La Stampa 21.10.16
Un americano su due è schedato grazie al riconoscimento facciale
In Usa il primo studio sul software che identifica le persone da una foto
Serve per catturare criminali, ma a oggi non ci sono regole e limiti
di Carola Frediani
Immaginate
un classico confronto all’americana, con un sospettato da identificare
in una fila di persone, più o meno simili, in piedi. E immaginate che la
fila da cui scegliere si allunghi sempre di più fino a includere 117
milioni di adulti statunitensi. E che ad abbinare uno di questi
cittadini ai volti di indiziati, ripresi da qualche videocamera sparsa
per la città, siano degli algoritmi utilizzati dalle polizie di una
trentina di Stati come fossero un semplice motore di ricerca. Si immette
l’immagine del presunto criminale e si cerca un possibile collegamento
con una foto tratta dalle banche dati delle patenti di guida o delle
carte d’identità. Ebbene, non c’è più bisogno di immaginare: negli Usa è
già realtà.
Lo studio
Un americano adulto su due ha avuto
le sue foto sottoposte a questo genere di ricerche. A dirlo è il primo
studio onnicomprensivo sull’utilizzo delle tecnologie di riconoscimento
facciale svolto negli Stati Uniti, a firma di un autorevole istituto di
studi su privacy e tecnologia: «The Center on Privacy &
Technology» della Georgetown University. La tesi della ricerca è che
l’adozione del riconoscimento facciale sia inevitabile, anche ai fini di
sicurezza, e non possa o debba essere fermato. E tuttavia che allo
stato attuale sia del tutto deregolamentato e per nulla monitorato in
termini di uniformità di procedure, limiti di applicazione, efficacia.
La politica, quindi, dovrebbe intervenire in modo da gestirlo per tempo.
Diversamente, il rischio è che si crei una società del «confronto
all’americana perpetuo», come alluso nel titolo della ricerca: «The
Perpetual Lineup».
Senza regole
Tra le criticità, dice lo
studio, c’è il modo in cui sono usati questi sistemi. Un conto è fare
una ricerca per identificare qualcuno che è stato fermato o arrestato.
Un altro paio di maniche è avere l’immagine di un sospetto presa da una
videocamera e cercarla in un database composto dalle patenti di comuni
cittadini o da immagini riprese da videocamere mentre sono per strada.
Nel primo caso è una ricerca mirata e al contempo pubblica, palese. Nel
secondo è invece tanto generica quanto invisibile. Oggi, ogni
dipartimento o agenzia locale americana fa quello che vuole.
Andando
a pescare dagli archivi delle patenti però l’Fbi sta costruendo una
risorsa di dati biometrici che include cittadini rispettosi della legge.
Mentre storicamente le impronte digitali e il Dna sono stati raccolti
in relazione ad arresti o indagini criminali. Tutto ciò, dice lo studio,
non ha precedenti ed è problematico. Così come lo è l’impiego di video
in tempo reale registrati dalle telecamere di sorveglianza: sono almeno
cinque i dipartimenti di polizia che utilizzano funzioni di
riconoscimento facciale di questo tipo su videocamere in strada.
Inoltre, di 52 agenzie che adottano in generale questa tecnologia, solo
una proibisce espressamente il suo utilizzo per monitorare individui
coinvolti in attività politiche o religiose. Il rischio di utilizzi
impropri, discriminatori ad esempio verso afroamericani o minoranze, è
alto.
L’affidabilità del sistema
Lo studio mette poi sul
piatto il tema cruciale della verifica del funzionamento di tali
sistemi. Solo due agenzie hanno subordinato l’acquisto a test di
efficacia. E una delle maggiori aziende del settore, FaceFirst, che
sostiene di avere un tasso di accuratezza del 95 per cento, declina ogni
responsabilità nel caso in cui non raggiunga la soglia prevista dai
contratti con le agenzie locali. A ciò, va aggiunta l’assenza di
controlli e meccanismi per rilevare eventuali abusi: solo nove agenzie
su 52 registrano le ricerche effettuate nei database dai loro agenti.