Repubblica 27.5.16
I tre messaggi di confindustria
di Fabio Bogo
SE
 QUALCUNO pensava che Vincenzo Boccia, una lunga carriera di 
imprenditore tutta costruita nelle stanze di Confindustria, iniziasse il
 suo cammino da presidente dell’associazione degli industriali con una 
pletora di lamentazioni finalizzate alla ricerca del consenso interno, è
 rimasto deluso. Perché nei 50 minuti del discorso fatto in assemblea il
 neo leader degli industriali ha lanciato tre messaggi chiari.
Il 
primo è quello rivolto alla politica. Le riforme vanno fatte — ha detto —
 e da sempre gli imprenditori sono favorevoli a meccanismi che accorcino
 i tempi decisionali e permettano di legiferare con provvedimenti che 
non rimangano solo annunci, ma accompagnino i mutamenti in corso nella 
società e il cambiamento dei cicli economici. Ora un’occasione c’è, 
quella delle riforme costituzionali. Su questo fronte Boccia ha fatto un
 assist a Renzi facendo capire che gli imprenditori appoggeranno il sì 
al referendum che in autunno dovrà dare il via libera o fermare le 
modifiche alla Carta. In questo modo Confindustria cerca di recuperare 
quel ruolo propulsivo che anni di sbiadite leadership hanno offuscato e 
reso impalpabile, rendendo l’organizzazione degli imprenditori un 
soggetto confinato a battaglie lobbistiche magari efficaci nel medio 
cabotaggio, ma di scarso peso nelle riforme essenziali per modernizzare e
 motivare il Paese. L’appoggio confindustriale non è di scarso peso 
nella partita del referendum, considerando l’eventuale mobilitazione del
 capillare apparato degli imprenditori presente sul territorio.
Il
 secondo messaggio è quello rivolto al sindacato, e la parola chiave è 
la produttività. È questo il vulnus che ha provocato la lenta decrescita
 italiana, e la responsabilità non è solo del sistema industriale. Il 
sindacato deve sedersi assieme ai datori di lavoro per riscrivere 
assieme le regole della contrattazione collettiva, non dando più la 
priorità a quella nazionale. Lo scambio salario-produttività è l’unico 
praticabile, cosa che si traduce in una semplice equazione: saranno 
pagati salari più alti se aumenterà la quantità di beni o servizi 
forniti dal dipendente. E le nuove regole, quando il confronto 
interrotto con le organizzazioni sindacali ripartirà, dovrà avere una 
diversa stella polare: a scriverle dovranno essere le parti sociali e 
non il legislatore.
Il terzo messaggio è quello rivolto agli 
imprenditori, e probabilmente era il più inatteso. Non basta lamentarsi 
dell’impoverimento del Paese, recriminare sulle leggi che non ci sono, 
puntare il dito su un fisco che non aiuta. I problemi ci sono ed è 
giusto sottolinearli, ma è ipocrita girare la testa dall’altra parte per
 non vedere quali sono le criticità in casa propria. E il discorso di 
Boccia è un attacco piuttosto esplicito a un capitalismo asfittico che 
ha sempre giocato in difesa, ha guardato con sospetto alla raccolta 
diretta di capitale di rischio, ha snobbato i fondi di private equity, 
si è opposto alla separazione tra proprietà e gestione delle aziende 
pensando che fosse cosa giusta nascondere sotto il tappeto le carenze di
 qualità imprenditoriali; dimenticando che, invece, è il mercato alla 
fine a fare la selezione tra chi va avanti e chi si ferma ed esce dalla 
partita. Il momento attuale offre ampi squarci di anomalie. Le si 
rintracciano nel crac delle banche venete, dove la cattiva gestione del 
credito si è associata spesso alla complicità degli industriali che 
hanno contribuito a depredare le ricchezze degli istituti per poi 
fuggire con canali preferenziali quando il clima si è fatto pesante. Lo è
 nella battaglia per il controllo di Rcs, dove un imprenditore che fa 
l’editore lancia un’offerta per il controllo del gruppo editoriale, e 
quello che resta di un vecchio patto tra non editori alza subito una 
diga, con una controfferta che protegge un investimento di capitali ma 
anche di influenza.
La sfida di Boccia e il richiamo alla 
necessità di svecchiare quel mondo è un elemento di novità. Bisognerà 
che il nuovo corso di Confindustria non si limiti a denunciarlo ma sia 
parte attiva in questa battaglia. Boccia non può non sapere che mentre 
chiede alle imprese di investire nell’industria del futuro e di 
ripensare l’impresa in termini di sviluppo digitale, una parte dei 
destinatari del messaggio è sorda. Un rapporto Unioncamere rivela che 
quattro imprenditori su 10 ritengono internet inutile alla loro azienda;
 che solo il 26,5 per cento di chi opera nel Made in Italy utilizza i 
social network per promuovere il proprio marchio; che appena il 5,1 per 
cento ricorre all’e-commerce. Boccia al governo ha chiesto leggi e fatti
 concreti, e non annunci. Dovrà ricordarsi di vigilare anche in casa 
propria.
 
