venerdì 17 giugno 2016

Corriere 17.6.16
I versi di Rilke intrecciano senso e suono
di Paolo Di Stefano

Wal ter Benjamin diceva che il traduttore dovrebbe essere capace di risvegliare, nella sua lingua, «l’eco dell’originale». Sembra il minimo, e sarebbe già il massimo. Ma si sa che, quando hai a che fare con un grande poeta, il tentativo di toccare questo minimo (o massimo) è quasi disperato. Bene ha fatto, dunque, Ulderico Pomarici, nella premessa della sua silloge di Rainer Maria Rilke Le api dell’invisibile, pubblicata dal piccolo editore di Napoli arte’m (pp. 172, e 9), a richiamare, quasi mettendo le mani avanti, l’idea di Benjamin.
«Non si finisce mai davvero di tradurre», osserva Pomarici. Nel caso di Rilke ( nella foto qui sotto ), poi, avendo alle spalle gente del calibro di Errante, Traverso, Pintor, Zampa, Cacciapaglia e via di questo passo, si tratta di una vera e propria sfida. Pomarici, che è ordinario di Filosofia del diritto a Napoli e che si porta dietro da anni questa passione rilkiana, lo sa bene, non si scoraggia e dichiara subito, a scanso di equivoci, «la pressoché impossibile restituzione della musicalità del verso rimato, nonché il carattere spesso ellittico del linguaggio» del poeta praghese. Dunque sceglie una strada onesta, consapevole della inarrivabile «consostanzialità di senso e suono» che, secondo un esperto come Giorgio Orelli, grande traduttore (e ritraduttore all’infinito) di Goethe, è propria della poesia. Intanto, si escludono le raccolte più famose ( Duinesi , Sonetti a Orfeo e Nuove Poesie ), non rinunciando però a rappresentare, attraverso 42 testi, l’intero arco temporale della produzione di Rilke (dal 1897 al 1926, anno della morte) fino alle postume, agli abbozzi e alle dediche in forma di poesie. Nessuna intenzione di restituzione ritmica e sonora, dunque: la versione di Pomarici non gareggia con la tessitura dell’originale, la evoca sottraendosi alla sua camicia di forza, al punto da invitarci a leggere la raccolta sgombri dal confronto con i precedenti, avvertiti che «il metro di misura» adottato è una «fedeltà quasi letterale».
Fatte le prime opportune verifiche, si può procedere tranquillamente: il traduttore rimane fedele evitando la trappola della didascalia da perifrasi, accoglie gli snodi più oscuri senza scioglierli. Un servizio al lettore intelligente, non al lettore che vorrebbe tutto spiegato. E se è inevitabile che, nel conto delle perdite e dei profitti, ne soffra la riproduzione delle assonanze, in particolare delle frequenti aspirazioni originarie, la traduzione italiana offre una sua musica coerente, piana, fluida di andamento prevalentemente prosastico. Si veda il famoso incipit velare di Requiem per un’amica : «Ich habe Tote, und ich liess sie hin», reso con una pacata chiarezza felicemente accompagnata da una asperità fonetica tra dentali e rotanti: «Io ho morti, e li ho lasciati andare».
Sono per lo più poesie in morte, in cui è sempre presente quella coscienza «profondamente terrestre, beatamente terrestre» che Pomarici sottolinea nella prefazione. Il risultato è di incontrare versi belli in sé, come quelli che ci accompagnano attraverso il diafano paesaggio mitico di Orfeo ed Euridice: «E fra i prati, lieve e indulgente,/ apparve la striscia sbiadita di un cammino,/ come un lungo biancore disteso». È Rilke? È una sua possibile eco. È comunque quello spazio interiore del mondo ( Weltinnernraum lo chiamò il poeta) nel quale la scrittura poetica cerca di salvare ciò che è degno di essere salvato.