lunedì 31 ottobre 2016

Corriere 31.10.16
Sotto la porta con mio figlio, la paura nuova
di Francesco Piccolo

Alle sette e quaranta ero in cucina con mio figlio di otto anni. Avevamo appena deciso di fare colazione. Ho sentito il pavimento vibrare appena e prima che il terremoto, lunghissimo, si rivelasse con i vetri che tremavano, i lampadari che oscillavano e i letti che si muovevano — gli altri nella casa si sono alzati urlando — io lo avevo già capito che cosa stava succedendo e cosa stava arrivando.
Ho passato tutta la vita a cercare di dimenticare il terremoto dell’80. Quello, l’ho vissuto come sto vivendo quelli di ora: non nell’epicentro, ma vicino o un po’ lontano. Ma fino a quel momento, nelle nostre vite il terremoto era una parola o sconosciuta o incomprensibile. E poi è accaduto ed è stato un fatto che ha determinato tutti gli atteggiamenti successivi: una catastrofe improvvisa che ti colpisce o ti sfiora, ma anche le misure che si possono prendere e la capacità di capire subito cosa sta avvenendo — mentre altri dicono, pensavo che stavano muovendo il letto, che avevano aperto la finestra, che mi girava la testa… Ho sentito altri terremoti, poi, tutti a Roma: quello dell’Aquila, quello di Amatrice, e quelli di questi giorni. E sempre so — da quel novembre di tanti anni fa — che cosa sta per succedere, come mi devo comportare, quanto controllare la paura. So aspettare che passi, so mettermi sotto una porta, so non precipitarmi per le scale. So soprattutto — e lo sapevo bene in questi giorni, o ieri mattina — che probabilmente il terremoto non è qui dove sono, ma da qualche altra parte. Allora corro sui siti dei giornali e aspetto di capire, aggiornamento dopo aggiornamento, cosa è successo. So che mentre io qui controllo la paura e cerco di ragionare, da qualche altra parte sta succedendo qualcosa di tragico e definitivo. So anche che mentre la scossa sta accadendo, mentre sento la terra tremare e vibrare tutto, l’epicentro potrebbe invece essere dove sono, potrebbe arrivare la tragedia qui dove sono io, in pochi secondi, e non posso fare nient’altro che aspettare, cercare un riparo in casa, proteggere mio figlio prendendolo per mano e portandolo sotto una porta che potrebbe non servire a niente. E aspettare.
I bambini sono incredibili, in questi momenti: lui il terremoto lo ha guardato, con curiosità; ho cercato di non fargli sentire il mio spavento (il mio primo vero spavento dall’80, e cercherò di spiegare perché), ma lui ha visto la madre urlare e correre, eppure ha guardato anche lei con curiosità. Come se fosse un fenomeno da studiare. Perché lui lo sa adesso cos’è il terremoto, lo ha sentito qualche giorno fa, ne hanno parlato in classe tante volte e in questi giorni aveva tra i compiti un esercizio di italiano che parlava del terremoto. Quindi era entrato a far parte del suo lessico, degli eventi della sua vita. Non si è nemmeno chiesto perché avevamo paura, perché sapeva anche questo, che la gente quando arriva il terremoto ha paura. Solo che lui , sapendo tutte queste cose, non l’ha avuta. E quando è successo di nuovo, lo ha guardato, e quegli occhi suoi curiosi e stupiti e per niente impauriti io non voglio dimenticarli più, perché vorrei essere così, nella mia vita da ora in poi, anche se so che non potrò più esserlo.
Eppure Roma ha tremato tutta, mentre il terremoto accadeva a qualche chilometro di distanza. La gente è scesa in strada, la città ha cambiato l’umore in questi giorni di ponti festivi e turismo.
Il problema è che questa paura è profonda, duratura. Ed è così per gli stessi motivi per cui a mio figlio il terremoto non ha fatto paura. Quello che ha aiutato lui a non spaventarsi, ha fatto spaventare me. Dopo il 23 novembre del 1980, quando questa cosa ha spinto via le nostre vite fino a quel momento, e quando io ho saputo cosa era un terremoto — tutti gli altri terremoti, tutti, fino a quello di Amatrice e poi quei due del 26 ottobre scorso, li ho vissuti con un timore temperato e consapevole, timoroso ma razionale. Io so cosa sta succedendo, dicevo.
Ecco, il terremoto di ieri mattina (di poche ore fa, mentre scrivo) ha imposto un’altra volta questo pensiero: io non so cosa sta succedendo.
Anche se, come mio figlio, sono dentro le parole e le conseguenze del terremoto da giorni: avevo appena letto i giornali e tutti parlavano del terremoto per pagine e pagine; ma soprattutto la sera prima ero tornato tardi a Roma perché avevo partecipato a un festival a Fabriano, riorganizzato in fretta in un parco (bisogna farlo a tutti i costi, dicevano gli organizzatori) perché tutti i bei luoghi dove bisognava farlo erano pericolosi: lì il terremoto del 26 ottobre è stato forte, la gente ieri sera aveva paura, ne parlava molto, molti erano tornati a dormire a casa da poco, altri continuavano a chiedersi se era meglio dormire in macchina.
Ecco, l’idea che il terremoto fosse una cosa vissuta da vicinissimo la sera prima, di cui avevo letto sui giornali la mattina dopo e dopo qualche minuto accadesse ancora una volta, questo non coincide più con le misure che avevo preso. Non lo capisco più, e non lo sta capendo più nessuno. Non è più solo quello che accade in quel momento, ma sta succedendo qualcosa, e io non so cosa. Penso alla casa — al palazzo, il mio e di ognuno, e penso che cosa può accadere se ogni tanto viene scosso così. Cosa sta accadendo che non sappiamo e che non possiamo sapere. Quando leggiamo gli articoli o un’intervista a un sismologo capiamo che sta cercando di spiegarci qualcosa, ma lui non capisce che noi vogliamo che ci dica un’altra cosa: che tra sei giorni dobbiamo stare fuori casa alle tre e mezza; oppure — meglio — che ci dica: va bene, sono finiti, potete stare tranquilli. Ma non può dircelo, può solo tentare di spiegarci dei fenomeni insoddisfacenti per le nostre ossessioni.
Insomma, adesso ho paura, di nuovo. Questa paura legata alla incapacità di capire: tanti anni fa, ero un ragazzo, ed ebbi paura perché era arrivato l’inaspettato, lo sconosciuto. Adesso la paura è legata a un evento conosciuto e atteso. E in qualche modo sembra più spaventoso pensare che potrebbe arrivare una scossa di terremoto, essere quasi in attesa che arrivi. E quella scossa arriva davvero.