il manifesto 18.10.16
Se l’orrore di Auschwitz finisce in tribunale
Alla
Festa di Roma «La verità negata», il film di Mick Jackson che racconta
la storia vera del processo intentato nel 1996 dal negazionista inglese
David Irving contro la studiosa americana Deborah E. Lipstad
di Mazzino Montinari
ROMA
Nel 1996 il negazionista inglese David Irving intentò una causa contro
la casa editrice Penguin Books e la professoressa statunitense Deborah
E. Lipstadt, rea di averlo diffamato nel libro Denying the Holocaust.
Per la docente di Studi ebraici moderni e dell’Olocausto dell’Università
di Atlanta, Irving era un apologeta del nazismo che nei suoi scritti
aveva falsificato i fatti, negando non solo il coinvolgimento di Hitler
con la questione ebraica ma lo sterminio stesso.Lo scontro giuridico tra
due persone si trasformò rapidamente in una questione di ben altra
portata, anche per la natura specifica del diritto britannico che affida
alla difesa, quindi al presunto diffamatore, l’onere di dimostrare la
propria innocenza. In altre parole, il processo, che si sarebbe tenuto
quattro anni dopo, metteva Lipstadt nella scomoda posizione di dover
dimostrare che lo sterminio degli ebrei fosse realmente accaduto.
Questa
è la premessa de La verità negata (Denial) di Mick Jackson, presentato
alla Festa del Cinema di Roma e in uscita nelle sale il 17 novembre. Un
lavoro sul negazionismo che resta distante, in termini di coraggio e
linguaggio cinematografico, da opere come ad esempio Il signor morte di
Erroll Morris, che raccontava la storia di Fred Leuchter, l’ingegnere
che progettava sedie elettriche e che in qualità di esperto nel «dare
morte» stilò un rapporto farneticante, ritenuto credibile da Irving, nel
quale si escludeva la possibilità che gli ebrei fossero stati uccisi in
massa dentro le camere a gas. Tratto dal libro della stessa Lipstadt,
Denial: Holocaust History on Trial, il film si limita a riportare i
fatti accaduti in quei quattro anni, concentrandosi sul punto di vista
della professoressa di Atlanta e sulla squadra di avvocati che affrontò
Irving in aula.
Dando spazio, in questo modo, anche a un
confronto, talvolta ironico, tra due approcci sostanzialmente diversi:
da un lato, la docente statunitense in tuta da ginnastica che la sera fa
jogging e, però, prende molto sul serio se stessa e il valore delle
testimonianze dei sopravvissuti; dall’altro gli avvocati inglesi, amanti
del buon vino, cerimoniosi nel loro indossare la parrucca durante i
dibattimenti e freddi calcolatori nell’affrontare un processo dove
l’unica cosa che conta è vincere, anche a costo di costringere le
ragioni delle vittime al silenzio. La verità negata, in realtà, più che
essere un film sullo sterminio degli ebrei sembra un thriller
giudiziario ben interpretato da un cast di primissimo livello, con tanto
di epilogo finale nel quale si aspetta spasmodicamente il verdetto,
quasi si trattasse di un episodio di Law and Order. Tutto viene giocato
intorno alla scelta degli avvocati di non chiamare a deporre né Lipstadt
né i sopravvissuti di Auschwitz, per impedire a Irving di umiliarli con
le sue tesi insulse e dar luogo a uno spettacolo nefando.
Auschzitz
diventa allora non il laboratorio del totalitarismo e il buco nero
dell’umanità, ma un semplice luogo del crimine, dove rintracciare le
prove di un delitto avvenuto tanti anni prima. Come morirono gli ebrei
nei campi di concentramento? Quale funzione avevano le camere a gas? Le
risposte le conosciamo molto bene, ma non per questo la verità e
l’autenticità dei fatti possono dirsi al sicuro.