martedì 7 giugno 2016

Repubblica 27.5.16
I tre messaggi di confindustria
di Fabio Bogo

SE QUALCUNO pensava che Vincenzo Boccia, una lunga carriera di imprenditore tutta costruita nelle stanze di Confindustria, iniziasse il suo cammino da presidente dell’associazione degli industriali con una pletora di lamentazioni finalizzate alla ricerca del consenso interno, è rimasto deluso. Perché nei 50 minuti del discorso fatto in assemblea il neo leader degli industriali ha lanciato tre messaggi chiari.
Il primo è quello rivolto alla politica. Le riforme vanno fatte — ha detto — e da sempre gli imprenditori sono favorevoli a meccanismi che accorcino i tempi decisionali e permettano di legiferare con provvedimenti che non rimangano solo annunci, ma accompagnino i mutamenti in corso nella società e il cambiamento dei cicli economici. Ora un’occasione c’è, quella delle riforme costituzionali. Su questo fronte Boccia ha fatto un assist a Renzi facendo capire che gli imprenditori appoggeranno il sì al referendum che in autunno dovrà dare il via libera o fermare le modifiche alla Carta. In questo modo Confindustria cerca di recuperare quel ruolo propulsivo che anni di sbiadite leadership hanno offuscato e reso impalpabile, rendendo l’organizzazione degli imprenditori un soggetto confinato a battaglie lobbistiche magari efficaci nel medio cabotaggio, ma di scarso peso nelle riforme essenziali per modernizzare e motivare il Paese. L’appoggio confindustriale non è di scarso peso nella partita del referendum, considerando l’eventuale mobilitazione del capillare apparato degli imprenditori presente sul territorio.
Il secondo messaggio è quello rivolto al sindacato, e la parola chiave è la produttività. È questo il vulnus che ha provocato la lenta decrescita italiana, e la responsabilità non è solo del sistema industriale. Il sindacato deve sedersi assieme ai datori di lavoro per riscrivere assieme le regole della contrattazione collettiva, non dando più la priorità a quella nazionale. Lo scambio salario-produttività è l’unico praticabile, cosa che si traduce in una semplice equazione: saranno pagati salari più alti se aumenterà la quantità di beni o servizi forniti dal dipendente. E le nuove regole, quando il confronto interrotto con le organizzazioni sindacali ripartirà, dovrà avere una diversa stella polare: a scriverle dovranno essere le parti sociali e non il legislatore.
Il terzo messaggio è quello rivolto agli imprenditori, e probabilmente era il più inatteso. Non basta lamentarsi dell’impoverimento del Paese, recriminare sulle leggi che non ci sono, puntare il dito su un fisco che non aiuta. I problemi ci sono ed è giusto sottolinearli, ma è ipocrita girare la testa dall’altra parte per non vedere quali sono le criticità in casa propria. E il discorso di Boccia è un attacco piuttosto esplicito a un capitalismo asfittico che ha sempre giocato in difesa, ha guardato con sospetto alla raccolta diretta di capitale di rischio, ha snobbato i fondi di private equity, si è opposto alla separazione tra proprietà e gestione delle aziende pensando che fosse cosa giusta nascondere sotto il tappeto le carenze di qualità imprenditoriali; dimenticando che, invece, è il mercato alla fine a fare la selezione tra chi va avanti e chi si ferma ed esce dalla partita. Il momento attuale offre ampi squarci di anomalie. Le si rintracciano nel crac delle banche venete, dove la cattiva gestione del credito si è associata spesso alla complicità degli industriali che hanno contribuito a depredare le ricchezze degli istituti per poi fuggire con canali preferenziali quando il clima si è fatto pesante. Lo è nella battaglia per il controllo di Rcs, dove un imprenditore che fa l’editore lancia un’offerta per il controllo del gruppo editoriale, e quello che resta di un vecchio patto tra non editori alza subito una diga, con una controfferta che protegge un investimento di capitali ma anche di influenza.
La sfida di Boccia e il richiamo alla necessità di svecchiare quel mondo è un elemento di novità. Bisognerà che il nuovo corso di Confindustria non si limiti a denunciarlo ma sia parte attiva in questa battaglia. Boccia non può non sapere che mentre chiede alle imprese di investire nell’industria del futuro e di ripensare l’impresa in termini di sviluppo digitale, una parte dei destinatari del messaggio è sorda. Un rapporto Unioncamere rivela che quattro imprenditori su 10 ritengono internet inutile alla loro azienda; che solo il 26,5 per cento di chi opera nel Made in Italy utilizza i social network per promuovere il proprio marchio; che appena il 5,1 per cento ricorre all’e-commerce. Boccia al governo ha chiesto leggi e fatti concreti, e non annunci. Dovrà ricordarsi di vigilare anche in casa propria.