mercoledì 27 aprile 2016

La Stampa 27.4.16
Faccia a faccia con la morte, dove i curdi hanno fermato l’Isis
Professore universitario e reporter di guerra: il bizantinista Gastone Breccia descrive la sanguinosa guerra nelle aree del Kurdistan, dall’Iraq a Kobane
di Domenico Quirico

Strana inversione: i giornalisti che si vantavano, ai bei tempi, di esser coloro che raccontano la storia in diretta, «mentre accade», frequentano ormai con parsimonia i teatri di guerra, civile e non, faide fanatiche e risse postimperialistiche: troppo pericoloso, o troppo costoso. Anelano piuttosto all’editoriale. Meglio adocchiarle, le guerre, restando davanti allo schermo di un computer commentando le immagini che la Rete fornisce loro senza avarizia, o glossando da aggregati le veline degli stati maggiori. Oppure raccontano la guerra del sentito dire, ingegnosa casistica, lambendone i margini assai periferici, trasformando in informazioni, o emozioni, quello che altri, i superstiti, gli scampati, le vittime forniscono a costo zero. Volete forse dubitare di un sopravvissuto?
Al reporter, fattosi informatico e pantofolaio, si sostituisce per mietere osanna... lo storico. Sì: lo storico! Il torchiatore sistematico di documenti lascia le biblioteche e i chiericati universitari e scende sul campo in mimetica e scarponi chiodati, scrive quasi tra le cannonate quelli che, illo tempore, si chiamavano reportage. Prendete Gastone Breccia e il suo Guerra all’Isis, diario dal fronte curdo appena sfornato da Il Mulino. Il suo mestiere è insegnare storia bizantina (anche se con tentazioni «eretiche» ad esempio per i memorabilia della guerriglia).
Invece prende l’aereo, sbarca a Erbil, capitale dello stato curdo, cerca guide e contatti, e si mette in viaggio tra soldatesse tentatrici e baffuti peshmerga con i pantaloni a sbuffo fino al kurdistan siriano, fino a Kobane. Cammina cioè intrepidamente proprio sulla prima linea, laddove rombano le funeree retoriche del califfato sanguinario, lavorano con profitto urlatori e sgherri di Abu Bakr, il non misericordioso. E vi modula per noi accorati racconti della nuova guerra dei trent’anni.
Poiché il libro di Breccia è, esplicitamente, un atto giornalistico e non l’ennesimo saggio sulla geopolitica del Vicino Oriente, ci obbliga a riflettere sull’eterna contraddizione a cui è di fronte chi si fa cronista della guerra, e quindi della morte: voi volete vedere, e nello stesso tempo non volete farlo. Per me, ma credo sia esperienza universale, il momento è venuto quando per la prima volta ho visto alcuni morti abbandonati in una strada dopo una battaglia, ed erano stranamente in fila, gli uni accanto agli altri e sembravano toccarsi e tenersi, insieme, aggrappati fino all’ultimo ricordo della vita. E poi è accaduto di nuovo con gli altri, quelli ancora vivi, ma che già portano in sé la morte come un feto. Gregge smarrito di uomini curvi, grondanti, che si sono interrati in una zona degli abissi perpendicolari e stanno lì, in quell’angolo più maledetto degli altri, dove ancora esita l’uragano che li annienterà. Bagliori infernali ne scoprono gli allineamenti. Uragani di mannaie li strapiombano, miniere mortali di ferro stanno sopra a quei dannati. Aspettano, intenti alla solennità della sorte che li attende e che li ha già imprigionati. Si stenderanno per sempre attorno al punto in cui sono. Come gli altri prima di loro e quelli che li seguiranno.
Le loro grida non oltrepasseranno la terra più delle loro bocche. La loro gloria non lascerà i loro poveri corpi.
Inutile girarci intorno: è la relazione con la morte l’essenza stessa di chi sceglie di esser testimone della guerra, che sia giornalista o professore. Lo sconvolgimento di quell’immagine attraverso cui dovete passate per raccontarla è prodotto, come in geologia i vulcani, dalle placche della nostra umanità che sfregano l’una con l’altra, mosse da una coppia di forze opposte, appunto il desiderio di vedere la morte, il desiderio di morte, di capirla forse vedendola, e il suo opposto, la paura di farsi ammazzare.
Il libro di Breccia si aggiunge all’insieme delle immagini, epiche e patetiche, stereotipate e nuove, confuse e perentorie, che testimoni vecchi e nuovi offrono per arricchire la guerra, via via mostrata per quello che essa è, una condizione tesa all’estremo tra la vita e la morte. Senza questo galleria di immagini a cui contribuiamo con articoli e libri, essa sarebbe nuda, ovvero impensabile. Perchè noi, la guerra, vogliamo sempre vederla vestita, abbigliata. Ma quando ci troviamo di fronte a una morto la guerra è nuda, bruscamente. L’immagine della vittima la sveste sempre di qualche cosa. Perché esce dalla sua regione mitologica per prendere l’aspetto, orribile, dell’istante in cui muore uno di noi a causa sua. Ovvero a causa nostra.