Repubblica 26.3.16
Cristiani o no siate giusti e sarete salvi
Il senso vero della Pasqua è che la redenzione riguarda tutti gli esseri umani ed è legata al bene e all’amore
È estranea alle parole di Gesù l’idea che solo chi crede possa rialzarsi dalla caduta
di Vito Mancuso
«La
Chiesa è rimasta indietro di 200 anni», dichiarò il cardinal Martini
nell’ultima intervista, ma io penso che tale ritardo ecclesiastico sia
l’espressione di un più preoccupante ritardo del cristianesimo in quanto
tale, sempre più incapace di sostenere il suo annuncio fondamentale. Fa
problema il centro stesso della fede cristiana, cioè la salvezza. Come
pensarla? Qual è la sua specificità? Roger Haight, gesuita americano,
descrive così la situazione: «Il significato della salvezza rimane
elusivo; ogni cristiano impegnato sa che cos’è la salvezza finché non
gli si chiede di spiegarla ». Non c’è religione senza salvezza, ci sono
religioni senza Dio, nessuna senza salvezza. Per il cristianesimo la
salvezza scaturisce dalla
Pasqua di Cristo, al cui riguardo si
legge nel Catechismo cattolico: «Vi è un duplice aspetto nel Mistero
pasquale: con la sua morte Cristo ci libera dal peccato, con la sua
Risurrezione ci dà accesso ad una nuova vita» (art. 654). Questo è il
centro del messaggio: la salvezza come redenzione operata da Cristo. Il
concetto di redenzione è sconosciuto alle altre religioni: Mosè, Buddha,
Confucio, Maometto sono legislatori, maestri, profeti, saggi, non
redentori, non sono cioè essi a dare la salvezza, che è invece ottenuta
dai fedeli seguendo i loro insegnamenti. Il cristianesimo si distingue
perché ritiene l’umanità corrotta dal peccato originale e incapace di
meriti spirituali, e quindi annuncia la salvezza come operata
gratuitamente da Dio mediante la redenzione ottenuta da Cristo. Ogni
anno la Pasqua è la solenne celebrazione di questo evento. Esaminando la
storia di tale dottrina si vede che il primo a formularla fu San Paolo.
Egli scrive: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma
sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della
redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire
come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue» (
Romani 3, 23-25). Paolo afferma che la morte di Cristo è stata voluta
direttamente da Dio e altrove aggiunge: «Colui che non aveva conosciuto
peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore» ( 2 Corinzi 5,21).
Leggendo
i suoi scritti in ordine cronologico si scopre però che non sempre San
Paolo la pensava così. Nella sua lettera più antica infatti egli non
parla della morte-risurrezione di Cristo come di un atto redentivo, né
dell’evento salvifico come già avvenuto. Al contrario per lui la
salvezza deve ancora attuarsi. Ecco come: «Il Signore stesso, a un
ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio,
discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi
noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con
loro nelle nubi per andare incontro al Signore» ( 1Tessalonicesi
4,16-17). Paolo scrive che Cristo è morto «per noi», ma non fa dipendere
la salvezza da quella morte, prova ne sia che non ritiene quest’ultima
voluta da Dio (come invece sosterrà in seguito) ma dagli ebrei, come
appare da queste parole destinate nei secoli ad alimentare
l’antisemitismo: «I giudei hanno persino messo a morte il Signore Gesù e
i profeti, e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e
sono nemici di tutti gli uomini » (2,15-16). Qui non c’è un piano di Dio
che manda il Figlio a morire, c’è piuttosto l’inimicizia degli ebrei
che hanno ucciso Gesù, il quale però è stato risuscitato da Dio a chiara
dimostrazione della mutazione della storia che si realizzerà con il suo
imminente ritorno. La stessa impostazione si ritrova in 1Corinzi.
San
Paolo cambia presto prospettiva ed è facile capire il perché: la
mancata venuta di Cristo lo induce a porre il centro focale non più nel
futuro ma nel passato, Cristo è il salvatore non perché tornerà
vittorioso ma perché è morto offrendosi al Padre e riconciliandoci a lui
con il suo sangue. Cristo diviene così il redentore crocifisso. È in
questa luce che vent’anni dopo vengono composti i Vangeli. Essi però,
riportando anche il pensiero di Gesù, permettono di sollevare la
questione decisiva: Gesù pensava la salvezza come redenzione oppure, da
ebreo osservante, la legava al responsabile esercizio della libertà?
Vi
sono testi evangelici in linea con la teologia della redenzione, per
esempio quando Gesù dice di essere venuto per «dare la propria vita in
riscatto per molti» ( Marco 10,45) o quando nell’ultima cena pronuncia
le note parole: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per
molti, in remissione dei peccati » ( Matteo 26,28). Nei Vangeli però vi
sono molti altri testi che presentano la salvezza legata non a un evento
esterno ma alle azioni liberamente poste, secondo la tradizionale
concezione ebraica della salvezza come esito della fedeltà all’alleanza,
cioè come giustizia. Io penso anzi che a Gesù la dottrina della
redenzione non sarebbe piaciuta per nulla, c’è tutto il Discorso della
montagna a dimostrarlo, a partire dalle parole del Padre Nostro sul
ruolo attivo della libertà: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li
rimettiamo ai nostri debitori». Gesù prosegue: «Se voi infatti
perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdone-
rà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre
vostro perdonerà le vostre colpe» ( Matteo 6,12-15). La mossa decisiva
spetta alla libertà umana, la quale per Gesù è in grado di operare anche
il bene perché non è irrimediabilmente corrotta, come invece dirà San
Paolo e più radicalmente Sant’Agostino.
L’idea di una libertà
efficace in ordine alla salvezza si ritrova in molti altri passi
evangelici tra cui: «Col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e
con la misura con la quale misurate sarete misurati» ( Matteo 7,2). Il
principio salvifico è quindi legato alla prassi responsabile: «Non
chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui
che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» ( Matteo 7,21). Il
Discorso della montagna, cuore del messaggio di Gesù, è un appello alla
libertà quale via efficace per il conseguimento della salvezza.
A
questo punto appare evidente la problematicità della successiva
costruzione teologica cristiana basata sulla redenzione, da cui la
difficoltà nel rispondere alle seguenti questioni: 1) In cosa consiste
propriamente la redenzione operata da Cristo? 2) L’atto redentivo vero e
proprio è la morte di croce o è la risurrezione? 3) Qual è la sorte di
chi non vi partecipa? 4) Da cosa si viene redenti: dalla morte, dal
Diavolo, dall’egoismo, dal mondo, dal castigo di Dio, dalla Legge, dal
peccato, o da tutto questo messo insieme? La radice dell’aporia risiede a
mio avviso nell’idea di una specificità cristiana della salvezza in
quanto legata a un determinato evento storico, cioè nell’impostazione
data al cristianesimo da san Paolo ed estranea a Gesù. In realtà occorre
pensare che la salvezza è sempre stata disponibile agli esseri umani, a
qualunque religione o non-religione appartengano, perché è legata al
bene e alla giustizia. È il Vangelo ad affermarlo: «Venite, benedetti
dal Padre mio, riceverete in eredità il regno preparato per voi fin
dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi
avete ospitato, nudo e mi avete vestito» ( Matteo 25,34-36). Nel Libro
dei Morti dell’antico Egitto vi sono parole analoghe: «Ho soddisfatto
Dio con ciò che ama: ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato,
vestiti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva» (cap. 125). Il testo
risale a 1500 anni prima di Cristo e dicendo le stesse cose mostra il
vero senso della salvezza, che mai mancò al genere umano, ben prima del
cristianesimo storico: la liberazione dall’ego e l’apertura al bene,
all’amore, alla giustizia. Io ritengo non implausibile pensare che, in
chi pratica questo stile di vita, possa generarsi una peculiare
disposizione della sua energia costitutiva (ciò che tradizionalmente si
chiama anima) in grado di vincere la curvatura dello spazio-tempo.