Il Sole 8.6.16
Le troppe ambiguità di Pechino
La decisione di Bruxelles. La concessione del Mes avrebbe pesanti conseguenze occupazionali
di Fabrizio Onida
A
distanza di 15 anni dalla firma del Protocollo (1° novembre 2001) che
ha siglato l’ingresso della Cina fra i Paesi membri della Wto, il Paese
non è certo oggi una piena “economia di mercato”. Basta pensare anche
solo al primo dei cinque requisiti, che recita «non interferenza del
governo nelle decisioni operative delle imprese» (requisito che per la
verità non sarebbe scontato anche per molti Paesi capitalistici
occidentali…). USA e Giappone hanno già fatto capire che per loro la
Cina continuerà a essere «economia-non-di-mercato», anche se già dal
2013 più di 30 Paesi (fra cui Australia, Russia, Corea del Sud, Sud
Africa) hanno concesso alla Cina il Mes (Market economy status). Ma per
l’Europa sarebbe alquanto rischioso staccarsi dalla posizione americana,
in una fase in cui stiamo faticosamente portando avanti il confronto
sul Ttip.
Il Parlamento Europeo ha già chiesto alla Commissione di
non riconoscere il Mes alla Cina alla scadenza del 10 novembre 2016
prevista dall’art. 15 del Protocollo di 15 anni fa. Non scatta comunque
alcun automatismo, dal momento che lo stesso art. 15 prevede che il
riconoscimento del Mes è subordinato «alla legge nazionale del paese
importatore membro della Wto», cioè della Ue. Il timore, fortemente
sottolineato dai produttori europei di alcuni settori (acciaio, tessile,
ceramica, chimica, elettronica, carta) è che le 51 misure europee di
difesa anti-dumping attualmente in vigore contro la Cina (con dazi che
variano dal 15 a più dell’80% su singoli prodotti), dovrebbero essere
cancellate o fortemente ridimensionate, mettendo a rischio centinaia di
migliaia di posti lavoro e la sopravvivenza di importanti catene
produttive domestiche. Secondo stime dell’Economic policy institute di
Washington, basate su un modello che include le complesse
interdipendenze a monte e a valle fra settori manifatturieri e di
servizi interessati, una concessione unilaterale del Mes alla Cina
metterebbe a rischio da 1,7 a 3,5 milioni di posti lavoro in Europa nei
prossimi 3-5 anni.
Tutto scontato dunque per la diplomazia
europea? Non del tutto perché si tratta di una scelta politica che deve
tenere conto di vari aspetti, al di là dell’emotività e delle poco
concludenti dispute legali circa l’interpretazione dei testi.
Primo,
per le esportazioni extra-UE la Cina è ormai il secondo mercato di
sbocco, quindi eventuali ritorsioni commerciali cinesi (approvate dalle
regole Wto) potrebbero in futuro mordere su molti settori europei e
italiani oggi ben felici di soddisfare la domanda di beni di consumo e
di tecnologie in una delle aree mondiali a maggior crescita. Un piccolo
ma pericoloso precedente è la ripetuta condanna della Ue da parte del
tribunale d’appello Wto nel recente caso EC Fasteners (viti e bulloni).
Anche se una posizione allineata Ue-Usa troverebbe la Cina in posizione
di relativa debolezza nel minacciare ritorsioni pesanti.
Inoltre
Cina e Hong Kong assieme sono ormai secondi solo agli Usa come fonte
degli investimenti diretti mondiali, investimenti che il nostro governo
cerca comunque di attrarre. Uno scontro sul Mes introduce notevoli
attriti nel negoziato bilaterale Ue-Cina sulla protezione degli
investimenti.
Secondo, le regole Wto prevedono che, in presenza di
reali (o minacciati) gravi danni al proprio tessuto produttivo e
occupazionale, ogni paese importatore può introdurre legittimamente dazi
e misure di salvaguardia anti-dumping e anti-sussidio anche contro
altre «economie di mercato», per la durata di cinque anni o più. È pur
vero che la concessione del Mes comporterebbe da parte europea il non
facile (a dir poco) reperimento di dati su prezzi e sussidi praticati
dalla Cina, mentre lo stato di «economia-non-di-mercato» consente l’uso
di ampi margini di arbitrio nel definire l’entità dei dazi. L’industria
europea e americana chiede di essere rassicurata sulla robustezza delle
barriere attuali di difesa dal dumping cinese, anche se ciò può
implicare non poca incertezza sull’esito dei ricorsi in appello da parte
cinese.
Last but not least, non sono pochi i settori europei
produttori ed esportatori di prodotti complessi che sono felici di
utilizzare prodotti intermedi importati dalla Cina, come semilavorati
metallurgici, meccanici e chimici. Parliamo di autoveicoli e altri mezzi
di trasporto, elettromeccanica, elettrodomestici, elettronica, chimica
fine, arredo: tutti settori la cui voce oggi sembra assente, ma la cui
competitività internazionale è obiettivamente penalizzata da dazi
europei anti-dumping e anti-sussidio più pesanti di quelli imposti da
Paesi non europei con cui competiamo sui mercati mondiali. Una parziale
eccezione è stato il recente appello alla commissaria europea Cecilia
Malmström da parte di 21 associazioni europee di produttori di
attrezzature fotovoltaiche, per chiedere l’eliminazione dei prezzi
minimi di importazione dalla Cina di componenti come celle
fotovoltaiche, inverter e altri.
In conclusione, la materia va
trattata con decisione, ma insieme con grande flessibilità diplomatica,
aprendo un lungo confronto per rassicurare i produttori italiani ed
europei più minacciati dall’oggettiva concorrenza dell’offerta cinese.
Non è da escludere un riconoscimento del Mes accompagnato da precise
condizioni ed eccezioni a difesa. Come suggerisce Guido Gentili (Il Sole
24Ore del 14maggio) occorre individuare una soluzione politica a tutto
tondo, senza compromessi al ribasso per l’Europa ma evitando che Pechino
si senta tagliata fuori dal confronto.