Repubblica 17.4.16
tabù del mondo
Scultura, video,
performance, invenzioni multimediali... Nel nostro tempo sembra non
esserci spazio per i quadri. Eppure i grandi artisti hanno sempre
cercato un rapporto con l’assoluto, l’irraffigurabile, l’impossibile
Qualcuno, come fece Morandi, raccoglierà la sfida? Avrà il coraggio di
dipingere per dare voce al silenzio?
Non crediamo più nel miracolo della pittura
di Massimo Recalcati
Le
tendenze egemoniche dell’arte contemporanea hanno ormai da tempo
sentenziato la morte della pittura. Scultura, video, fotografia,
performances, installazioni, Body art, invenzioni multimediali, giochi
interattivi, hanno ormai occupato i musei decretando lo stato marginale,
comatoso e destinato all’estinzione, della pittura. Tutti sembrano
concordi: il gesto estremo di Jackson Pollock che piazza la tela a terra
sgocciolandovi sopra del colore avrebbe dato la stura ad un movimento
di uscita fuori dal recinto limitato e asfittico del “quadro” che non
conosce ritorni possibili. Non mancano i teorici più radicali di queste
tendenze che considerano la pittura orfana di uno spazio bidimensionale
che farebbe sussistere una versione ancora fatalmente “modernista” e
anacronisticamente idealizzata dell’opera d’arte (tra i tanti possibili
mi limito ad evocare Bois e Krauss, L’informe. Istruzioni per l’uso,
Bruno Mondadori 2003). Dunque buttare nella pattumiera la pittura, come
un residuo arcaico del Novecento, sembra essere un cavallo vincente del
conformismo intellettuale del nostro tempo. Ad esso si accompagna il
culto sempre crescente dell’escrementizio, del rifiuto, dello scarto,
dell’abietto, dell’informe, dell’orrido, del vandalismo,
dell’esibizionismo ostentato, dell’osceno, della provocazione e della
trasgressione perversa (sempre più farsescamente e paradossalmente
conformistiche) unito a quello, diametricalmente opposto, della diuresi
concettuale, dell’evaporazione minimalistica, della sterilizzazione
concettuale dell’opera. Il principio ispiratore è che l’arte deve
trascendere la dimensione formale del suo oggetto per coincidere con
l’azione stessa dell’artista.
La genesi sublimatoria dell’opera,
come viene chiarita da Freud e da Lacan, che comporta, invece, una
elevazione dell’oggetto artistico (di qualunque materiale esso sia
composto) alla dignità di una icona, subisce un brusco cambiamento di
direzione: dall’elevazione alla degradazione, dall’idealismo ingenuo
della superficie pittorica al carattere informe, sensoriale, materiale e
tecnologico delle nuove pratiche dell’arte. Alla natura verticale della
sublimazione si sostituisce quella orizzontale della desublimazione
“basso materialista”. Il coro sembra uniforme e compatto e non lascia
speranze: la pittura non ha più posto nelle tendenze egemoni dell’arte
contemporanea.
L’isolamento di coloro che nel nostro tempo non
rinunciano ad essere pittori ricorda l’insuperabile lezione di Giorgio
Morandi che in piena tempesta avanguardista e sperimentale,
attraversando il sangue della seconda guerra mondiale, riesce a
mantenersi assolutamente anacronistico rispetto alle “mode” imperanti
del suo tempo restando fedele alla pittura. Egli continua a pensare e a
praticare la “sua” pittura come pittura di cose. Dipinge bottiglie,
caffettiere, tazze e fiori, non come semplici presenze nel mondo ma come
cifre del mistero dell’assoluta presenza e dell’assoluta assenza.
Nella
fedeltà morandiana allo Stesso non risiede una lezione alla quale
dovremmo guardare con ammirazione? Non sarebbe auspicabile tornare alla
grandezza pura di questa fedeltà? È qualcosa che si può ritrovare anche
in artisti contemporanei come Jannis Kounellis o Claudio Parmiggiani
che, sulla scia di Alberto Burri, pur avendo dilatato il confine del
“quadro”, hanno, non a caso, sempre voluto essere considerati dei
pittori. Ma cosa significa essere pittori senza quadro? Significa non
cedere sul compito più alto della grande arte. Quale? Quello di provare a
raffigurare quello che sfugge alla raffigurazione, di rendere visibile
ciò che sfugge al visibile, di dare, come scrive Parmiggiani, “voce al
silenzio”. Ma non è forse diventato un vero e proprio tabù ricordare che
l’opera d’arte, come sanno bene i grandi artisti, intrattiene sempre un
rapporto con l’assoluto, con l’irraffigurabile, con l’impossibile, con
tutto ciò con cui non è possibile stabilire alcun rapporto? Certo, nella
storia dell’arte questo “assoluto” è stato nominato in modi differenti
(Cristo, il volto dei santi, la Natura, l’Infinito, il Colore, la
Materia, ecc.), ma in ciascuna sua espressione ritorna l’idea dell’opera
d’arte come un ponte che, come ha dichiarato Jannis Kounellis, deve
poter aprire sul “Mistero delle cose”. Questo significa che l’opera
d’arte quando è tale vive della sua sola immanenza anti-illustrativa –
ogni opera non vuole dire niente, non significa niente se non se stessa
–, ma proprio per questo deve rifiutarsi ad ogni sua riduzione
tautologica. L’immanenza dell’opera porta infatti sempre con sé
l’apertura di una trascendenza come una piega interna della sua totale
immanenza. Lo si vede magistralmente nelle sagome delle bottiglie di
Morandi come nei sacchi di Burri, nelle Delocazioni di Parmiggiani, come
nei binari coi sacchi di carbone o negli abiti trafitti da croci di
ferro di Kounellis. Qualcuno, come fece Morandi e come hanno fatto con
mezzi diversi artisti come, appunto, Burri, Kounellis e Parmiggiani,
raccoglierà la sfida che il nostro tempo getta sulla grande arte? Farà
ancora esistere il miracolo di una forma sottratta al culto dell’abietto
o al minimalismo sterile della tautologia? Qualcuno avrà il coraggio di
fare esistere ancora la pittura come apertura inaudita sull’invisibile?
Come invocazione e preghiera dell’assoluto?
L’elevazione
dell’oggetto artistico alla dignità di un’icona lascia il posto alla
degradazione e al carattere informe delle nuove pratiche