lunedì 30 maggio 2016

Repubblica 30.5.16
“Vi racconto Breivik a sangue freddo”
Esce il libro in cui la giornalista norvegese Åsne Seierstad ricostruisce la storia e la psicologia del terrorista di Utoya
Un’indagine alla Truman Capote: scambi epistolari con l’attentatore in carcere e voci di superstiti e testimoni
intervista di Andrea Bajani

Prima di scrivere “Uno di noi. La storia di Anders Breivik e del massacro in Norvegia” (Rizzoli), Åsne Seierstad ha provato a entrare in contatto con lui. Gli ha mandato una lettera nel carcere dove sta scontando la massima pena prevista dalla legge norvegese per aver compiuto quello che lui stesso ha definito «l’attentato più sofisticato e spettacolare che ci sia stato in Europa dopo la seconda guerra mondiale». La storia è nota: il 22 luglio del 2011, Breivik fa saltare in aria il quartiere governativo con un furgone pieno di esplosivo. Muoiono otto persone ma non l’allora primo ministro, che era l’obiettivo. Poi, armato e travestito da poliziotto raggiunge l’isola di Utoya, dove è in corso il raduno della Gioventù Laburista. Lì uccide sessantanove ragazzi. Quindi chiama la polizia: «Buongiorno, il mio nome è comandante Anders Behring Breivik del movimento anticomunista norvegese». Al processo rifiuterà di considerarsi colpevole: si è trattato, dirà, di un atto di difesa. Ha difeso il suo paese dall’invasione musulmana provando a sterminare la nuova generazione di “multiculturalisti”, troppo morbidi verso l’Islam e le sue minacce.
Quarantaseienne giornalista norvegese, Åsne Seierstad a quella lettera ricevette risposta soltanto un anno dopo. Non conteneva però una disponibilità vera e propria a collaborare. A sangue freddo, di Truman Capote, il faccia a faccia con il mostro, restava tra le letture del passato. Da lì un lavoro monumentale, la ricostruzione attraverso le testimonianze di decine e decine di persone, tra i superstiti, familiari, testimoni. Ne è venuta fuori una storia di sistematica esclusione, dalla famiglia, dal partito progressista, dalla comunità dei writers di cui cercò di fare parte. Åsne Seierstad cerca tracce di Breivik nel corpo della società, come se il «comandante del movimento anticomunista norvegese» fosse una bomba esplosa, e le schegge fossero conficcate in tutta la Norvegia.
Quando ha deciso di provare a mettersi in contatto con lui?
«Ho aspettato le perizie psichiatriche. Prima volevo capire se si trattava di un pazzo o se poteva essere ritenuto responsabile di quella strage. Quando è arrivato il verdetto, ho deciso di scrivergli. Mi ha risposto soltanto un anno dopo, ma per lui io ero una rappresentante del nemico. Ha comunque voluto negoziare, voleva che scrivessimo un libro insieme, voleva usare il mio libro per lanciare un messaggio al mondo. Naturalmente mi sono rifiutata, e la corrispondenza non ha avuto molto seguito».
Quindi non l’ha più sentito, direttamente?
«In verità sì, non ha veramente smesso. L’ultima lettera l’ho ricevuta nel novembre scorso, cioè solo 7 mesi fa. Sono tre o quattro pagine dattiloscritte».
Cosa le scriveva?
«Lui scrive moltissimo, in generale. Anche prima della strage, il suo problema è sempre stato quello di non essere letto. Utoya è stato il lancio per il suo libro, l’unico modo per farsi leggere, e lui lo sapeva. Nelle lettere, così come nel suo manifesto, si preoccupa di portare avanti i suoi progetti politici. Ora gli interessa dare forma al Nordic Fascist Party, come lo chiama: dà indicazioni sulla struttura del partito, sui membri da nominare. Oppure indica i rimedi per difendere la razza norvegese minacciata dal mondo musulmano».
Quali sono?
«Per esempio costruire nuovi ospedali per permettere alle donne norvegesi di riprodursi e fare molti figli».
Nel libro parla delle tante lettere che riceveva. Molte ammiratrici, qualche seguace. E scrive che la corrispondenza, sia in entrata che in uscita veniva emendata di ogni contenuto politico. Come mai la lettera che ha inviato a lei non è stata censurata?
«Da questo punto di vista non ci sono limitazioni: ai giornalisti può mandare quel che vuole. Non ci sono filtri carcerari. Tanto sanno che il filtro lo applichiamo noi, che non pubblicheremmo mai una lettera intera di Breivik sul giornale ».
Breivik le spedisce le lettere all’indirizzo del giornale?
«No, qui. A casa».
E come fa ad avere il suo indirizzo?
«Abbiamo abitato nella stessa via per tre anni, dal 2003 al 2006. Lui l’isolato dopo. Io non lo conoscevo, lui forse conosceva me. Comunque l’indirizzo gliel’ho lasciato la prima volta che gli ho scritto. Gli ho allegato la busta già affrancata con sopra scritto il mio recapito. È così che mi è arrivata la sua lettera: con la mia grafia scritta sulla busta. Quando l’ho vista nella buca e l’ho presa in mano, mi ha fatto un po’ impressione».
Questo era prima che lei scrivesse il libro. Poi il libro è uscito.
«E lui si è rifatto vivo. Mi ha scritto per chiedermene una copia».
Le ha poi mandato una sua recensione?
«No. Ma non gli è piaciuto. Nessuno era più autorizzato a pronunciare il mio nome in sua presenza, ha detto».
Che poi, rovesciata, è la strategia che era stata usata contro lui: non usare mai il suo nome proprio, chiamarlo solo il Terrorista. È ancora così?
«Sì. È una specie di tabù».
In questo periodo, però, con la crisi siriana e l’esodo in massa anche in Norvegia, pare ritorni sulle bocche delle persone, nelle strade.
«È vero. Ma non si può dire che abbia dei seguaci. Non qui di certo. Potrebbe avere qualche emulo in Russia, oppure nell’Europa dell’est, dove l’esodo è più forte e dove non a caso crescono a dismisura i simpatizzanti della destra. In Norvegia, però, no. Nessun politico, su nessun giornale, ha mai messo in relazione il nome di Breivik con i musulmani che stanno chiedendo asilo da noi come dovunque in Europa. Lo stato, su questo, è compatto».
E però proprio lo stato è uscito sconfitto nell’ultimo processo, pochi giorni fa. Breivik si è lamentato per le condizioni della sua detenzione. E quello stato che proprio lui ha colpito al cuore, è risultato in difetto nei suoi confronti. Non le sembra una specie di boomerang della democrazia, il segno di un baco nel sistema?
«Ora si andrà in appello, non è ancora detto. C’è qualcosa di troppo, in questo verdetto, mi sembra. E infatti anche i famigliari delle vittime, che fino a oggi erano stati in silenzio, questa volta sono insorti. Vediamo, che succederà in appello, che cosa diranno le autorità carcerarie ».