati in due lunghe fila di fronte al mausoleo di José Martí, nella Piazza della Rivoluzione, dove la bandiera «della stella solitaria» sventolava a mezz’asta. In attesa di rendere omaggio al lider maximo, le cui ceneri erano all’interno. Una foto di Fidel nella Sierra Maestra, un ritratto del comandante guerrigliero, in uniforme verde olivo, zaino in spalla, fucile a tracolla che guarda verso Santiago. Sotto il ritratto, le sue medaglie, onorificenze ricevute dai leader di molte nazioni, e in basso un cespuglio di rose bianche. Quelle che l’Apostolo della patria, Martí, coltivava per offrirle «all’amico sincero che mi tende la mano franca» .
A vegliare i resti mortali di Fidel una guardia d’onore e una serie di personalità del governo e del partito che si sono succedute a giovani studenti e studentesse in uniforme scolastica. Di fronte sono sfilati i suoi concittadini fino alle dieci sera per tributargli un omaggio che si estenderà fino alle sette si sera di oggi. Quando le cerimonie nella capitale si concluderanno con una grande manifestazione nella piazza antistante il mausoleo.
LO STESSO RITRATTO DI FIDEL, un’enorme gigantografia, copriva uno dei palazzi della piazza. Un’immagine che va a unirsi a quelle del Che Guevara e di Camilo Cienfuegos, gli altri, famosi, eroi della Rivoluzione dei barbudos e che attirava lo sguardo delle decine di migliaia di cubani allineati sotto un sole già forte e sotto l’occhio delle tv di mezzo mondo. A questi occhi implacabili una donna mostra un foglio con scritto a mano «Difenderemo la tua opera». Sì, perché Fidel siamo tutti noi cubani, e lui continuerà a vivere se noi seguiremo ad andare avanti , conferma un anziano che la segue nella coda. «Nosotros cubanos somos istericos», mi dice, nel colorito linguaggio popolare, una signora di discendenza afrocubana, come mostra il vestito tutto bianco come l’ampio foulard che le copre i capelli. Non è per sminuire la tensione, al contrario, perché, prosegue, «però in questo momento non abbiamo allegria, non abbiamo parole».
È vero, dalla notte di venerdì, dopo l’annuncio della morte di Fidel, la capitale è avvolta in un silenzio che impressione. L’Avana che conosciamo, infatti, è il prototipo della città tropicale e caribeña, musica a tutto volume ovunque e praticamente a ogni ora, vicini che si apostrofano di casa in casa, «oye tienes malanga? », gente che schiamazza, ambulanti che declamano la loro mercanzia, veicoli di ogni epoca che sputazzano fumo e lamenti di vecchi motori.
IMPROVVISO, È CALATO UN SILENZIO che intimidisce, specie la sera quando si fa buio e molte strade, poco illuminate, mostrano un volto sconosciuto. Gli almendrones, taxi collettivi, di solito una sorta di musica ambulante, passano nelle strade annunciati solo dal roco rumore del motore. Tony, un tassista del mio quartiere, mi dice che si annoia, ma «sono i clienti che mi chiedono di tenere la radio spenta».
Altri però hanno fatto sentire la loro voce. Gli studenti dell’Università dell’Avana da sabato sulla scalinata di fronte al monumento all’Alma mater hanno organizzato una guardia d’onore a un grande ritratto di Fidel con un libro di condoglianze che hanno firmato centinaia di giovani, alcuni, di fronte alle telecamere, con gli occhi umidi. Anche nelle chiese della capitale domenica i parroci hanno rivolto un invito a pregare per Fidel. In generale si è trattato di cerimonie contenute, come quella della chiesa di san Augustin, dove a celebrare messa era il vescovo ausiliario dell’Avana, il gesuita Juan de Dios. Il quale in due occasioni, nell’omelia, e alla fine ha, sobriamente, ricordato l’ex presidente.
E da ieri mattina, in tutti i quartieri della capitale erano organizzati dei punti nei quali i cittadini che non potevano recarsi in piazza della Rivoluzione avevano la possibilità di rendere omaggio al Comandante e firmare il libro di condoglianze. Il tutta l’isola sono stati organizzati più di 1200 di questi luoghi dove i cittadini potranno esprimere il loro lutto. In attesa della «carovana della vittoria» che porterà le ceneri di Fidel lungo tutto l’isola fino a Santiago, dove verranno inumate nel cimitero di santa Ifigenia .
Nelle scuole, soprattutto le primarie, ieri mattina, dopo una cerimonia dell’alza bandiera differente dal solito perché il vessillo nazionale si è fermato a metà asta, era stato affidato agli insegnanti il compito di spiegare agli allievi più piccoli la figura e le opere di Fidel.
CHE SUCCEDERÀ NEI PROSSIMI MESI, quale sarà il futuro di Cuba senza Fidel, soprattutto quando nel grande e potente vicino del nord inizierà la presidenza di Trump, che nei giorni scorsi ha avuto parole durissime contro l’ex presidente cubano. Questi sono temi dibattuti in ogni famiglia e che accompagnano queste ore di lutto.
«Il silenzio di questi giorni si spiega anche con il senso di inquietudine e incertezza che si avverte nella gente, che si pone molti interrogativi sul futuro prossimo», afferma l’analista López Oliva. Le riforme iniziate dal presidente Raúl continueranno? Avranno un’accelerazione o vi sarà una fase di ristagno? La crisi economica si sente, e anche gli aumenti dei prezzi dei generi di prima necessità colpiscono duro.
Anche la debole e frammentata opposizione si divide su questi interrogativi. Per G. Rodiles, leader di una delle organizzazioni presenti soprattutto nell’Est dell’isola, «vi sarà un giro di vite, in primis contro l’opposizione ma anche nei confronti della popolazione». Gerardo Sanchez, del Comitato per la difesa dei diritti umani e la conciliazione nazionale, spera invece che il presidente Raúl, che «necessita assolutamente investimenti esteri» possa iniziare un periodo di transizione e preparare una nuova generazione che «sia disponibile al dialogo e a dar vita a una nuova riconciliazione nazionale».
il manifesto 29.11.16
La confusione a sinistra
François Fillon. La ricerca dell'unità impossibile. Tensioni alla testa dello stato, tra Hollande e Valls. Già sei candidati a sinistra, in attesa del settimo, del Ps. Ma le primarie socialiste sono nella nebbia fitta
di Anna Maria Merlo
PARIGI La destra è riuscita a fare le primarie e la sinistra è nel pantano. Un portavoce del Ps, Olivier Faure, ha parlato ieri di “suicidio collettivo”. Sulla carta, il Ps ha convocato delle primarie a gennaio, ma l’organizzazione e il nome dei candidati sono ancora nelle nebbia più fitta. Alla testa dello stato c’è ormai una lotta sorda tra François Hollande e Manuel Valls, anche se ieri sembra sia stata dichiarata una tregua tra presidente e primo ministro. Valls per il momento non si è dimesso e sembra aver rinunciato alla candidatura, ma domenica aveva sfidato Hollande in un’intervista al Journal du Dimanche, affermando che ormai il presidente non ha la possibilità di pretendere a un secondo mandato (il colpo di grazia è stato il libro di confidenze a due giornalisti). Claude Bartolone, presidente dell’Assemblée nationale, aveva invitato Hollande e Valls a presentarsi entrambi alle primarie del Ps, per chiarire e uscire dall’impasse. Il Ps è paralizzato, nell’attesa di una dichiarazione di candidatura da parte di Hollande, che esita, di fronte a un record di impopolarità. La data-limite per le candidature alle primarie del Ps è il 15 dicembre.
Daniel Cohn-Bendit ha invitato tutti i candidati della sinistra a competere in queste primarie, per avere un candidato con una vera legittimità. Ma la missione sembra impossibile e il voto, che sarà molto probabilmente limitato al Ps sempre che abbia luogo, rischia di essere un “sussurro” (per partecipazione e per il dibattito) rispetto all’operazione conclusa dalla destra, ha messo in guardia Christian Paul, socialista della “fronda”. Intanto, a sinistra ci sono già sei candidati (che saliranno a sette con il rappresentante del Ps) e tutti sono decisi a correre al primo turno della presidenziali senza passare per le primarie. C’è Jean-Luc Mélenchon, che ha abbandonato il Front de gauche ed è ormai alla testa della France Insoumise, ha ottenuto l’appoggio del Pcf (che quindi rinuncia al proprio candidato), grazie a un voto senza entusiasmo degli iscritti (posizione approvata al 53%), ma dovrà fare i conti con una non meglio precisata “campagna autonoma” dei comunisti (che pensano soprattutto alle legislative di giugno). In corsa c’è Yannick Jadot, uscito vincitore dalla mini-primaria di Europa Ecologia-I Verdi. Sabato si è dichiarata candidata la radicale di sinistra Sylvia Pinel (anche se tre radicali sono nel governo Valls). Si è auto-dichiarato candidato Emmanuel Macron, che si è dimesso da ministro dell’Economia, su posizioni liberal in economia e aperte sulle questioni di società (si dichiara “né di destra né di sinistra”, ma “progressista”). Poi ci sono i trotzkisti Nathalie Artaud per Lutte ouvrière e Philippe Poutou per l’Npa.
Ma la vittoria di Fillon, uomo della vecchia Francia che “ha una visione degli anni ‘60” (la definizione è di Macron) e propone ricette economiche attuate da Thatcher 35 anni fa, sembra aver riaperto i giochi. Nel Ps, l’ex ministro Arnaud Montebourg, candidato alle primarie socialiste, afferma che “di fronte a un candidato molto liberista, duramente liberista, ultra-liberista, è impossibile che noi abbiamo di fronte un candidato social-liberista” (pensando a Hollande e a Valls). La sinistra del Ps ha già molti pretendenti all’eventuale primaria: oltre a Montebourg, Benoît Hamon, Marie-Noëlle Lieneman e Gérard Filoche, poi è anche in corsa l’ecologista François de Rugy. In questa confusione, tra i consiglieri di Hollande c’è chi alza la voce per chiedere l’annullamento delle primarie. Suggeriscono a Hollande di presentarsi direttamente al primo turno delle presidenziali ad aprile, senza passare per le forche caudine delle primarie, che potrebbero segnare una sconfitta cocente per l’attuale presidente. Daniel Cohn-Bendit afferma che Hollande ha ormai solo la scelta “tra diverse umiliazioni”. Eppure, al di là del destino di Hollande, con Fillon uno spazio si è oggettivamente aperto per la sinistra, di fronte alla minaccia di un purga sociale storica.
Il Sole 29.11.16
Corsa all’Eliseo, i socialisti allo sbando
La destra ha trovato il suo campione in Fillon, a sinistra guerra fratricida Hollande-Valls
di Marco Moussanet
PARIGI I riflettori si erano appena spenti davanti al quartier generale di François Fillon in Boulevard Saint-Germain e alla Maison de la Chimie – dove domenica sera il neo candidato della destra alle presidenziali ha festeggiato il proprio trionfo – che subito si sono riaccesi su Rue Solferino, sede del partito socialista, l’Hotel Matignon, che ospita il capo del Governo, e soprattutto l’Eliseo.
Già, perché ora che i Républicains hanno scelto il loro leader, si tratta di capire cosa succederà in casa socialista. E più in generale nella sinistra. Che assiste attonita allo scontro più o meno sotterraneo tra François Hollande e il suo premier Manuel Valls. Vede allungarsi ogni giorno la lista dei candidati (già 12, sei dei quali si presenteranno alle primarie di fine gennaio). E teme il ripetersi di quanto accaduto nel 2002, quando al ballottaggio delle presidenziali andarono la destra (con Jacques Chirac) e il Front National (con Jean-Marie Le Pen). Uno shock dal quale non si è ancora completamente ripresa.
Ad accendere l’ennesima miccia è stato proprio Valls, con un’intervista in cui non ha escluso la possibilità di sfidare Hollande alle primarie. Invece di smentire, a una domanda esplicita su questo punto, ha risposto così: «Ognuno deve riflettere con grande senso di responsabilità. Prenderò la mia decisione con coscienza. Qualsiasi cosa succeda, a guidarmi sarà sempre il senso dello Stato». Appena prima aveva chiaramente sottolineato come il libro di confidenze di Hollande a due giornalisti di Le Monde, che ha suscitato violente polemiche, abbia «cambiato il contesto», creando nella sinistra «un clima di smarrimento». «Come capo della maggioranza – aveva concluso – devo tener conto di questo nuovo contesto».
Parole durissime, quasi inequivocabili. Tanto da far circolare nella tarda serata, proprio mentre la destra inneggiava a Fillon, la voce che Valls avesse deciso di dimettersi e di candidarsi. Indiscrezione che le parole del portavoce del Governo (e fedelissimo di Hollande), Stéphane Le Foll, sembravano addirittura avvalorare: «Non ci sarà uno scontro tra presidente e premier alle primarie. Se Valls deciderà di presentarsi, certo non lo farà da primo ministro».
Lo psicodramma, di cui i socialisti francesi sono maestri, era al suo culmine. E l’attenzione si è rivolta all’abituale pranzo del lunedì tra le due massime cariche dello Stato (durato un po’ più a lungo del solito, un paio d’ore). Dove, stando almeno ai sorrisi sulla scalinata dell’Eliseo e alla versione fornita dai portavoce di Matignon, Valls avrebbe disinnescato la bomba. «Soprattutto in un momento in cui il Paese affronta la minaccia del terrorismo – avrebbe detto quest’ultimo a Hollande – non può esserci uno scontro politico nel quadro di una primaria tra un presidente e un capo del Governo. Ancor meno tra due persone il cui rapporto è basato sulla fiducia reciproca. Non c’è e non ci sarà mai una crisi istituzionale. Ho il senso dello Stato».
E visto che Hollande non ha alcuna intenzione di fare un passo indietro, a questo punto lo scenario più probabile, a meno di nuove sorprese, è che il presidente annunci nei prossimi giorni (senza aspettare la scadenza del 15 dicembre) la partecipazione alle primarie della sinistra (di fatto dei socialisti). Sicuramente un rischio, visto che potrebbe essere battuto (per esempio dall’ex ministro Arnaud Montebourg, esponente della sinistra del partito), ma al quale Hollande non può sottrarsi.
Lui, apparentemente imperturbabile, è convinto di poter risalire la china nei cinque mesi che lo separano dal primo turno delle presidenziali. Perché i dati sulla disoccupazione mostrano l’inversione della curva alla quale ha sempre fatto dipendere la sua decisione. E perché sa di essere un “animale politico”, che riesce a dare il meglio di sé in una campagna elettorale, possibilmente breve e dura. A maggior ragione avendo come avversario un esponente della destra conservatrice e liberista come Fillon, che consente di avere il classico confronto ideologico del bipolarismo. Con la chiara contrapposizione di due visioni della società.
E Valls, che tutto sommato ha “solo” 54 anni, può aspettare il prossimo giro. Esattamente come ha fatto Fillon con Sarkozy.
il manifesto 29.11.16
La vecchia Francia può conquistare l’Eliseo?
François Fillon. Per Fillon ha votato la borghesia di provincia, cattolica e tradizionalista. Ma non i quartieri popolari, bersaglio di Le Pen. I dubbi dei centristi
di Anna Maria Merlo
PARIGI François Fillon ha stravinto le primarie della destra, al primo turno ha eliminato Nicolas Sarkozy, al secondo ha distanziato Alain Juppé (66,5% contro 33,5%). Per la destra francese è una svolta. I due “bébé Chirac” (malgrado la differenza di età di 10 anni) sono messi ai margini. La destra moderata, che guarda al centro, e quella “bonapartista”, interpretata in modo agitato, ma pur sempre nella scia dei “liberali europei”, sono state sorpassate da un politico che nel 2005 aveva difeso il “no” a Maastricht. Arriva in primo piano, candidato alle presidenziali di primavera, il rappresentante di una destra che sembrava essere in declino, vecchissima, liberista in economia e tradizionalista nei valori di patria e famiglia. Sarà questa destra in grado di vincere l’Eliseo?
Il giorno dopo la vittoria, la destra esulta, per il successo delle primarie – che non era scontato, era la prima volta per una formazione politica legata all’idea del “capo” – c’è ormai la corsa a schierarsi con il vincitore. Fillon ha ottenuto un’ampia vittoria, quindi i suoi hanno fatto sapere di non essere disposti a modificare troppo il programma, per aprirlo alle posizioni più aperte dell’ala Juppé. Intanto, ha già sostituito la testa del partito Les Républicains, Bernard Accoyer al posto del sarkozista Laurent Wauquiez.
La domanda che comincia ad emergere è: riuscirà Fillon a unire l’elettorato di destra? Già ieri, per esempio, l’organizzazione giovanile dell’Udi (partito di centro destra, alleato dei Républicains) ha manifestato interesse per Emmanuel Macron, ex ministro dell’Economia di Hollande auto-proclamatosi candidato alle presidenziali su posizioni “né di destra né di sinistra”, liberiste in economia (senza gli eccessi di Fillon), moderno e liberale sulle questioni sociali. L’elettorato che ha regalato a Fillon un quasi plebiscito è molto particolare. Hanno votato alle primarie della destra un po’ più di 4 milioni di persone, la maggior parte abbienti, nei quartieri popolari le primarie non hanno avuto molto seguito. Fillon, con il suo stile volutamente sobrio e “serio”, ha raccolto i voti di una borghesia tradizionale, cattolica (sono circa 3 milioni che vanno a messa la domenica), di età avanzata, che si perpetua soprattutto in provincia, liberista in economia, conservatrice sulla società, legata ai “valori francesi” difesi dal candidato.
Lo ha scelto un elettorato che trova che si paghino troppe tasse, che i disoccupati sono soprattutto dei pelandroni pieni di pretese, che è ora di tagliare i troppi aiuti, perché, come ha ripreso Fillon da Margaret Thatcher “la migliore protezione sociale è il lavoro”. Ha avuto importanza il suo richiamo all’”autorità dello stato”, e anche all’“esemplarità di coloro che lo dirigono” (dopo dei presidenti dalla vita privata agitata, arriverebbe un padre di 5 figli, sposato da 35 anni con la stessa persona, una situazione che non si vedeva dai tempi di De Gaulle). “Alle primarie votano gli inclusi, non gli esclusi”, sottolinea il politologo Jean-Yves Camus. Ha avuto importanza la sua presa di posizione a favore dei cristiani d’oriente. Per Fillon hanno anche operato le reti di Sens Commun, il movimento politico nato dalla Manif pour tous contro il matrimonio omosessuale e qui c’è la presenza di un voto giovanile, più estremista, con rivendicazioni identitarie.
Un primo sondaggio rivela che Fillon arriverebbe in testa al primo turno delle presidenziali, battendo poi al ballottaggio Marine Le Pen. Il sondaggio è evidentemente una fotografia del momento, visto che a sinistra c’è la confusione generale, una pletora di pretendenti in pectore ma non ancora nessun candidato definitivo per il Ps. Il Fronte nazionale, versione Marine Le Pen, è subito sceso in campo sul terreno economico: Fillon è accusato di voltare le spalle al popolo. Marine Le Pen vuole proporre la “protezione” per i francesi in difficoltà, mentre le proposte di Fillon sono viste come un rischio ulteriore per i più poveri, che pagherebbero la purga allo stato sociale. Fillon “non è in grado di riunire l’elettorato popolare”, ha affermato Nicolas Bay, segretario generale del Fronte nazionale. Il nuovo elettorato dell’estrema destra, quello delle zone che stanno pagando la deindustrializzazione, è lontano da Fillon. Sui temi sociali invece, c’è vicinanza (a cominciare dall’islam come “problema” e dalla privazione della nazionalità per i sospetti di jihadismo). Fillon potrebbe rubare voti a Marine Le Pen tra la borghesia di provincia che avrebbe votato estrema destra “turandosi il naso”. La sua vittoria mette invece in maggiore difficoltà l’ala liberista e cattolica del Fronte nazionale, quella rappresentata dalla nipote, Marion Maréchal-Le Pen, che ha una base soprattutto nel ricco sud-est. Intanto marginalizza la candidatura di Nicola Dupont-Aignan, sovranista molto a destra. Ma apre uno spazio al centro, che potrebbe spingere François Bayrou, del MoDem, a scendere di nuovo in campo (nel 2007 aveva avuto il 18% al primo turno).
il manifesto 29.11.16
Elezioni in Austria
La sopravvissuta di Auschwitz: «Fermatelo»
di Angela Mayr
VIENNA A una settimana dal fatidico voto per le presidenziali di domenica è arrivato il video più forte, convincente e autentico. E’ stato cliccato in pochi giorni da due milioni ottocento persone. Di grande impatto emotivo, ha commosso l’Austria arrivando anche oltre confine. Il video è stato concepito da una signora di 89 anni di Vienna, Gertrude, che non ha voluto comparire con il suo cognome per non essere cercata ed interpellata. «Non ho più la forza di dare interviste». Gertrude è una testimone che ha vissuto il razzismo sulla propria pelle.
Deportata ad Auschwitz quando aveva 16 anni, unica sopravvissuta della sua famiglia. Nel video non parla direttamente di quell’inferno ma ha voluto ricordare e ammonire sul clima che precedette. «Per mia madre è stato molto importante intervenire pubblicamente e prendere posizione in questa fase della campagna elettorale» ha commentato la figlia. «Nelle ultime settimane e mesi ci ha detto tante volte di avvertire un clima simile a quello degli anni Trenta»,racconta la figlia. Il perché lo spiega Gertrude: «L’offesa nei confronti degli altri, il deprezzamento e l’umiliazione praticata nella retorica dominante della destra è la cosa che più mi disturba» spiega con voce tranquilla nel video. «Così si fanno emergere non le cose buone e umane ma gli istinti più bassi e violenti, e questo già è successo una volta».
Gertrude la ricorda quella volta, nel 1938, con parole semplici ed immediate. Appena dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista gli ebrei di Vienna furono costretti a ripulire i marciapiedi delle strade in ginocchio, con uno spazzolino da denti. Masse di viennesi allora parteciparono divertiti dell’umiliazione con risate spintoni e altre violenze. Come non pensare alla canea che si è scatenata sui siti della Fpoe del gentile signor Hofer contro un giovane siriano che aveva tentato il suicidio buttandosi davanti a un tram a Vienna? Il ragazzo aveva saputo della morte di suo padre. «Il conduttore doveva investirlo, non fermarsi» dicevano i post spietati. Gertrude si mostra preoccupata per la minaccia di guerra civile ipotizzata da Strache, altra esperienza vissuta da lei nel 1934 e della formula «che dio mi aiuti» utilizzata da Hofer.
E’ stata Gertrude a contattare Alexander Van der Bellen, per lei il candidato che si impegna per la pace e la parità dei diritti, e che ha messo in rete il video. «Per me probabilmente sono le ultime elezioni – conclude – ma i giovani devono fare attenzione a poter vivere bene anche in futuro. E possono farlo soltanto se votano usando la ragione».
Il Sole 29.11.16
L’«Europa delle patrie» di Orban e Kaczynski
Il patto stretto dai due leader nazionalisti sta mettendo a rischio i valori fondanti dell’Unione
di Luca Veronese
BUDAPEST e VARSAVIA Togliere di mezzo la retorica nazionalista serve a capire meglio le ragioni e gli obiettivi di Viktor Orban e Jaroslaw Kaczynski. Il premier ungherese e il leader polacco - diversissimi per carattere ma molto simili per visione politica e ambizioni – hanno stretto un patto che sta mettendo a rischio la struttura e i valori fondanti dell’Europa unita. «Orban - dice Robert Laszlo, analista politico dell’istituto Political capital di Budapest - rifiuta il modello stesso delle società occidentali che definisce con ironia liberali e decadenti, attacca ogni giorno i poteri forti che vogliono governare a casa nostra». Dopo aver costruito un muro al confine con la Serbia per bloccare i migranti il leader magiaro ha portato più di tre milioni di ungheresi a votare in un referendum di sfida all’Europa e alla sua politica di accoglienza. «I migranti invisibili servono a nascondere i problemi reali della gente. La propaganda martellante ha alimentato la paura degli ungheresi ed è usata dal governo per mantenere il consenso», dice ancora Laszlo.
Le barriere anti-migranti, le leggi xenofobe, l’accentramento del potere, l’aperta ostilità nei confronti dell’Occidente (da parte di due Paesi che fanno parte dell’Unione e della Nato), stanno risvegliando istinti e paure che si sperava fossero stati cancellati con la fine del secolo scorso.
Orban ha sbaragliato le opposizioni e, a modo suo, ha risollevato l’economia. Che tuttavia dipende ancora in modo decisivo dagli investimenti esteri e dai fondi europei. Non è riuscito ad alzare in modo apprezzabile gli standard di vita del Paese. Deve guardarsi solo da Jobbik, il movimento xenofobo che sta crescendo nel Paese, e per questo ingloba le proposte dell’estrema destra nel suo programma. In una preoccupante deriva antidemocratica. Gyongyosi Marton, numero due di Jobbik, lo spiega con chiarezza: «Voi non potete più scegliere, siete condannati a vivere in società multiculturali nelle quali l’integrazione ha portato solo problemi. Il nostro popolo - invece può ancora decidere con chi vuole convivere. E la grande maggioranza degli ungheresi è a favore di una società omogenea, senza immigrati, fondata sulle nostre tradizioni culturali e religiose». Inevitabile giungere a un’insanabile contrapposizione tra l’Europa e i leader di Budapest e Varsavia.
La Polonia di Kaczynski sta sperimentando una sorta di restaurazione che mette in discussione lo stesso Stato di diritto come ha fatto notare più volte la Commissione Ue. Kaczynski ha seguito Orban nella crociata contro i migranti, lo ha preso a modello nelle leggi sui media e nel limitare il potere della Corte Costituzionale. Il leader polacco – capo indiscusso del suo partito Diritto e Giustizia e quindi anche regista della scena politica polacca nonostante non abbia incarichi di governo – ha però superato «l’amico Orban» sui diritti civili, rispettando la sua devozione per la parte più bigotta della chiesa cattolica polacca.
Kaczynski ha ereditato un’economia in costante crescita da due decenni, mai in recessione anche negli anni della grande crisi internazionale, e tra le promesse sui sussidi alle famiglie e sulle pensioni, ha lanciato un ambizioso piano per rilanciare l’industria nazionale. Spiega Piero Cannas, ceo di Global Strategy e presidente della Camera di Commercio italiana in Polonia: «Sono in Polonia dal 1992 e di cambiamenti ne ho visti tanti. Anche oggi sembra che ci sia una svolta in politica e in economia ogni giorno. C’è comunque una stabilità di fondo che rassicura gli investitori internazionali e continua a rendere il Paese molto interessante per le imprese». Per Cannas, «i rischi maggiori per la stabilità vengono dallo scontro continuo con l’Unione europea. E certo se Kaczynski continuerà a dare fastidio, Bruxelles attraverso i fondi europei ha lo strumento di dissuasione per contrastarlo».
Nelle misure dei governi di Ungheria e Polonia c’è un misto di pragmatismo e interesse egoistico, di chiusura e restaurazione che porta a una sola domanda. Perché Orban e Kaczynski non escono dall’Unione? «Kaczynski è convinto di essere il futuro. È molto diverso da Orban, non vuole coinvolgere ma vuole isolarsi, pensa a una Polonia chiusa e protetta dal mondo corrotto. Orban non guarda in faccia a nessuno: era di centro e ora punta a destra, da europesista è diventato euroscettico a dir poco, era filoamericano e oggi abbraccia Vladimir Putin», dice Jacek Kucharczyk, presidente dell’Institute of public affairs, think tank indipendente di Varsavia. «Orban vuole trascinare l’Est nel suo progetto di leadership europea. Vuole l’Europa delle patrie. Vuole contare a Bruxelles», afferma Laszlo.
In economia, i critici dell’allargamento a Est ma anche molti osservatori indipendenti l’hanno definita strategia del bancomat: per i governi di Ungheria e Polonia in altri termini, l’Unione non è altro che uno sportello automatico dal quale prendere fondi indispensabili per sostenere lo sviluppo, senza tuttavia condividere in pieno i princìpi e le regole comunitarie. Tra il 2007 e il 2013 la Polonia ha ricevuto da Bruxelles (e ha poi utilizzato al meglio) circa 67 miliardi di euro, fino al 2020 potrà contare su altri 114 miliardi di euro, considerando i fondi di coesione e quelli destinati alle politiche agricole. L’Ungheria ha incassato fondi strutturali europei per un totale di circa 30 miliardi di euro e fino al 2020 dovrebbe utilizzarne altri 34 miliardi. Come potrebbero fare a meno del sostegno dell’Unione?
«Nonostante tutto, non credo che i governi riusciranno a danneggiare la crescita economica nell’Est europa. Ed è la crescita lo strumento per contrastare i populismi», dice Slawomir Majman, responsabile dell’agenzia polacca per gli investimenti con il precedente governo, oggi advisor di Pracodawcy RP, la confederazione delle imprese polacche, e senior advisor di Dentons. «La stabilità che hanno conquistato non dipende solo dai governi nazionali e credo comunque che anche in Polonia e Ungheria – spiega Majman – la democrazia abbia ancora la forza per guardare avanti».
Il Sole 29.11.16
Le società di Pechino puntano sia sugli scali del Nord sia su quelli del Mediterraneo
Mire cinesi sui porti della Ue
Opportunità per l’Italia ma solo se banchine e logistica migliorano
di Raoul de Forcade
La Cina si sta muovendo con decisione alla conquista di terminal e aree portuali sia nel Mediterraneo che, in generale, in Europa. Una strategia che può rappresentare un’occasione storica per l’Italia ma solo a patto che dimostri di avere, o di essere in grado di realizzare in tempi brevi, infrastrutture portuali e logistiche all’altezza delle aspettative cinesi. In caso contrario il rischio è che il Paese rimanga tagliato fuori dalle opportunità di sviluppo offerte dal gigante dell’Oriente. A mettere in luce questa situazione è il rapporto annuale su Le relazioni economiche tra l’Italia e il Mediterraneo, di Srm (Studi e ricerche sul Mezzogiorno) che fa capo a Intesa Sanpaolo (si veda Il Sole 24 Ore del 26 novembre scorso).
«Gli investimenti del Dragone – si legge nel report, in una parte dedicata alla Cina - hanno strategie ben delineate che vedono il costituirsi di una tenaglia che afferra il Mediterraneo a partire da Suez fino ad Israele e ai porti turchi per avere punti di riferimento nell’area East-Med». Poi c’è «il Pireo che rappresenterà lo sbocco per i mercati Balcanici e un hub per il transhipment verso i porti di minore dimensione». A seguire, si legge nello studio, potrebbe arrivare Algeciras: la Cina è interessata al terzo terminal dello scalo spagnolo, per «servire i mercati del West Med e per avere l’ultimo riferimento prima delle rotte transatlantiche». Un punto di riferimento per il Nord-Europa, prosegue il report, «sarà altresì rappresentato dai porti di Rotterdam-Anversa e Zeebrugge dove la Cosco sta realizzando importanti investimenti e acquisizioni».
Cosco è la grande compagnia di navigazione di Stato cinese che, nel febbraio 2016, ha acquisito anche la China shipping, fusione grazie alla quale si sta formando un gruppo con asset per 80 miliardi di dollari (tra i quali 1.114 navi) . Il nuovo gruppo, tra l’altro, ha una rete di 46 terminal container, gestita da Cosco shipping ports, che è la seconda al mondo e movimenta 90 milioni di teu (container da 20 piedi) l’anno. Il primo operatore globale è la Hutchinson ports holding di Hong Kong.
Cosco è uno degli artefici della scalata cinese ai porti Ue. Si parte dal 2004, quando il gruppo acquista una quota del 20% dell’Antwerp gateway (Anversa). Successiva (2007) è l’acquisizione in Egitto del 20% del Suez canal container terminal (Apm terminals del gruppo Maersk ha il 55% della società ed è un alleato di Cosco in diversi porti). La società cinese controlla poi il 24% del terminal (sempre di Apm) di Zeebrugge (acquisito nel 2013 da China shipping). Nel maggio 2015, inoltre, la Cina stringe un accordo con Isarele che affida a Shanghai international port group la gestione (dal 2021) del porto di Haifa. A settembre, poi, i cinesi attraverso una joint venture di Cosco, acquisiscono il 26% del Kumport terminal di Istanbul. Ma è il 2016 l’anno in cui Cosco stringe sempre di più la tenaglia. In gennaio si accorda per acquisire il 67% del porto greco del Pireo (51% subito e il resto dopo cinque anni); in maggio è la volta del 35% di Euromax terminal Rotterdam; ed è di agosto la manifestazione di interesse per Algeciras. Nell’ottobre, infine, Cosco e Qingdao port international acquisiscono il 49,9% del terminal di Savona-Vado Ligure. La Hutchison port holdings, da parte sua, è già presente ad Alessandria d’Egitto, Barcellona, Duisburg, Rotterdam, Stoccolma, Gdynia in Polonia e, in Uk, a Felixstowe, Harwich e London Thamesport.
L’obiettivo cinese è di sviluppare la nuovaVia della seta su cui si stima un potenziale di interscambio da 1.300 miliardi di dollari. Per l’Italia, conclude lo studio Srm, «si presenta una sfida che varrà non soltanto per il porto di Venezia, che sarà verosimilmente coinvolto sulla Via della seta, ma per tutto il suo sistema di imprese manifatturiere e logistiche. Numerosi scali italiani sono caratterizzati dall’ingresso di navi cinesi e interessati da rotte da e per il Medio Oriente; solo a titolo di esempio Gioia Tauro, Napoli, Genova, Trieste, La Spezia e Livorno». Il punto è non sciupare l’opportunità.
Il Fatto 29.11.16
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di Andrea Scanzi
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