lunedì 30 maggio 2016

Repubblica 30.5.16
Perché l’Italia ha bisogno di una legge sulla libertà religiosa
di Alberto Melloni

L’ITALIA non ha una “politica” del pluralismo religioso e dunque non ha una legge sulla libertà religiosa. Alcuni pensano che la legge servirebbe, ma constatano che sembra impossibile “farla”: per questo si mandano in Parlamento disegni di legge contro la “radicalizzazione”, goffi nei termini e sfocati negli obiettivi, e nel contempo ci si consola con progetti generati in élites e dal futuro incerto. Altri dicono invece che la legge non serve e che la politica può ancora essere quella disegnata da Craxi: alla confessione maggioritaria un concordato; all’altro pezzo del cielo le “intese” dei privilegi in miniatura; e fuori gli islam, in attesa di trovare lo strumento giuridico capace di separare grano e zizzania islamica, operazione sempre delicata, a dar retta al vangelo.
Il successo delle intese, però, è giunto ad un punto delicato. Le intese facili, come quella coi buddisti “scissionisti “ del Soka Gakkai, sono oggettivamente inutili. Le intese pacifiche come quella con gli ebrei non impediscono vessazioni assurde: come quella che, per uno strafalcione non ancora corretto del DPR 19/2016, ha stabilito che un laureato in ebraistica non possa fare il concorso per insegnare alle medie, a parità di crediti specifici con un laureato in antropologia. Le intese agognate con gli islam risultano impossibili per l’infinito combinarsi delle sfumature teologiche ed etniche dei musulmani.
Fuor di questo ci sono soluzioni scorciatoie, diverse da quelle dei francesi che vietarono il foulard a scuola come misura anti- fondamentalista, ma non meno illusorie. Nessuno affronterebbe il problema delle scorie nucleari mettendo un’ora di educazione nucleare alle elementari e cercando camionisti “moderati”. Per le fedi — che non sono scorie, ma sementi — molto ci si illude sulla famosa “ora di religione”. E poco ci si protegge rispetto al momento in cui, come accadde all’ateneo di Bologna, un emiro verrà a finanziare la riduzione dell’immensa sapienza coranica a un bignamino wahabita.
L’Italia e la via italiana alla libertà religiosa può accontentarsi per sempre di questo? No, e per motivi storici.
La libertà religiosa “italiana” infatti nasce da una “tensione” costituzionale che non ha ancora esaurito le sue potenzialità.
Giuseppe Dossetti, che teneva i rapporti fra costituenti Dc e Santa Sede, mise nell’art. 8 della Costituzione un principio di libertà religiosa che eccedeva di molto la posizione dottrinale vigente nella chiesa di allora. E con una simmetrica forzatura per citare i “Patti Lateranensi” all’art. 7, in un
wording irritante per un antifascista, mostrò che la “pace religiosa” va difesa senza mai avere paura della realtà e rinunciando a priori all’illusione che lo Stato possa sindacare sulle religioni. Oggi i punti di riferimento sono del tutto diversi rispetto al 1946-1947, ma la sfida rimane quella. Trovare una libertà che forzi da dentro le cristallizzazioni culturali delle fedi: chiedendo loro di interrogare la complessità della loro storia, il meglio della loro tradizione, la profondità delle loro dottrine; fornendo loro strumenti e saperi (anche per questo è importante la traduzione del Talmud) vivi e vitali.
Il pluralismo religioso non può ridursi a un spazio di coabitazione delle fedi in attesa che il consumismo le secolarizzi e o che l’integrismo ne rafforzi una. Deve essere un tempo nel quale i “fidenti” — si fidino di Dio o dell’uomo, purché siano vaccinati rispetto alla prepotenza dell’io — possano diventare “con-sorti” e produrre la “sostanza morale”, direbbe Böckenförde, di cui si nutre la società libera.
Per far emergere questa “sostanza morale” lo Stato ha tre strumenti: il denaro, il sapere e la legge. Il denaro oggi non compra più molto e quel ch’è peggio crea un mercato del dialogo più inutile del mondo: quello nel quale le autorità si scambiano affettuosità, commoventi sì, ma sterili, se non impegnano le profondità della fede. Il secondo strumento è quello del sapere, nel quale si devono evitare passi falsi ed impegnarsi per dare rilievo europeo alla emersione di quella platea di dotti che in Europa conta migliaia di studiosi poco ascoltati dai decision makers. Il terzo strumento è quello della legge. Una legge che si fidi più del sapere che dei soldi e riconosca per tutti il valore di tutti i legami comunitari: quelli che centrano l’esistenza perché la decentrano.
In quella legge sì diventerebbe possibile sanzionare l’evocazione della motivazione religiosa nella perpetrazione di alcuni delitti — circonvenzione di incapace, la riduzione in schiavitù, l’istigazione all’odio razziale, eccetera: esattamente come la qualifica di “mafiosa” fa del sacrosanto diritto di associazione un crimine gravissimo.
Nessuno dei problemi di oggi può essere risolto da una semplice immissione di sapere e nemmeno dalla scrittura di una legge: ma nessun problema di domani sarà risolto senza una immissione di sapere e senza una legge che della libertà parli e della libertà si fidi.