il manifesto 1.3.16
L’esperienza delle cose che declina la condizione umana
Simone Weil. «L’indicibile tenerezza» di Eugenio Borgna per Feltrinelli editore
di Riccardo Mazzeo
Nel
suo ultimo libro Eugenio Borgna (L’indicibile tenerezza. In cammino con
Simone Weil, Feltrinelli) , che da anni prova a fare i conti con la
«sragione», che è soltanto l’altra faccia della ragione e spesso
depositaria ancor più attendibile della sua verità profonda, ricorda
Karl Jaspers, psichiatra e filosofo che raccomandava agli psichiatri,
ancor più dei testi specifici della disciplina, la lettura dei grandi
romanzi per aumentare le proprie capacità di comprensione del mistero di
ogni malato e di rivestire per lui un ruolo benefico.
Eugenio
Borgna è uno dei grandi esperti di salute mentale ma non è l’unico a
considerare la letteratura una risorsa per chi si occupi di sofferenza
psichica: in un libro che ha venduto più di 300mila copie senza essere
stato scritto da Stephen King, Counseling centrato sulla persona
(Erickson), i due psicoterapeuti Dave Mearns e Brian Thorne mostrano con
assoluta evidenza quanto la facoltà di psicologia sia più incline a
disabilitare che ad abilitare i futuri psicologi rispetto ai compiti che
li attendono: i test, le diagnosi sulla base del Dsm-5 (il manuale
diagnostico dei disturbi mentali), le «competenze» scientifiche
acquisite possono essere utili a patto di non annullarsi in una serie di
operazioni che annegano nell’acquitrino del «fare» le istanze fragili e
vitali del «sentire» e del «con-sentire». L’autore lancia un monito
rispetto a «quelle psichiatrie descrittive e astratte che non farebbero
se non classificare, catalogare e fare confluire in una delle loro
straripanti e infinite formulazioni diagnostiche modi di vivere e modi
di essere di creature eccezionali, come lo è stata Simone Weil,
ignorando gli sconfinamenti continui, che ci sono in noi, dalla
normalità alla sofferenza psichica, e da questa a quella».
Simone
Weil giovanissima insegna filosofia nei licei ma d’un tratto sente di
dover toccare con mano la condizione di chi lavora nelle fabbriche e per
molti mesi decide di lasciare l’insegnamento per consegnarsi proprio a
quel lavoro, che non solo la sfibra anche a causa dei suoi ricorrenti
mal di testa, ma le fa comprendere come la trasformazione delle persone
in bestie da soma finisca per inibire finanche la capacità di pensare.
Lei vuole agostinianamente capire. Come Borgna. E lo fa calandosi in
declinazioni della condizione umana che la fanno «con-sonare» con i suoi
simili. Per questo diventerà una rappresentante sindacale, e per la
stessa ragione parteciperà alla Guerra di Spagna e in seguito cercherà
di farsi paracadutare nella Francia occupata dai nazisti per combattere.
Certo,
la vita di Simone Weil è attraversata atrocemente da un malheur che non
verrà mai meno e che induce Borgna ad apparentarla ad altri grandi
geniali sofferenti come il Leopardi dello Zibaldone, il Nietzsche de La
gaia scienza, la Emily Dickinson dei versi: «C’è un dolore – talmente
assoluto – che ti risucchia l’essere», l’eternamente amato Rainer Maria
Rilke secondo cui il dolore «riconduce nell’interiorità l’esteriorità
della nostra esperienza delle cose». Ma il dolore, anche quando come per
Simone Weil spinge sulla soglia del suicidio e imprigiona nel corsetto
cosparso di aculei dell’anoressia, è parte integrante del nostro essere
persone e per lei, che secondo Ingeborg Bachmann era cresciuta in una
famiglia simile a quella di Proust, con un fratello ingombrante da amare
e invidiare, fu il fomite delle sue contraddizioni e della sua
bruciante creatività che la fecero morire a trentaquattro anni e che le
permisero di lasciarci una testimonianza della molteplicità
incandescente e della caotica lirica bellezza della sua vita e
potenzialmente di ogni vita.