domenica 27 marzo 2016

«Heidegger e Platone, insomma, divergono perché hanno una diversa concezione della realtà e del filosofo — dell’intellettuale, diremmo noi oggi. Il libro di Donatella Di Cesare sui Quaderni neri, da poco uscito in seconda edizione, aiuta a chiarire il problema» (sic!) 
Corriere La Lettura 27. 3.16
Platone intellettuale disorganico
Al contrario di Martin Heidegger, che si richiamava di continuo ai vincoli collettivi, l’autore greco riteneva che il filosofo dovesse opporsi ai luoghi comuni dominanti proponendo idee nuove per il governo della città. Anche a costo di esporsi e rischiare
di Mauro Bonazzi

Il 21 aprile 1933 Martin Heidegger fu eletto rettore dell’Università di Friburgo. Adolf Hitler era al potere dal 30 gennaio, il 1° maggio Heidegger aderiva ufficialmente al partito. Il 27 maggio tenne la prolusione inaugurale, L’autoaffermazione dell’università tedesca , una rivendicazione della missione politica dell’università, che doveva schierarsi in prima linea nella costruzione del nuovo ordine. Era il tempo della chiamata del destino: il filosofo aveva risposto, ponendosi alla guida della sua comunità, pronto per la «lotta» (parola che ritorna ossessivamente nel discorso) in un cammino «da cui non vi è ritorno». Come Platone, pensarono tanti (e molti ripetono oggi), che nella Repubblica aveva descritto lo Stato ideale e non aveva esitato a imbarcarsi per Siracusa, pieno di vergogna se si fosse rivelato un filosofo «buono solo a parlare, ma incapace di tradurre in atto le sue idee».
Il rinvio era quasi d’obbligo. Nella Germania di quegli anni Platone era, insieme a Nietzsche, un punto di riferimento imprescindibile, tanto per ideologi come Hans Günther o Alfred Rosenberg quanto per gli studiosi eredi della grande tradizione accademica tedesca. Sempre in quel 1933, ad esempio, Kurt Hildebrandt, professore a Kiel, pubblicava Platone. La lotta dello spirito per la potenza , un tomo voluminoso e tutt’altro che banale (fu tradotto anche in italiano da Giorgio Colli, per Einaudi nel 1947), per celebrare l’eroica battaglia di Platone in difesa della patria, contro caos e disordine. Platone, il filosofo guerriero e «l’educatore dell’uomo tedesco». Il titolo, con la parola Kampf , «lotta», a evocare il Mein Kampf di Hitler, spiegava da solo fin troppo.
Nello stesso spirito, il discorso di Heidegger culminava con una citazione di Platone, esaltante e minacciosa allo stesso tempo: «Tutto ciò che è grande è nella tempesta». Era come un crescendo wagneriano, capace di evocazioni inattese, di paralleli illuminanti. «Tempesta» in tedesco è Sturm : come Sturm-Abteilung , le SA, insomma, le famigerate camicie brune, che avevano accompagnato il Führer alla conquista della Germania e che ora sedevano tra i banchi dell’Università di Friburgo, raccolte intorno al filosofo nell’ora decisiva. Il sogno di Platone finalmente si avverava.
Il problema, però, è che Platone aveva scritto un’altra cosa. Convinto che tra il greco e il tedesco corresse un’affinità intima ed essenziale, Heidegger non ha mai avuto paura di tentare traduzioni ardite in cerca di sensi reconditi o verità nascoste. Ma in questo caso (e non è il solo) nessuna rivelazione attende il lettore: molto banalmente la traduzione è sbagliata. Nel testo si legge che «ciò che è grande è instabile». Non è un dettaglio da poco, perché cambia tutto. La distanza tra Heidegger e Platone si misura anche da qui.
Nato nel 1889, Heidegger ha accompagnato la Germania nella catastrofe da adulto. Platone ha assistito al tracollo di Atene da giovane. La guerra persa contro Sparta, il conflitto civile in cui gli aristocratici (molti dei quali suoi parenti) si erano macchiati di violenze e misfatti, il processo democratico contro Socrate: non c’è da stupirsi se maturò la convinzione che si dovessero cercare nuove strade, lontano dalle piste battute della politica tradizionale, per rifondare la città su basi solide. È questo il senso della tesi tanto abusata della Repubblica : non ci sarà fine ai mali degli uomini fino a quando i filosofi non governeranno o i governanti non diventeranno filosofi. La filosofia deve farsi carico della città. Ma non c’è niente di enfatico nelle parole di Platone. Socrate prevede che la sua affermazione sarà accolta da derisione e disprezzo; Glaucone, il suo interlocutore, paventa addirittura che molti lo inseguiranno con i bastoni. Come succede al filosofo nel mito della caverna: cerca di liberare i suoi compagni dalle catene e loro lo uccidono. Allegorie trasparenti, che evocano la morte del Socrate storico e rivelano il disincanto di chi sa quanto sia difficile opporsi al potere dei pregiudizi e dell’ingiustizia.
Ma perché impegnarsi allora, tornare nella caverna?
È la domanda che, in quegli stessi anni, si poneva Leo Strauss: ebreo, aveva seguito le lezioni di Heidegger, e presto sarebbe stato costretto all’esilio. Con Platone nella valigia, leggendolo e rileggendolo, in cerca del suo messaggio profondo. I problemi in effetti non mancano, perché la Repubblica si regge su una contraddizione evidente. La gente non vuole che il filosofo governi (e infatti lo uccidono); il filosofo, immerso nelle sue conoscenze, non ha nessun interesse a governare: perché mai dovrebbe allora rientrare nella caverna? Non sarà che la Repubblica , paradossalmente, ci vuole insegnare proprio il contrario di quello che afferma, vale a dire che politica e filosofia devono restare separate? Era un’idea che aveva solleticato Aristotele, come spiega Giuseppe Cambiano nel suo ultimo libro Come nave in tempesta (Laterza), e che Strauss ha sviluppato approfonditamente, a partire dal saggio Una nuova interpretazione della filosofia politica di Platone (pubblicato nel 1946 e ora tradotto da Quodlibet).
Il filosofo, però, rientra nella caverna. Perché? Forse perché, a pensarci bene, non ne è mai uscito. Perché è sulla stessa barca, spiega ancora Cambiano, e rischia di affondare con gli altri. E soprattutto perché, senza la compagnia degli altri uomini, non sarebbe più uomo neanche lui. Non gli resta allora che combattere per le sue idee, discutere, spesso esporsi al ridicolo, a volte rischiare la vita. In fondo l’utopia platonica è tutta qui: non l’elaborazione di un modello perfetto da imporre con la forza, ma una riflessione critica che ci aiuti a comprendere e correggere il mondo in cui viviamo. Tra ideale e reale c’è sempre una frizione, un contrasto latente. Il rischio, ben presente nelle scelte di Heidegger, è quello di dimenticare il primo per appiattirsi sul secondo; il compito della filosofia, per Platone, è evitare questa deriva, che conduce al cinismo di chi pensa che nulla possa cambiare, e che l’affermazione di se stesso sia l’unico valore da adottare. Immaginare il non-luogo (l’utopia, appunto) per tenere aperto il campo del possibile, come ha detto Paul Ricœur. Per questo, quando ne ha avuta la possibilità, Platone si è imbarcato alla volta di Siracusa, per convertire Dionisio alla filosofia.
Riesce difficile immaginare qualcosa di analogo tra Heidegger e Hitler. Non ci sono destini da cavalcare, ma la consapevolezza di chi è pronto a impegnarsi per cambiare quello che non va. Contro il suo tempo, per il suo tempo. Non è un compito facile, il prezzo da pagare a volte è alto. Ma «ciò che è grande è instabile»: fragile, rischioso, e per questo deve essere difeso.
Heidegger e Platone, insomma, divergono perché hanno una diversa concezione della realtà e del filosofo — dell’intellettuale, diremmo noi oggi. Il libro di Donatella Di Cesare sui Quaderni neri, da poco uscito in seconda edizione, aiuta a chiarire il problema. Per Heidegger, il filosofo è organico alla sua comunità, radicato nella sua terra; parla in suo nome e in sua difesa, da lei traendo ispirazione e autenticità. Sono idee condivise in quegli anni, che ritornano anche oggi nel rinvio ossessivo alle nostre radici, manco fossimo alberi, o nei continui inviti a difendere e preservare la nostra identità (senza peraltro mai chiarire in cosa consista, poi, questa identità). La polemica è contro chi rifiuta questo rapporto: «sradicati», incapaci perciò di profondità; privi di legami con la comunità del popolo, indifferenti dunque al destino della patria che li nutre. Pericolosi. Il bersaglio principale, inutile dirlo, erano gli ebrei, il popolo del deserto, dove non si possono mettere radici. E con loro gli intellettuali, capaci solo di pensieri astratti, propagatori di principi vuoti perché universali. Ma non è questa anche la posizione di Platone?
Il termine più usato per descrivere Socrate, nei dialoghi platonici, è atopos . Lo si traduce spesso con «bizzarro, strano», per indicare l’originalità della filosofia e anche il fastidio, o il disprezzo, con cui essa viene accolta da chi mal sopporta di veder messe in discussione le proprie certezze. Ma il termine dice di più. A-topos , alla lettera, significa «senza luogo». Ed è in questo significato che rivela la natura autentica del filosofo, la sua libertà. Il filosofo: privo di radici, e perciò libero di muoversi; libero dai luoghi comuni della sua terra; libero di alzare lo sguardo verso altre realtà. Come l’albatros di Baudelaire, goffo sulla tolda della nave, «esule sulla terra», ma «re dell’azzurro» quando finalmente dispiega le ali, in volo, negli spazi sconfinati del cielo (sconfinati come lo sono quelli del deserto, viene da chiosare, in cui gli ebrei riconquistarono la libertà). E per questo utile per la città, quando può mostrarle nuove strade, aiutarla a non arroccarsi in se stessa. Non è per nulla semplice il mestiere del filosofo, sempre in bilico tra la tentazione di perdersi negli spazi sconfinati dell’ideale e i rischi concreti che lo attendono all’interno della caverna. Ma proprio per questo è così appassionante.

Il Sole Domenica 27.3.16
Il Talmud rinasce dai roghi
È molto più di una raccolta di norme e interpretazioni della legge ebraica. Un libro dialogico e aperto nel quale neppure Dio può avere l’ultima parola
di Giulio Busi

È il libro più vilipeso, cancellato e bruciato della storia occidentale. Portato al rogo a carrettate, imbrattato d’inchiostro per renderne illeggibili le carte, letteralmente strappato di mano ai suoi lettori. Che il Talmud approdi ora a una traduzione integrale in italiano, con i fondi e l’interessamento dello stato, è una giusta, seppur tardiva riparazione a tanti torti. C’è qualcosa, nell’opera smisurata, imbastita da generazioni di maestri ebrei, che l’ha resa capace di tener testa all’incomprensione e al malanimo. Credo che l’energia che circonda queste migliaia e migliaia di parole, e che le conserva ancor oggi ben vitali, sia il loro carattere corale.
Il Talmud è innanzitutto una raccolta di norme giuridiche, d’interpretazioni e di opinioni sulla legge ebraica. Ma è ancor di più una grande narrazione a infinite voci. Nasce in un’età, quella dei primi secoli dell’era volgare, in cui il popolo d’Israele ha perso la propria autonomia politica. Il Tempio è distrutto, Gerusalemme in mano agli stranieri, l’esilio è destino obbligato e quotidiano. Dalle rovine del passato, e dalla dispersione, non sgorgano opere di singoli, voci intimistiche di sconforto. Non è più il tempo dei profeti biblici, che, coraggiosi e solitari, s’ergevano ad ammonire sovrani o a inveire contro gli errori e le sconsideratezze dei loro correligionari. A una sciagura collettiva, la società ebraica risponde con un progetto intellettuale altrettanto collettivo. Sono i rabbini, ovvero i maestri della tradizione, a farsi carico dell’impresa. Non sono sacerdoti (il Santuario non funziona più, e il sacrificio è stato sospeso). Non sono dignitari altolocati, spesso appartengono a una classe modesta: fabbri, calzolai, piccoli commercianti. Ma sono assieme, sanno fare gruppo. Si trovano per studiare, per pregare, per discutere, per vedere chi conosca meglio la Bibbia, chi ne capisca di più, chi l’ami d’un amore più devoto. Dimenticatevi la cultura dei grandi poeti, o degli scrittori altezzosi. Sfogliando le pagine del Talmud entrerete spesso in case dimesse, verrete a sapere di fatti quotidiani, leggerete qualche volta di comari e di pescatori, di sgualdrine e di ladri. Non è forse vero che la legge s’applica a tutti, e che i precetti del Signore valgono per l’intero Israele, senza eccezioni? Per i ricchi e per i poveri, per i pii e per chi è tentato di trasgredirli, i comandamenti, spesso e volentieri. I maestri studiano e studiano, voltano e rivoltano ogni versetto della Scrittura. Se fosse un giardino fiorito, diresti che questi giardinieri troppo zelanti l’hanno messo sotto sopra. Ma la Bibbia, per i rabbini, è come un campo da rendere fertile col lavoro. Più viene dissodato, più le interpretazioni si accumulano l’una sull’altra, migliore sarà il raccolto. E non pensiate che vadano sempre d’amore e d’accordo. Il Talmud è pieno di discussioni, di dispute, e di qualche sonoro diverbio. Perché non si può amare se non ci si appassiona, e la passione scalda. In una celebre pagina del trattato Bava Mezia , Rabbi Eliezer è talmente convinto di aver ragione, che chiama a proprio testimone una voce celeste. Ed ecco, puntualmente, che la voce dall’alto si mette dalla sua parte. Credete che i colleghi se ne stiano zitti? Nemmeno per sogno. Un altro rabbi, senza scomporsi, ha da ridire persino sul cielo. Da quando la Torah è stata data agli uomini, sostiene, è affar loro capirla e metterla in pratica. Persino Dio deve rimanersene buono: sulla terra, è la maggioranza dei saggi che decide, liberamente, e guai a intromettersi.
Una simile democrazia basata sullo studio, e siffatto orgoglio intellettuale, mansueto sì ma indomito, non potevano passare inosservati. Il Talmud, che è il documento più importante della cultura rabbinica, esprime una consapevole scelta di autonomia. Fonda l’indipendenza giuridica di Israele, poiché unisce la legge biblica alla vita quotidiana dell’esilio. E stabilisce allo stesso tempo il prestigio e la legittimazione dei maestri, che danno voce all’identità del gruppo ebraico. Per lunghi secoli, la Chiesa ha mal sopportato l’opera, perché l’ha considerata il baluardo della “cocciutaggine” ebraica. In altre parole, se gli ebrei non vogliono convertirsi, se rimangono fedeli alle loro tradizioni, la colpa sarà di questo loro manuale di resistenza. Distrutto il libro, tolto di mezzo l’ostacolo. Ed ecco che fioccano i divieti e le persecuzioni. Dalle bolle del Medioevo e dell’età della Controriforma, è tutto un accanirsi contro il Talmud, considerato blasfemo (conterrebbe passi contro Gesù) o falso o sciocco.
Nella sua bolla Etsi doctoris gentium, pubblicata nel 1415, l’antipapa Benedetto XIII dà voce in maniera inequivocabile alla corrispondenza tra Talmud e autodeterminazione ebraica: «Poiché è manifesto... che la causa prima della cecità giudaica... è una certa dottrina perversa... che fu formulata dopo Gesù e che gli ebrei chiamano Talmud... abbiamo stabilito che nessuno possa presumere di ascoltare, leggere o insegnare tale dottrina».
Confische, censure, roghi, a intervalli regolari il libro ha rischiato l’estinzione. E ogni volta, gli sforzi degli inquisitori sono stati vani. È vero che i manoscritti antichi sono rarissimi, a causa delle persecuzioni, ma è altrettanto certo che il Talmud è come un fiume contro cui si sono costruiti argini e si sono ammassate dighe, senza metterlo mai in secca. Un autore solo lo si poteva cacciare in prigione, e bruciare. Ma cento, mille? Nel 1553, per volere di Giulio III, si fece un gran falò di copie del Talmud a Campo de’ Fiori, a Roma. Ad andare in cenere furono carte e pergamene, l’opera continuò a circolare. La diaspora era vasta, molto più capiente di una piazza o di una città. D’altronde, anche tra gli intellettuali cristiani del Cinquecento cominciava ad affacciarsi il dubbio che tali metodi non risolvessero poi granché. «Prima di bruciare un libro», aveva scritto l’umanista tedesco Johannes Reuchlin a difesa del Talmud, «sarebbe meglio leggerlo». Verità indiscutibile, e che metteva a nudo il problema. Invece di distruggerlo per partito preso, perché non provare a capirlo, questo mondo rabbinico? Nonostante i buoni propositi di alcuni, nessuno aveva tentato finora di portare in italiano tutto il Talmud babilonese, quello approntato nelle antiche terre di Mesopotamia. Il manipolo di esperti guidato da Rav Riccardo Di Segni s’è messo all’opera di buona lena, coadiuvato dal Cnr. Ci vorranno anni, e ci sarà lavoro per molte mani e per molte teste, che è poi il modo migliore di dire, e di fare, Talmud.
Talmud babilonese. Trattato Rosh haShanah (Capodanno), curatore Riccardo Shemuel Di Segni, Giuntina, Firenze, pagg. 416, € 40
(in libreria dal 5 aprile)

Repubblica Cult 27.3.16
Pierre Riches
Ricordi e incontri di un teologo speciale
“Devo la conversione a Wittgenstein. Mi spiegò che la ragione non è tutto”
L’amicizia con Iris Murdoch, Hanna Arendt e Lou Reed
conversazione con Antonio Gnoli

Pierre Riches è una figura singolarissima e affascinante del mondo della teologia. Da qualche anno si è trasferito in Sabina, non lontano da Roma. La casa, dove vive, si affaccia sulla valle del Tevere. Sobria e accogliente. Qualche mese fa è andata a trovarlo Laurie Anderson. Hanno cenato assieme e ricordato Lou Reed, di cui Padre Pierre è stato amico. Una foto sul muro del salotto ne descrive la relazione in qualche modo paterna: Lou Reed lo abbraccia sorridente e felice. Sul tavolo vedo una fresca copia di Note di catechismo per ignoranti colti, ripubblicato da Gallucci, con una prefazione di Giorgio Manganelli. «Il titolo», rammenta Riches, «me lo suggerì Elsa Morante». Oggi Padre Pierre è costretto a muoversi su una carrozzella. È una condizione che lo limita nei movimenti ma non lo affligge. Rifacendosi al titolo di un altro suo libro, è la leggerezza della croce a sostenerlo. Le sue origini sono quelle di un ebreo alessandrino, educato nei riti della tradizione. Sotto un cappello da baseball mi guarda con una punta di tenerezza. Gli chiedo quando decise di convertirsi al cattolicesimo: «Avevo 23 anni. Divenni cristiano perché il cristianesimo è molto appagante dal punto di vista intellettuale e totalmente liberatorio dal punto di vista esistenziale. Ho girato il mondo, insegnato in molte università, sono stato parroco a Roma, cappellano nell’aeroporto di Fiumicino. Ho conosciuto e frequentato molta gente. Non ho mai avuto sensi di colpa per la mia vita. E ho sempre pensato che la mia fede poggiasse su due cardini: l’amore come sprone ad agire e la comunione con Dio e il prossimo come scopo di vita».
Lei è nato dove esattamente?
«Ad Alessandria d’Egitto. Era un mondo particolare che lasciai a 17 anni».
Particolare perché?
«Città irreale, governata da oligarchie. Sorretta dai privilegi. La ricchezza più che esibita era vissuta. Su Alessandria confluivano miriadi di nazionalità: francesi, italiani, greci, ebrei e soprattutto inglesi. Un clamore di lingue risuonava nella mia testa di bambino».
Lawrence Durrell ha forse scritto il più bel libro su Alessandria.
«Lei trova? Raccontava di una città decadente, sfinita nei languori ultimi. Ma non era affatto vero. Città di traffici esistenziali e culturali, semmai. Ricordo il poeta Kavafis, ormai vecchio. Mi teneva sulle ginocchia accarezzandomi la testa. E Georges Moustaki, dal sorriso bellissimo. Sua sorella si innamorò di me. Durante il periodo in cui vissi a Cambridge, E. M. Forster voleva che gli raccontassi di Alessandria. Mi invitava a prendere il tè. Gli parlavo dei labirinti mentali di quella città così diversa, da essere unica».
Perché la lasciò?
«Mio padre era un mercante di cotone. Famiglia ricca. La buona borghesia alessandrina faceva studiare i suoi rampolli al Victoria College di Alessandria. Quando giunse il momento dell’università scelsi Cambridge, mi piaceva la filosofia».
In che anno andò?
«Nel 1946. Cambridge, diversamente da Londra, non aveva subito gli stessi oltraggi della guerra».
Vi insegnava Ludwig Wittgenstein.
«Ho seguito alcune sue lezioni. Potrei dire di essere stato uno degli ultimi allievi a conoscerlo».
Che ricordo ne ha?
«Se mai ho incontrato un genio, questo era lui. Mi trovava esotico, forse per le mie origini egiziane, e mi trattava con simpatia. Era un uomo a volte aspro, di pochissime parole. Scontroso, anche con gli studenti. Di solito preferiva fare lezione nella sua camera. Noi sedevamo sul pavimento di legno o su qualche sedia disponibile. Al mormorio iniziale seguiva un silenzio surreale ».
Surreale perché?
«Si creava una strana corrente, come se tutti i presenti improvvisamente attendessero che iniziasse a parlare. A volte taceva per minuti».
Negli ultimi tempi stava male.
«È vero, quando seppe di avere un cancro si recò in Norvegia, in un villaggio dove aveva trascorso un periodo felice. Forse era un modo per ritrovare un tempo perduto. Poi tornò a Cambridge. Morì in casa di un amico il 29 aprile del 1951. Ma sono episodi che appresi successivamente. Andai via da Cambridge alla fine del 1949. Ricordo una frase nelle Ricerche filosofiche: “La morte non è un evento della vita. La morte non si vive”. Un anno prima che lui morisse presi il battesimo e mi convertii. Penso che nella mia scelta cristiana contasse molto il fatto che Wittgenstein mi avesse in qualche modo insegnato che la ragione non è tutto».
Dunque la fede.
«Per molti fede e ragione si oppongono; per un cristiano si completano».
Si completano, ma postulano due verità diverse.
«Il punto è dove le due verità si incontrano. Voglio dire che la verità non è qualcosa che si conquista solo con la conoscenza, studiando e sperimentando; ma anche vivendo pienamente e amando pienamente».
È il rapporto con la vita.
«Un cristianesimo maturo, assunto nella quotidianità, esige che ci sia una coerenza tra la propria fede e la propria vita».
Cosa fece quando lasciò Cambridge?
«Ebbe inizio la mia maturazione spirituale. Fu nel 1950 che conobbi Iris Murdoch e diventammo amici. Anche lei aveva frequentato per un periodo le lezioni di Wittgenstein. Prese un insegnamento di filosofia a Oxford. Ricordo le bellissime discussioni tra noi».
Si dice che lei sia stato il suo consigliere spirituale.
«Non era affatto una donna da consigliare. Ma che a volte abbia cercato dei suggerimenti, questo sì. Mi chiese un giorno cosa pensassi dell’esistenzialismo.
Stava lavorando su Sartre. Risposi che il miglior esempio di esistenzialismo ce l’offriva la Bibbia con Giobbe ».
Giobbe dovette fare i conti con il silenzio di Dio.
«Un vecchio e saggio certosino mi disse una volta che il libro di Giobbe ci insegna che il silenzio di Dio, per chi si apre a Lui, è più consolante del parlare degli uomini. Grazie ad Iris conobbi a Londra Elias Canetti. Aveva un’intelligenza fluida, mobile come il Danubio da cui proveniva».
So che ha conosciuto anche Hannah Arendt.
«Ci incontrammo a Chicago, durante un pranzo. Erano gli anni Sessanta. Diventammo amici. Fu anche lei una delle genialità del Novecento. Mi piaceva la sua versatilità. Era da poco tornata da Gerusalemme e i suoi reportage sul processo Eichmann fecero scalpore, provocando più di un malumore, soprattutto nella comunità ebraica americana. Personalmente ero d’accordo con la sua idea di “banalità del male”. Tutti pensai avremmo potuto diventare degli Eichmann».
Non nasciamo con la garanzia di fare il bene.
«Perderemmo il senso della libertà».
Ma il male non è la sconfitta di Dio?
«È quello che pensava Dostoevskij. Ma il punto è un altro. Gran parte dei nostri mali sono direttamente o indirettamente causati da noi. Frutto della nostra libertà usata dissennatamente».
Distinguerebbe tra il male e la sofferenza?
«Il male provoca la sofferenza, ma non necessariamente è vero il contrario. La sofferenza del giusto è anche il passaggio alla luce attraverso la Croce, forse la sola via di salvezza, se si vuole conservare la libertà. Mi viene in mente un proverbio inglese: “È meglio avere amato e perduto, che non avere mai amato”».
Cosa c’entra con Dio?
«Forse Dio, essendo amore, ha preferito amare e perdere un po’ che non avere mai amato».
È più persuasiva la filosofia o la teologia?
«La filosofia mette in gioco l’uomo. La teologia il rapporto con Dio. Nella teologia classica entrano tre elementi: la ragione, la volontà, la Grazia. Quest’ultima non bussa alle porte della filosofia. Paolo è l’uomo da cui ho imparato di più teologicamente. Le sue lettere sono di una intelligenza e profondità spirituali senza eguali.
Lei è stato il segretario del Cardinal Tisserant.
«Mi sono occupato per lui e con lui dei problemi teologici. Fu un grande uomo. Modesto per quel che effetti-vamente era. Seguimmo le sorti del Concilio Vaticano II. Lo accompagnai anche al Conclave, dal quale uscì eletto Paolo VI. Ogni cardinale poteva farsi portare da una persona».
Seguì Tisserant?
«Era abbastanza normale. Viaggiavo spessissimo con lui. Quando si aprì il conclave facemmo insieme il viaggio in auto. Di solito sedevamo dietro. Quel giorno Tisserant mi chiese di accomodarmi vicino all’autista. Ubbidii, senza capire perché. Al ritorno, quando andammo a riprenderlo con la macchina, mi predisposi per salire davanti. E lui disse: no, Padre Pierre, venga dietro, vicino a me, non sarò il cinquantunesimo Papa! » Lei ha una vita incredibile.
«Diciamo che ho avuto una vita».
Dove ha insegnato?
«Un po’ ovunque: a Yale, ad Harvard. Poi in Africa, sono stato un paio d’anni in Uganda. Credo di aver conosciuto abbastanza bene quel continente. Poi in Pakistan e in Giappone. Il cardinal Colombo mi aveva ribattezzato “l’ebreo errante”».
Cosa pensa delle religioni orientali?
«Buddismo e taoismo sono esperienze molto importanti. Se affidate a dei ciarlatani diventano solo mode fastidiose. Trovo che il Tao, cioè la Via, ha diversi punti in comune con il cristianesimo. Ne parlavo a volte con Giorgio Manganelli. Il “Tao-të-ching” era una delle discussioni ricorrenti».
Mi risulta che è stato anche parroco.
«Sì, in una piccola parrocchia di campagna a Boccea. Chiesi espressamente a Tisserant di mandarmi in quel posto. Lo stesso Tisserant, mi spinse, qualche anno dopo, ad accettare un insegnamento alla Loyola University di Roma, propostomi da Raimon Panikkar».
Pier Vittorio Tondelli l’ha inserita nel suo romanzo “Rimini” come Padre Anselme. «È un prete», scrive Tondelli. «Mi ha beccato quando uscì il mio primo romanzo otto anni fa. È sempre in giro per il mondo all’inseguimento delle sue anime. Mi diverto con lui. Gli voglio molto bene». Si riconosce?
«Uno scrittore ha la libertà di inventare, altrimenti che scrittore sarebbe? Conobbi Tondelli a Venezia a una mostra di Luigi Ontani. Un uomo di talento, tormentato ma autentico».
Ha avuto un ruolo nella tardiva conversione di Tondelli?
«Non credo di essere stato così influente. Le decisioni di quel tipo arrivano da una profondità che neppure immaginiamo. Posso dire che la sua morte fu per me un dolore fortissimo. Fui io a celebrarne il funerale, in un giorno in cui pioveva a dirotto».
Esistono delle lettere che vi siete scambiate?
«C’è un carteggio con lui, come pure con Iris Murdoch. Ma sono blindati».
Le manca l’America?
«È un po’ che non vado. Ma i figli dei miei ex allievi vengono a trovarmi».
Mi colpiva la copertina di un suo libro – “La leggerezza della croce” – dove si vede una croce disegnata da William Burroughs.
«Ah, sì! L’ho conosciuto bene. Mi chiamava “il prete”. Quando disegnò per me quella croce era il periodo in cui sparava alle tele dei quadri».
Sparò anche alla moglie.
«Fu per errore. Dio abbia pietà».
Fra le tracce del suo periodo americano vedo anche un foto che la ritrae con Lou Reed e un ritratto fotografico che le fece Robert Mapplethorpe. Due icone della cultura contemporanea.
«Lou Reed lo conobbi a New York, non ricordo più in quale galleria. Era affascinato dal fatto che un ebreo si fosse fatto prete. Lo divenni per la precisione a 32 anni. Ogni tanto mi mandava i biglietti per i suoi concerti. Quanto a Mapplethorpe, la foto che lei ha visto, la scattò quando già stava male».
È una miniera di ricordi.
«Non li ho allontanati. Forse un po’ di cose le ho dimenticate. Vista la mia età è un processo fisiologico. Ma non ho nostalgia dei ricordi. Non è possibile rivivere i momenti del passato. Lasciano delle tracce utili per la vita che continua. Credo nella vita eterna. Sono molto curioso di andare a vedere cosa c’è al di là».
La sua fede ha mai tentennato?
«Mai. La fede è un dono che ho ricevuto in abbondanza ».
Parlavamo prima del male.
«Si può combattere ed equilibrare con il bene».
Anche oggi, con tutto quello che ci sta accadendo?
«Soprattutto oggi. Il Cristo ci porta due grandi speranze: una per questa terra e una dopo la morte. Ci insegna come dobbiamo vivere e agire. Mi torna in mente “il discorso della Montagna”, lo si trova sia in Matteo che in Luca. Ci spiega che è solo amando che possiamo vivere bene e ci dice che amare vuol dire dare e perciò anche rinunciare. Solo così possiamo rompere la catena degli egoismi e delle paure».

Repubblica Cult 27.3.16
L’etica religiosa e il suo “doppio”
Nel suo “Il disagio dei monoteismi” il grande studioso Jan Assmann ripercorre le radici del Dio unico e propone una nuova strategia per la tolleranza
di Maurizio Bettini

L’interpretazione che Jan Assmann ha dato delle forme del monoteismo costituisce uno dei contributi più interessanti che le ricerche storiche e antropologiche, in campo religioso, abbiano ricevuto negli ultimi anni. Sua in particolare la formula “esclusione Mosaica” per definire un tratto che accomuna i tre grandi monoteismi: ossia la convinzione che il Dio sia unico, e che non possa essere se non il proprio («non avrai altro Dio all’infuori di me»). Questo atteggiamento conduce a considerare “falsi dèi” le divinità altrui, concependo il proprio Dio come l’unico “vero”; e ha scatenato per questo sanguinosi conflitti di religione, come oggi purtroppo ancora vediamo. Al contrario, nelle religioni politeistiche — in cui era perfino possibile identificare una divinità altrui con una divinità propria — il conflitto per affermare il “vero dio” era rimasto del tutto sconosciuto.
Di Assmann sono già state tradotte opere fondamentali, quali Mosé l’egizio o Il prezzo del monoteismo: oggi il lettore ha a disposizione una sintesi viva, aggiornata del suo pensiero nel libro intervista rilasciata a Elisabetta Colagrossi ( Il disagio dei monoteismi, Morcelliana). Cosa propone Assmann nel suo dialogo? In primo luogo una revisione della “esclusione mosaica”: l’opposizione fra dio vero e dio falso si sarebbe affermata non tanto nei libri mosaici della Bibbia, dove in effetti si parla solo di esclusiva “fedeltà” al Dio d’Israele, ma nei profeti più recenti, come Geremia e il Deutero-Isaia. Questo mutamento sarebbe anzi avvenuto per influsso dello Zoroastrismo, la religione iranica. Di conseguenza, aggiungiamo noi, l’opposizione tra dio vero e dio falso avrebbe la sua origine in una cultura religiosa esterna a quella ebraica. Su quest’ultima ipotesi ci nasce un dubbio, però. Non potrebbe essere questo un modo per alleggerire, diciamo così, la responsabilità del monoteismo ebraico, e di quelli che da esso sono derivati, nell’elaborazione di un modello religioso che oggi appare sempre più messo in discussione?
Il lettore attento più ai problemi dell’oggi che a quelli delle origini, troverà comunque di grande interesse la proposta che Assmann avanza per superare gli odierni conflitti di religione: ossia un ritorno a ciò che l’Aufklärung tedesca definiva “religio duplex”. Una religione “doppia” nel senso che accanto, o sotto, quelle rivelate — e spesso tra loro in conflitto — si riconosceva l’esistenza di un’unica e comune religione a carattere etico: un punto di fuga “trascendentale” in cui tutte le diverse fedi, senza rinunciare alle proprie specificità, possono convergere.
IL DISAGIO DEI MONOTEISMI di Jan Assmann a cura di E. Colagrossi MORCELLIANA
PAGG. 95, EURO 11

La Stampa 26.3.16
La lezione del voto della Capitale
di Marcello Sorgi

Le elezioni amministrative, in particolare quelle per le grandi città, hanno sempre avuto il senso di una sorta di preparazione per la sfida nazionale per la guida del Paese. Nell’autunno del ’93, quando si votò per la prima volta con il sistema elettorale a due turni che prevede l’elezione diretta dei sindaci, ci fu un’ondata di primi cittadini di centrosinistra che in qualche modo preparò l’avvento del centrodestra e di Berlusconi a Palazzo Chigi l’anno successivo. Un centrodestra, va ricordato, nato a Roma nello scontro tra Francesco Rutelli, il candidato vittorioso, e Gianfranco Fini, allora segretario del Msi, partito non ancora liberato dalla nostalgia per il fascismo ma che con l’appoggio a sorpresa dell’ex-Cavaliere fu sdoganato tutt’insieme.
L’ipotesi di una vittoria a Roma del Movimento 5 stelle - in questi giorni al centro di attenzioni internazionali, come dimostrano l’incontro del vicepresidente della Camera Di Maio con gli ambasciatori europei e il lusinghiero articolo riservato dal «Guardian» alla candidata grillina Raggi - nasce di qui. Ed è ovvio che Renzi se ne preoccupi, dal momento che la rimonta e la riconquista del Campidoglio, per il centrosinistra, ma anche per il centrodestra, si presentano assai complicate, dopo l’esperienza dello scandalo di Mafia capitale che ha coinvolto, seppure con diverse responsabilità, i due schieramenti, e dopo la disastrosa caduta della giunta Marino. L’effetto più probabile è un’astensione ancora più forte della volta precedente, quando al ballottaggio votarono il trenta per cento dei cittadini romani. A tutto vantaggio del voto di protesta che potrebbe confluire a favore di M5s.
Sondaggi alla mano, si dà per scontato che Raggi abbia molte più probabilità di arrivare al secondo turno, sia di Giachetti, candidato del Pd, sia di uno dei quattro candidati del centrodestra, anche se è possibile che le liti interne alla coalizione ex-berlusconiana si ricompongano e alla fine l’ex-Cavaliere, Salvini e Meloni trovino un accordo sul nome di quest’ultima.
Renzi deve valutare i due sbocchi possibili di queste elezioni: battersi fino all’ultimo per la vittoria di Giachetti, sapendo che si risolverebbe in un testa a testa con Raggi e rappresenterebbe per i 5 stelle la prova generale dell’assalto al Palazzo nelle prossime politiche. Oppure, prepararsi all’idea della sconfitta, contando sul fatto che l’amministrazione della Capitale, ingovernabile per chiunque, possa rivelarsi una trappola per la prima, eventuale sindaca grillina, confermando le scarse capacità di governo dimostrate dal Movimento in tutte le città di cui finora è riuscito a conquistare.

La Stampa 27.3.16
I “nuovi” Cinque Stelle di lotta e di governo ora fanno paura al Pd
M5S “moderati” su adozioni, politica estera e Roma
di Fabio Martini

I “nuovi” Cinque Stelle - di lotta ma ora anche di governo - fanno sempre più paura al Pd. Il “riposizionamento” del movimento non è sfuggito alle antenne ipersensibili di palazzo Chigi: dai primi di febbraio i Cinque Stelle hanno cambiato decisamente postura, lanciando almeno tre segnali in clamorosa controtendenza rispetto agli anni precedenti, che erano stati segnati da una predicazione nichilista, all’insegna del «sono tutti ladri». Il 6 febbraio Beppe Grillo («libertà di coscienza ai parlamentari») annuncia la svolta sulle adozioni per i gay, segnale forte all’elettorato cattolico e moderato: il 23 febbraio viene scelta come candidato per Roma Virginia Raggi, una avvocatessa trentasettenne, alternativa ma non aggressiva, che non dispiace a destra, come dimostrano le parole di Giorgia Meloni: «Se non andrò al ballottaggio voterò per la Raggi». E ancora: quattro giorni fa uno del direttorio pentastellato come Alessandro Di Battista, solitamente fiammeggiante, ha detto in riferimento alla Libia: «Mi auguro che Renzi resista ad intervenire, sono settimane che lo fa nonostante le pressioni che arrivano dagli altri paesi e gliene do atto».
Cinque Stelle che restano alternativi ma con posizioni che “parlano” ad un elettorato trasversale, compresi anche - ecco la novità più temuta - elettori del Pd. E d’altra parte i sondaggi, tenuti nella massima considerazione a palazzo Chigi, segnalano che la svolta non dispiace all’opinione pubblica. Le oscillazioni nelle intenzioni di voto dimostrano che è rientrata la piccola crisi di consensi emersa nei confronti dei Cinque Stelle dopo i sospetti di inquinamento camorristico nel voto al comune di Quarto: secondo Euromedia Research, il movimento di Grillo era calato, fino a scendere (a metà febbraio) a quota 24,5%, ma poi la graduale risalita col 25,1% di questa settimana; anche per Ixè la caduta è finita ed è iniziata la risalita che viene collocata ad un valore simile: 24,8% nell’ultima rilevazione.
Per il momento la reazione si è concentrata sulla candidata M5S a Roma. Il Pd (con l’avallo di palazzo Chigi) ha avviato una martellante campagna nei confronti di Virginia Raggi, colpevole di dichiarazioni che avrebbero fatto cadere il titolo dell’Acea, la multiutility comunale dell’acqua e dell’elettricità. Un attacco che ha mostrato subito la corda (il titolo aveva subito una ben più drastica caduta pochi giorni prima delle dichiarazioni della Raggi), ma raramente si era determinato un “accerchiamento” così poderoso e con argomentazioni così controvertibili. Un attacco al quale hanno partecipato, con dichiarazioni fotocopia alcune delle personalità di punta del Pd. Il presidente del partito, un personaggio che solitamente calibra le parole come Matteo Orfini, ha sostenuto: «Frasi a caso e incompetenza: la Raggi parla di Acea e fa perdere ai romani 70 milioni di euro. Un pericolo pubblico a 5 stelle», sostenendo che è il momentaneo calo in Borsa delle azioni Acea sarebbe stato pagato dai «romani», anziché (eventualmente) dai possessori di azioni che le avessero vendute proprio il 23 marzo. E persino Roberto Giachetti, un ex radicale che si è fatto una reputazione nel segno del garantismo e del rispetto degli avversari, si è segnalato con queste parole: «Si candidano per governare Roma, ma pensano di giocare a Monopoli». Ma il britannico Economist ha coniato per Virginia Raggi la definizione che fa più male al Pd: potrebbe essere «una candidata democratica o repubblicana».

La Stampa 27.3.16
Salvini tenta la carta estera
Dopo Putin viaggio in Israele
Il leader del Carroccio pianifica il Giappone e sogna gli Usa di Trump
qi Alberto Mattioli

È il nuovo fronte della politica estera della Lega. Martedì, Matteo Salvini partirà per un viaggio a Gerusalemme e Tel Aviv con una nutrita delegazione leghista e soprattutto con un’agenda fitta di incontri di livello: un ministro, due viceministri, il vicepresidente della Knesset e Avigdor Liberman, leader del partito di destra «Israel Beitenu». È un salto di qualità nelle relazioni internazionali leghiste, finora segnate da qualche inevitabile delusione (il tentativo precedente di farsi ricevere in Israele non andò a buon fine, il visto negato dalla Nigeria) e qualche evitabile gaffe, come la visita di Salvini in Corea del Nord, «che sembra la Svizzera», e quel che è peggio insieme con Razzi.
Il tour israeliano è stato preparato con cura. Il gran tessitore è il «ministro degli Esteri» leghista, il deputato romagnolo Gianluca Pini, e le dichiarazioni della vigilia certo non dispiacciono a Gerusalemme: «L’Europa dei matti vuol fare entrare la Turchia e mette sanzioni contro i prodotti di Israele», ha già tuonato Salvini. Pini mette le mani avanti dicendo che nell’annoso contenzioso mediorientale «Israele ha il 99,99% delle ragioni». Prevista anche una visita allo Yad Vashem dove Salvini farà una dichiarazione «molto netta» a sostegno dello Stato ebraico. Ma, spigolando nel programma, l’appuntamento più sorprendente è quello con monsignor Giuseppe Lazzarotto, nunzio apostolico a Gerusalemme: «Il primo incontro ufficiale fra Salvini e un esponente della Santa Sede», chiosa soddisfatto Pini.
Se tutto andrà bene, insomma, è un bel colpo. Anche a uso interno: la credibilità di un leader si vede dai suoi contatti internazionali. Così, Salvini sta moltiplicando i viaggi all’estero, e sono lontanissimi i tempi di quando l’estero iniziava a Firenze. In carnet c’è un viaggio in Giappone e poi quello, di cui si parla da tempo, negli Stati Uniti, magari incontrando Donald Trump con cui Salvini ha in comune l’allergia all’establishment e al politicamente corretto. Ci lavora Guglielmo Picchi, ex deputato eletto all’estero per Forza Italia e poi passato alla Lega.
Anche in Europa c’è una nuova opportunità: la Brexit. Per l’europarlamentare Luca Fontana, ideologo della Lega salviniana, l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue sarebbe la prova provata che la scelta europea non è irreversibile. «Manderemo una delegazione a Londra a esprimere il nostro sostegno», annuncia Pini, benché i rapporti con l’Ukip siano cattivi dopo che Farage ha deciso di non entrare nell’Enf, il gruppo anti-Ue al Parlamento di Bruxelles.
Qui la Lega va d’amore e d’accordo con gli alleati tradizionali, in primis il Front national di madame Le Pen con la quale Salvini non perde occasione di scambiare visite, apprezzamenti e anche passi di danza, come al congresso di Lione. Poi ci sono i «liberali» austriaci dell’Fpo, i fiamminghi del Vlaams Belang, gli olandesi del carismatico Geert Wilders e un po’ di romeni, polacchi e cechi poco decifrabili. Naturalmente, l’alleato ottimo massimo, amatissimo anche dalla base, resta Vladimir Putin. Ufficialmente, lui e Salvini si sono visti una volta sola, nell’ottobre 2014 a Roma. Ma è bastato, gongola Pini, perché i russi inserissero la foto dell’incontro nell’agenda dell’anno 2015, strenna diplomatica «dove l’unico altro italiano fotografato con Putin è Napolitano». La Grande madre Russia è vista come un argine all’islamismo, e lo stile Putin, spiccio e pragmatico, piace moltissimo ai leghisti. Del resto, a Putin piacciono tutti quelli cui non piace l’Europa: infatti a Milano, all’ultima rimpatriata dell’Enf, c’erano anche due suoi diplomatici.
Insomma, per la Lega di lotta ma magari domani anche di governo, è tempo di grandi manovre diplomatiche. Pini, che è capogruppo nella Commissione Esteri di Montecitorio, ha appena presentato una mozione dove il regime nordcoreano è definito «un fattore di preoccupazione». Altro che Svizzera...

La Stampa 27.3.16Museo del fascismo, il rischio della storia “usa e getta”
Fa discutere l’iniziativa del sindaco pd di Predappio. Deve servire ad accrescere il sapere storico, non diventare un’attrazione turistica
di Giovanni De Luna

A Predappio, città natale di Benito Mussolini che oggi ospita la sua tomba, sta per nascere un Museo del fascismo. La notizia, lanciata dalla Stampa, ha suscitato inevitabili discussioni. Alcune squisitamente politiche. Il fatto che il governo Renzi si sia immediatamente dichiarato favorevole, annunciando anche uno stanziamento di 5 milioni di euro, è stato criticato - sul «Domenicale» del Sole-24 Ore - da Carlo Ginzburg, che ha visto nell’iniziativa il marchio del progetto politico renziano del «partito della nazione». Il dibattito ha ovviamente chiamato in causa gli storici. Raccogliendo un appello di Tommaso Detti, Giovanni Gozzini e Marcello Flores (che è anche il coordinatore del progetto), oltre 50 studiosi - molto seri e niente affatto sedotti dai discorsi revisionisti - hanno dato il loro parere favorevole, mentre altri ne hanno criticato soprattutto la collocazione («perché non Fossoli?» si è chiesto ad esempio Simon Levi Sullam).
I nostalgici del Duce
Nel documento di indirizzo, l’intento che anima la scelta voluta dal sindaco pd di Predappio appare largamente condivisibile: si tratta di sottrarre quel luogo - segnato dalla memoria che aleggia intorno al culto delle spoglie del Duce - alle celebrazioni rituali dei fascisti e restituirlo alla ricerca storica. Dunque più storia e meno memoria - soprattutto quando questa è intrisa di un vittimismo ridondante e istituzionalizzato - e il proposito di affidare il percorso espositivo a una narrazione che tenga insieme emozione e conoscenza, reperti museali e installazioni audiovisive, esigenze didattiche e motivi spettacolari.
Meno chiara è invece l’ipotesi storiografica sulla quale dovrebbe fondarsi l’intera strategia narrativa. Proprio perché l’allestimento vuole proporsi come una sintesi dei principali linguaggi della contemporaneità (dal cinema alla fotografia, dalla televisione alla letteratura), per evitare che questi accostamenti si traducano in una babele incomprensibile è necessario un ancoraggio molto saldo, sia dal punto di vista concettuale sia storiografico.
Sono molte le interpretazioni che gli storici hanno avanzato sul fascismo. Per ricordare quelle più datate, il «fascismo parentesi» di Benedetto Croce aveva guardato al regime come a una sorta di invasione degli Hyksos, venuta dal nulla e scomparsa nel nulla per lasciare l’Italia repubblicana libera di ricongiungersi a quella liberale; il «fascismo rivelazione» di Piero Gobetti giudicava la dittatura parte integrante dell’autobiografia della nazione, il luogo storico in cui erano affiorati tutti i mali endemici del sistema politico e della società italiana. Quale che sia la fondatezza di queste interpretazioni - oggi superate in un approccio meno concentrato sugli aspetti italiani del fascismo -, quello che importa è che a ognuna di esse corrisponde necessariamente un diverso percorso museale, un’altra periodizzazione, altre priorità su cui orientare il racconto proposto dall’allestimento.
Luoghi di intrattenimento
Detto con franchezza, un museo storico non può proporsi obiettivi diversi da quelli dell’incremento del sapere storico diffuso. Il visitatore che inizia la sua visita con un livello di conoscenza uguale a 100 dovrebbe concluderla con una conoscenza uguale a 100 + 1. Per raggiungere questo intento occorre inserire il progetto all’interno di un’opzione culturale trasparente, che ne organizzi e renda immediatamente fruibili i contenuti, aiutando il passato a transitare nel presente.
Nell’assenza di un «punto di vista» esplicito, il rischio è quello del museo-merce. Per almeno due secoli l’organizzazione dei musei storici è stato uno degli ambiti in cui lo Stato-nazione ha costruito la sua egemonia sui discorsi riguardanti il passato. Oggi, in questa configurazione, i musei sopravvivono negli Stati ex comunisti dell’Est europeo, in alcune aree periferiche rispetto all’Europa (le due Coree ad esempio) o si accampano al centro delle rivendicazioni dei «popoli senza Stato», intercettando le spinte autonomistiche e identitarie di Paesi come Scozia, Galles, Catalogna, Paesi Baschi ecc. Per il resto, il museo-merce e luogo di intrattenimento sta scalzando quasi dovunque il museo-monumento, nel tentativo di assecondare i gusti di un pubblico più esteso e più variegato.
Le esigenze spettacolari
I finanziamenti sempre più esigui che arrivano dagli enti pubblici hanno provocato un netto cambiamento: per ottenere fondi dai privati, infatti, si è consolidato un circuito in cui diventa necessario attirare visitatori e per attirarli bisogna divertirli, ottenere l’inserimento nei percorsi dei tour operator, offrire una serie di servizi di supporto tali da rendere appetibile «la gita». La «narrazione» viene modellata così sulle esigenze spettacolari dettate dal mercato e la visita al museo non serve tanto ad aumentare la conoscenza della storia quanto a offrire «un’esperienza».
Predappio è già oggi così. I flussi turistici che la riguardano sono imponenti; i visitatori si rincorrono tra le strade e le trattorie della cittadina, affollano i luoghi del Duce e non solo. Un Museo del fascismo, collocato in uno scenario del genere, rischia di diventare l’ennesima attrazione, un museo storico postmoderno che eclissa l’interpretazione ragionata della storia a vantaggio di un suo consumo «usa e getta».

La Stampa 27.3.16
Bullismo, la psicologa
«Gli insegnanti sono esposti tanto quanto gli studenti»
intervista di L. Cat.

La psicologa Giuliana Guadagnini è responsabile del Punto d’ascolto per il disagio scolastico di Verona e docente al Master universitario in criminologia e psicologia investigativa presso lo Iusve di Venezia.
Anche gli insegnanti possono essere vittime di bullismo?
«Certo, il fenomeno esiste e si manifesta con le stesse modalità che si riscontrano tra i gruppi di ragazzi. Video girati di nascosto e postati in rete, aggressioni verbali e fisiche reiterate. In alcuni casi i docenti procedono per vie legali. C’è chi ha cambiato istituto, chi ha addirittura cambiato cognome. I danni possono essere devastanti: disturbi psicologici, tra cui quelli d’ansia o depressivi, problemi alimentari e pensieri suicidi».
La diffusione di Internet e dei social network ha amplificato il fenomeno?
«Il cyberbullismo è più insidioso del bullismo tradizionale, perché il mondo virtuale fa cadere i limiti spazio-temporali dell’attività vessatoria. Le immagini e video diffamatori raggiungono un pubblico potenzialmente illimitato e la vittima è esposta 24 ore su 24. Inoltre la condizione di anonimato in cui opera il cyberbullo gli conferisce una percezione di impunibilità».
In che cosa consiste il suo servizio?
«Il Punto di Ascolto, attivo dal 2007 presso l’Ufficio Scolastico, riceve e gestisce le segnalazioni anche in sinergia con le forze dell’ordine. Gli interventi sono volti a tutelare la vittima e attivare eventuali provvedimenti contro i bulli. Va ricordato che molti comportamenti di bullismo e cyberbullismo sono ascrivibili a reati - dallo stalking all’istigazione al suicidio - e come tali perseguibili a norma di legge».
Essere insegnante oggi è più difficile rispetto al passato?
«Il patto di corresponsabilità tra scuola e famiglia nell’educazione del minore è più fragile rispetto al passato. Le due istituzioni, che dovrebbero rafforzarsi e legittimarsi a vicenda, sono spesso in conflitto fra loro. Ma c’è anche un altro aspetto: alcuni insegnanti cercano un dialogo paritario con gli allievi concedendo l’amicizia su Facebook o partecipando ai gruppi su WhatsApp. Può essere una mossa incauta. Per quanto oggi i rapporti siano meno gerarchici la distinzione dei ruoli va sempre salvaguardata».

La Stampa 26“Se cediamo alla paura morirà la democrazia”
Il filosofo polacco Bauman: in altre parti del mondo vengono uccise molte più persone, ma lì non ci sono i riflettori puntati
intervista di Francesca Paci

Da anni il filosofo polacco Zygmunt Bauman mette in guardia dalla paura, il più sinistro tra i demoni annidati nelle città aperte in cui viviamo. Gli attentati di martedì, come quelli di Parigi, raccolgono nell’abbraccio mortale del terrorismo quell’insicurezza del presente e quell’incertezza del futuro che lui, il teorico della società liquida, ha individuato nel nostro Dna. Questo sì, lo spaventa.
Ripetiamo che a Bruxelles è stato colpito il cuore dell’Europa: è così professor Bauman, o si tratta di propaganda jihadista che non dovremmo assecondare?
«Il “cuore” che i terroristi cercano di colpire è quello dove abbondano le telecamere, sempre assetate di sensazioni nuove e scioccanti a cui garantire attenzione massima per qualche giorno. C’è un numero dieci volte maggiore di persone uccise da qualche parte tra i tropici del Cancro e del Capricorno che non ha alcuna chance di ottenere la visibilità degli attacchi di New York, Madrid, Londra, Parigi o Bruxelles. È invece in queste ultime città che i bisbigli acquistano la forza dei tuoni. A spese minime - un biglietto aereo, un kalashnikov, un esplosivo fatto in casa, la vita di un pugno di disperati – corrispondono a ore interminabili di spazio tv gratis e picconate ai valori democratici da parte dei governi che dovrebbero proteggerli».
La nuova generazione di terroristi usa i benefici della «società liquida»?
«È il principio ispiratore della loro strategia sin dall’inizio: disponendo di risorse limitate, si sono dedicati a provocare il loro nemico, teoricamente forte ma in realtà estremamente vulnerabile. I terroristi hanno imparato velocemente l’arte di puntare in alto e massimizzare i profitti diminuendo le spese – ossia utilizzando lo zelo miope con cui l’avversario è entrato nel gioco».
I terroristi considerano l’Europa una comunità unita molto più di quanto facciano gli europei?
«Per ironia della sorte i terroristi riescono ad assestare colpi capaci di ripercuotersi su tutta l’Unione Europea. Potremmo dire che sono il più potente fattore unificante tra i membri di un’UE che altrimenti vede sfaldarsi molte delle sue cuciture. La paura, lo spreco di risorse sempre maggiori nella costruzione di muri, l’impiego di un numero crescente di uomini per la sicurezza e costosi gadget per lo spionaggio nella vana speranza di prevenire il prossimo attentato: tutto questo si sta verificando non solo nei luoghi colpiti ma anche molto più lontano, nei Paesi dell’Europa di “seconda velocità” che il terrorismo non ha alcuna intenzione di attaccare avendo sobriamente calcolato costi e benefici».
I terroristi non sono stranieri, sono cresciuti nelle nostre città: perché ci odiano?
«Contrariamente all’infame affermazione di Victor Orban, per cui “tutti i terroristi sono migranti”, quasi tutti i terroristi sono “indigeni”. I furbi, astuti e feroci cospiratori che ispirano il terrorismo possono vivere lontano, in Paesi stranieri, ma la loro manovalanza viene reclutata tra i discriminati, gli umiliati e vendicativi giovani che crescono in mezzo a noi senza futuro. Tenerli in condizione di privazione è un modo di cooperare con il terrorismo: seguendo la logica dell’occhio per occhio allarghiamo il bacino che i capi terroristi hanno mostrato di saper usare bene».
L’Islam radicale sta colmando il vuoto delle ideologie del 900?
«Non potendo garantire ai loro correligionari vite fantastiche i fondamentalisti islamici offrono loro il miglior balsamo alternativo alla dignità umana mortificata: una morte piena di senso. Molti (ma questi molti sono una piccola minoranza dei musulmani che vivono in Europa) cedono alla tentazione non avendo altre strade verso la dignità umana».
Possiamo davvero salvarci moltiplicando i muri?
«Costruire muri per tenere i migranti fuori dai nostri cortili ricorda la storia dell’antico filosofo Diogene che rotolava avanti e indietro nella botte in cui viveva sulle strade della nativa Sinope. Alla domanda sul perché del suo strano comportamento rispose che vedendo i vicini occupati a blindare le porte e sguainare le spade sperava di dare il suo contributo alla difesa della città contro l’avanzata delle truppe di Alessandro il Macedone».
È preoccupato per la civiltà occidentale?
«La sola ma grave ragione per essere preoccupato è la fortunatamente piccola possibilità che l’Europa abbandoni i suoi valori e si pieghi al codice di comportamento dei terroristi, sarebbe il suicidio della casa della moralità e della bellezza dov’è nata l’idea di libertà, eguaglianza e fratellanza».

Il Sole 27.3.16
Se i lupi non sono più solitari
di Alberto Negri

La fine della teoria dei lupi solitari, che pure ci sono stati, e delle schegge impazzite. Nella Raqqa d’Europa tutti si conoscevano ed erano già in gran parte noti alla polizia, che fosse belga, francese o americana o addirittura turca.
Ma la rete jihadista, che a Molenbeek aveva il suo terminale al bar Les Beguines della famiglia Abdeslam, arrivava fino alla Siria del Califfo Al Baghdadi. Dagli attacchi di Parigi e Bruxelles emerge chiaramente che siamo di fronte a un network internazionale esteso tra la capitale francese, quella belga e in collegamento con la casa madre dell’Isis. Sono le altre filiali che ancora ci sfuggono. Tutto questo non può essere una sorpresa. Eppure in questi tre decenni le intelligence hanno continuato a lavorare sul radicalismo islamico su scala nazionale e limitandosi a osservare assai da lontano gli eventi mediorientali, con un’inesistenza sistematica di relais tra i servizi. I jihadisti sono meglio organizzati.
Sapevamo già molte cose per prevenire o contenere questi attentati. Colpisce che uno degli arrestati sia Abderahmane Ameroud, un franco-algerino già condannato in Afghanistan - Paese dove gli occidentali sono schierati militarmente da 15 anni - per complicità nell’omicidio del comandante tagiko Shah Massoud, ucciso il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attacco in Usa di Al Qaeda. Ma era proprio a Molenbeek, nella capitale belga, che vennero reclutati i due tunisini kamikaze che fingendosi giornalisti assassinarono Massud: una storia che abbiamo raccontato due giorni fa su questo giornale con la testimonianza di un ex viceministro talebano, Washid Mozdah, colui che nel luglio 2001 avvertì gli americani di un possibile grande attentato sul territorio Usa. In questa vicenda non ci sono soltanto le impronte dei soliti sospetti ma tracce profonde come solchi che dovevano spingere a indagare. Ma il primo difetto di questa intelligence è proprio la mancanza di curiosità intellettuale. L’Isis, ora sotto pressione per l’avanzata di Assad sostenuto dall’aviazione russa, ha creato in Europa una rete in grado di sostenere una campagna prolungata di attentati: lo sostiene un rapporto dei servizi francesi pubblicato di recente dal New York Times. Il braccio armato del Califfato all’estero ha iniziato da tempo a infiltrare combattenti addestrati in Siria e capaci di organizzare le cellule operative. L’aspetto più interessante è che il network risale alla fine del 2013: ha preceduto quindi la proclamazione del Califfato nel giugno 2104 a Mosul. Ma le “fabbriche della Jihad”, come le chiamava Wahid Mozdah, si sono insediate in Europa prima dell’ultima generazione jihadista utilizzando marchi diversi: il franchising di Al Qaeda è passato all’Isis. Cinquemila sarebbero i foreign fighters partiti in questi anni per la Siria, un quarto provenienti dai Balcani: non potremo stupirci se ritroveremo qualche nome che abbiamo già visto in Bosnia, Kosovo o Macedonia negli anni ’90.
Questo è un conflitto decentralizzato e prolungato, che sopravvive ai suoi leader, all’illusione di effimere occupazioni territoriali come in Afghanistan o Iraq, ai bombardamenti con i droni: la vecchia guerra al terrorismo “all’americana” non solo non ci ha reso più sicuri ma l’ha portata in casa nostra.

La Stampa 263.16
Nessuna sentenza definitiva per i crimini nella ex Jugoslavia
Karadzic, condannato a 40 anni, farà ricorso. Mladic e Seselj aspettano il primo grado

Il «boia di Srebrenica» nega tutto, col suo tono altero e sprezzante. Il Tribunale Penale internazionale dell’Aia lo ha condannato a quarant’anni ritenendolo colpevole di genocidio, crimini di guerra e delitti contro l’umanità. I giudici della Corte Onu gli hanno attribuito giovedì la responsabilità degli 11.541 civili morti dell’assedio di Sarajevo (1992-1996) e il tentativo di azzerare l’enclave islamica dell’ex Jugoslavia, Srebrenica appunto, dove ottomila musulmani furono sterminati in pochi giorni (1995). Lui si difende secco, si dice sorpreso, parla di sentenza basata su «improvvisazioni, ipotesi, speculazioni piuttosto che sui fatti». Farà ricorso per un motivo che dice di trovare semplice: «Voi non vi rendete conto di cosa fossero costretti a sopportare i serbi bosniaci negli anni Novanta».
Le toghe del tribunale internazionale si sono invece rese conto di quanto è capitato ai musulmani jugoslavi. «Questa Camera ha concluso che karadzic è colpevole di genocidio», è stato il verdetto, che arriva da L’Aia a oltre vent’anni dal crollo della repubblica titina. Venerdì prossimo tocca a Vojislav Seselj, l’architetto della «Grande Serbia», progetto in cui intendeva far confluire Montenegro, Macedonia, pezzi di Bosnia e Croazia. Secondo l’accusa, sarebbe colpevole di omicidio, sterminio, persecuzioni per ragioni politiche, razziali e religiose. È stato liberato nel novembre 2014 per curarsi un tumore. «Mi hanno fatto uscire poiché non sapevano che fare di me», ha commentato. Ora arriva la sentenza.
Si rischia il bis del settantenne karadzic, che potrebbe uscire fra 18 anni, se ce la farà. Il procuratore Alan Tieger aveva chiesto l’ergastolo, visto che «nell’obiettivo criminale di sterminare i bosniaci non serbi era il comandante supremo e non aveva nessuno sopra di lui». Oltretutto, «seguiva le operazioni a Srebrenica ed ha approvato ogni passo importante». Il Tpi ha concluso che lo psichiatra montenegrino - latitante per dodici anni e arrestato nel luglio 2008 mentre si nascondeva sotto le mentite spoglie del guaritore «Dottor Dabic» - è stato l’uomo del genocidio, ritenuto responsabile di massacri, stupri, torture, e pulizia etnica, anche in sette comuni bosniaci: Bratunac, Prijedor, Foca, Kljuc, Sanski Most, Vlasenica e Zvornik.
L’assedio di Sarajevo è stato materialmente peggiore. Per 43 mesi la città è stata colpita in media da 329 granate d’artiglieria al giorno: furono uccise oltre 11mila persone, di cui 1.601 bambini, e ferite altre 50.000. All’ex presidente dell’autoproclamata repubblica serba di Bosnia è stato imputato anche l’utilizzo di 284 caschi blu dell’Onu come scudi umani nel maggio-giugno 1995. C’è voluto tempo. Il primo atto d’accusa fu formalizzato il 25 luglio 1995.
Detenuto in attesa di giudizio nel penitenziario fra le dune di Scheveningen, il solo, è Ratko Mladic, 73 anni, generale dell’esercito dalla Republika Srpska, Bosnia e Erzegovina, che dai verbali dell’accusa esce come un vero macellaio, responsabile del massacro di diverse migliaia di persone in numerose località e di aver propagato il terrore fra i civili di Sarajevo. Con lui il 57enne Goran Hadzic, già presidente della Repubblica della Krajina Serba, presunto colpevole di una serie di crimini fra cui l’eccidio di Vukovar, in cui 264 individui non-serbi vennero prelevati da un ospedale e ammazzati a sangue freddo. Anche lui, come Seselj, è fuori per motivi di salute. Giustizia lenta, questa dell’Onu. Rischia di esaurirsi per la scomparsa di tutti gli imputati.

il manifesto 27.3.16
La forza di Xi Jinping e il giornalismo di stato
Cina. Dopo la lettera che chiede le dimissioni del numero uno, la leadership di Xi appare ancora più solida. E i media sono a disposizione
di Simone Pieranni

La lettera che chiede le dimissione del presidente cinese (nonché segretario del Partito comunista) Xi Jinping e le sue conseguenze immediate, gli arresti e le detenzioni di persone ritenute coinvolte se non nella sua stesura, quanto meno nella sua diffusione, indicano una difficoltà della leadership di Pechino a rendere omogeneo tutto il Partito, di fronte alla figura di un numero uno che si è via via rivelato accentratore anche più dei suoi predecessori.
Significa che quelle lotte intestine diventate pubbliche durante lo scandalo Bo Xilai sono ancora lì, non sopite e pronte a scattare a ogni segnale di debolezza del Partito. L’impressione è che si tratti di tentativi che finiranno per consolidare ancora di più la posizione di Xi Jinping, leader che si è saputo armare di validi scudieri in grado di eliminare anche rivali contrari alla sua politica. I firmatari per altro hanno inserito nella loro lettera alcuni avvertimenti macabri, come quelli che si riferiscono all’integrità fisica di Xi e dei suoi famigliari, che pongono perfino dubbi sulla veridicità del testo. Prendendolo per buono, al presidente cinese vengono evidenziati tre problemi della sua azione: in primo luogo il disastro economico dovuto al tonfo in borsa e la perdita di soldi da parte di tante persone; in secondo luogo una politica estera eccessivamente aggressiva, a dire loro, che avrebbe finito per riportare gli Stati uniti ad un ruolo piuttosto pericoloso nell’area (abbandonando così – secondo i firmatari – la teoria della politica estera di Deng Xiaoping che puntava a «nascondere» la potenza cinese sotto forma di una diplomazia più subdola e apparentemente più accomodante).
Xi Jinping viene infine accusato di aver coltivato un culto della personalità che avrebbe finito per sradicare la «guida collegiale» del Partito.
I «fedeli membri del Partito» con questa lettera finiscono però per dimostrare poca forza, prima di tutto. Nella liturgia tutta cinese fatta di messaggi trasversali, quanto esce pubblicamente – di solito – ha lo stampo della debolezza, al contrario di imboscate interne capaci di partire del tutto silenti, salvo poi ottenere risultati. In secondo luogo la lettera appare densa di conservatorismo e volontà di mantenere lo status quo e quindi, dato il percorso comunque intrapreso dal paese, i desiderata di chi l’ha scritta sembrano inesorabilmente destinati a soccombere di fronte alla storia.
Più interessante appare una lettura di tipo «comunicativo» che permette di scorgere la necessità, da parte di chi contesta la presidenza, di armarsi di strumenti in grado di incidere quella realtà ovattata creata dal sistema informativo cinese, oggi ancora più sottoposto al potere rispetto al passato. E questo secondo aspetto indica il sentiero di una riflessione che avvicina Pechino alla gestione del consenso che possiamo ritrovare anche in altri sistemi politici.
Xi Jinping di recente ha compiuto una visita nel quartier generale dell’agenzia di stampa cinese, la Xinhua, invocando la «fedeltà al partito» e ribadendo una più generale necessità che i mezzi di informazione funzionino come cassa propagandistica delle azioni di governo. Si tratta di qualcosa che ben si inserisce nella considerazione, si permetta la generalizzazione, che tanti cinesi hanno del giornalismo (compresi molti addetti ai lavori). Ma in generale richiedere alla stampa una narrazione capace di supportare, anziché puntellare e imporre al potere una condotta attenta, non sembra oggi un desiderio esclusivo del leader cinese.

il manifesto 27.3.16
Cina, «Compagno Presidente è ora di dimettersi»
Cina. Una lettera firmata da «membri fedeli del Partito» chiede a Xi di abbandonare la leadership. Al di qua della Muraglia il miracolo cinese ha cominciato a perdere smalto e tira una brutta aria. Nel mirino finisce il numero uno del Pcc. Arresti e sparizioni sono la risposta
di Alessandra Colarizi

«Chiediamo per il bene del Partito, per la salvezza a lungo termine della Nazione, per il tuo bene e per quello della tua famiglia, di dimetterti da ogni incarico statale e di Partito. Di lasciare nelle mani del popolo cinese e del Partito la scelta di un’altra persona capace che possa guidarci attivamente verso il futuro». Firmato: «I membri fedeli del Partito».
È una bomba a orologeria la lettera comparsa qualche settimana fa sul sito specializzato in diritti umani Canyu.org e ripresa nel giro di poche ore da altre piattaforme online, compreso il filo-governativo Watching.cn.
Lo è davvero dal momento che il destinatario della missiva è nientemeno che il presidente cinese Xi Jinping, l’uomo che dal novembre 2012 guida il gigante asiatico sullo scivoloso sentiero delle riforme economiche con pungo di ferro e tolleranza zero verso le voci del dissenso politico.
L’appello comincia con un plauso dei successi ottenuti dal leader (con riferimento alla campagna anti-corruzione e all’implementazione delle riforme economiche) per poi degenerare in un’aspra critica contro l’erosione dell’indipendenza degli organi statali, l’aggressività inconcludente della politica estera, e l’incapacità gestionale manifestata di fronte all’altalena dei mercati finanziari, al problema disoccupazione e alla svalutazione dello yuan, la moneta locale. Come spesso accade in caso di contenuti sensibili, la lettera è stata fatta sparire dal web in un tardivo ripensamento dello staff di Watching.cn. Il problema è che a sparire non è stata soltanto la lettera.
Il 15 marzo, il giornalista Jia Jia (87mila follower su Twitter) scompare nel nulla mentre si trova all’aeroporto di Pechino in viaggio verso Hong Kong. Di lui si perdono le tracce per giorni fino a quando domenica scorsa è arrivata la conferma del suo avvocato: Jia è stato trattenuto per «un’indagine», non è ben chiaro se come sospettato o per collaborare alle ricerche.
Ma i bene informati non hanno dubbi sul fatto che esista un collegamento tra la sua sparizione, quella di un’altra quindicina di persone e la lettera, sulla cui pubblicazione Jia aveva espresso molti timori. La notizia del suo rilascio, circolata venerdì e confermata dal suo legale, per il momento non basta a fare luce sul caso. Chi ha scritto veramente la lettera? E soprattutto, come è finita su un sito finanziato dal governo?
Jia è l’ultima vittima di un giro di vite che non sembra avere fine. Attivisti, avvocati, dissidenti e giornalisti. Chiunque metta in discussione l’operato dell’amministrazione Xi Jinping si ritrova dietro le sbarre o sulla Cctv, l’emittente di Stato con il pallino per le autocritiche a telecamere accese.
Tira un’aria tesa a Zhongnanhai, il Cremlino d’oltre Muraglia, da quando il «miracolo cinese» ha cominciato a perdere smalto. Secondo un’analisi basata su una serie di direttive interne, tra il 2012 e il 2014 l’economia si classificava soltanto settima tra gli argomenti considerati più sensibili nella lista nera dei censori. L’anno scorso – quando il Pil è cresciuto ai minimi da 25 anni – era già salita al secondo posto.
Perché, come si sa, il rallentamento della crescita minaccia l’agognata «armonia sociale», lo dimostra l’impennata del numero delle proteste sul lavoro registrate negli ultimi tempi, circa 500 solo nel mese di gennaio.
Va da sé che, in tempi di intolleranza, l’editoria risulta tra i settori più colpiti. Introdotta inizialmente nell’ambito della campagna anti-corruzione (in Cina il silenzio stampa non di rado viene indotto attraverso generose mazzette), la mordacchia viene ormai applicata con mezzi decisamente più grezzi.
Ancora prima di Jia Jia a volatilizzarsi nel nulla erano stati i cinque librai di Hong Kong legati alla Causeway Bay Bookstore, libreria nota per i suoi testi scandalistici sull’establishment cinese.
Una storia dai contorni ancora poco chiari, specie per quanto riguarda l’inettitudine dimostrata dalle autorità dell’ex colonia britannica in un momento in cui il Porto Profumato avverte più che mai l’ingerenza della mainland dopo il fallimento delle manifestazioni democratiche degli Ombrelli.
E non sembra strano se nel 2015 l’Hong Kong Journalists Association ha registrato un ulteriore deterioramento della libertà di stampa per il secondo anno di fila. Sulla terraferma, il nuovo anno si è aperto con una storica visita di Xi Jinping presso le sedi dei principali media di Stato, la prima da quando ha assunto l’incarico di presidente.
Il messaggio risuona forte e chiaro: i media devono «allineare la loro ideologia, il pensiero politico e le azioni a quelle del Comitato centrale del Partito e debbono aiutare a forgiare le ideologie e le linee del Partito», ha dichiarato il numero uno di Pechino. Come spiega David Bandurski su China Media Project, il tour di Xi inaugura una nuova linea politica per i media nazionali.
Bandurski paragona la visita di Xi a quella realizzata dal suo predecessore, Hu Jintao, nella redazione del People’s Daily. Correva l’anno 2008 e per l’ex presidente i media avevano il compito di «incanalare l’opinione pubblica», mentre ora Xi predilige la linea definita dei «48 caratteri» che implica una quasi completa aderenza ai valori del Partito.
Un approccio non più «strategico e selettivo» come ai tempi di Hu Jintao, ma «senza esclusione di colpi». Quello della lealtà a tutti i costi. Funziona? Per il momento parrebbe proprio di no. E a poco sono serviti i cartoni animati e i motivetti orecchiabili con cui la propaganda ha tentato di umanizzare i leader agli occhi dei cittadini. Gli ultimi attacchi sono partiti direttamente dal cuore del sistema. All’indomani del tour mediatico di Xi, Ren Zhiqiang, il «Donald Trump cinese», riversava su Weibo la sua disillusione verso le sorti dell’informazione oltre Muraglia, non più al servizio del popolo bensì del Partito.
Bersagliato dalla stampa ufficiale, il magnate è stato infine silenziato dalla Cyberspace Administration of China che ne ha chiuso l’account sul Twitter cinese. Un evento grave ma non raro nell’era della «nuova normalità» di Xi Jinping.
Sarebbe potuta rimanere una delle innumerevoli purghe 2.0 inflitte dai censori ai surfisti della rete: la blogosfera insorge, i gendarmi di Internet fanno pulizia e si ricomincia. Invece no. Una lettera aperta – stavolta indirizzata al «parlamento» cinese – ha preso le difese di Ren accusando i dipartimenti governativi di aver, negli ultimi anni, «completamente ignorato la Costituzione e lo Stato di diritto». A differenza di quanto si potrebbe pensare, dietro l’audace messaggio (che riporta tanto di firma, numero di telefono e Id) non c’è un attivista bensì un dipendente dell’agenzia statale Xinhua.
E non è l’unico «insider» ad aver lanciato il guanto di sfida. Ad inizio mese anche la nota rivista finanziaria Caixin, diretta da Hu Shuli (una che in passato ha sempre saputo mantenersi sul filo del lecito con maestria funambolica), ha puntato i piedi portando allo scoperto un eclatante caso di censura ai propri danni.
«Il Partito ha cominciato a perdere la lealtà degli intellettuali sulla scia del movimento antidestrista del 1957. Dalle riforme e l’apertura anni ’80 si è avuto un qualche miglioramento, ma da quando Xi Jinping ha preso il potere la situazione è nuovamente peggiorata» spiega al manifesto Qiao Mu, docente della Beijing Foreign Studies University, editorialista, nonché amico di Jia Jia.
«Molti accademici, giornalisti e avvocati considerano il presidente una specie di «guardia rossa» che ha riportato in vita il culto della personalità con mezzi da Rivoluzione Culturale. Un ipocrita bugiardo che ha nella sua discendenza dall’aristocrazia comunista l’unico fattore di legittimazione».
In un certo senso, siamo di fronte alla rottura del tacito accordo tra media e potere suggellato all’indomani dei fatti di piazza Tiananmen, quando Pechino concesse maggiore libertà imprenditoriale e manageriale in cambio di obbedienza.
Non a caso, secondo il Washington Post, l’escalation repressiva ha innalzato il livello d’allarme presso la comunità diplomatica internazionale a livelli mai visti dai tempi dello storico massacro.

Corriere 27.3.16
Una nuova lingua, un nuovo ritmo
Montale, reinvenzione della poesia
di Daniele Piccini

Fin dai primi lavori, il Nobel rifiuta toni magniloquenti e pose estetizzanti E individua una parola capace di tenere insieme aulico e quotidiano

È il 1916 ed Eugenio Montale ha vent’anni quando scrive la prima delle poesie poi entrate nella raccolta Ossi di seppia : il testo, Meriggiare pallido e assorto , è un concentrato di suoni aspri e dissonanti, nella calcinata visione del paesaggio ligure, sigillato da una «muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia». Si può dire che il mirabile primo libro di Montale viva anzitutto di una musica, strozzata ma a suo modo tinnante, e di un ritmo. Quando nel 1925 pubblica gli Ossi , il libro più influente dell’intero Novecento poetico italiano, Montale ha poco meno di trent’anni (era nato a Genova nel 1896). La sua sapienza letteraria è tuttavia già affilata. Lettore appassionato e vorace senza autentici maestri (studiò per un po’ canto, dopo il diploma in ragioneria), il poeta adopera una parola precisa e tenta di nominare il mondo, in cerca di una verità assoluta che ne sospenda l’inganno.
È quanto Montale suggerisce in Intenzioni (Intervista immaginaria) del 1946, dove osserva tra l’altro: «All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza». Ecco spiegato il prodigio — che si impone all’orecchio del lettore — di un tono nuovo: quello de I limoni («Ascoltami, i poeti laureati/ si muovono soltanto fra le piante/ dai nomi poco usati...») o di Falsetto («Esterina, i vent’anni ti minacciano»). Montale si libera dalle pose estetizzanti, ma non cede all’abbassamento crepuscolare, al lamento o al gioco: si inventa, di colpo, una nuova classicità, una parola altrimenti autorevole, che tiene insieme aulico e quotidiano. E ciò per esprimere non solo il «male di vivere», l’«impietrato soffrire senza nome», il «delirio (...) d’immobilità», ma anche la necessità del miracolo. Alla sterilità del demone meridiano il poeta alterna infatti la possibilità del «fantasma che ti salva», il baluginare di un «varco», la speranza da offrire in dono a qualcuno .
Già negli Ossi di seppia compare infatti il dialogo con un immaginoso «tu». Tale dialogo — che nutrirà un poeta come Sereni — si intensifica nelle Occasioni (1939), in gran parte ispirandosi alla figura della studiosa americana Irma Brandeis, conosciuta a Firenze. Clizia, come viene ribattezzata, è al centro in particolare dei Mottetti. Qui si dialoga a distanza con la figura dell’amata, la quale, pur assente, invade di segni e barlumi la realtà. La salvezza è possibile solo fuori di sé, portata dal visiting angel. Nominare questa figura è pensare la sua potenza numinosa, la sua presenza: «Ti libero la fronte dai ghiaccioli/ che raccogliesti traversando l’alte/ nebulose...». Ancora una volta la liberazione esiste come intermittenza, come lampo: è «luce-in-tenebra» .
Dei radi e decisivi libri del primo Montale, La bufera e altro (1956, ma composto tra 1940 e 1954) è quello in cui l’altezza stilistica e la difficoltà tecnica giungono al culmine. La negatività non è più prevalentemente filosofica, ma storica (basta leggere La primavera hitleriana ). Così il «tu» femminile, per opporsi all’incupirsi dell’orizzonte, deve intensificare la sua valenza salvifica, caricandosi di attributi che rimandano a Cristo. Come al solito, si verifica una tensione tra opposti e il polo della vita può esprimersi in emblemi anche terrestri e concreti: l’anguilla dell’omonima poesia, un inno alla speranza, o la figura femminile della Volpe. Non c’è dubbio, tuttavia, che il libro più sorprendente dell’intera carriera poetica di Montale (che dal 1948 lavora al «Corriere della Sera») sia il successivo Satura (1971). Il miracolo è qui la reinvenzione di uno stile, l’individuazione di un modo, per la poesia, di continuare a darsi in un tempo sempre più invaso da chiacchiere e consumo. Il poeta vira verso la conversazione e l’ironia, ma con una serie di antidoti retorici. I testi di Xenia dedicati alla moglie scomparsa — la Mosca — trovano un laborioso equilibrio tra la discorsività e il bagliore lirico e sono una riscrittura, smorzata e rimodulata, dei Mottetti : anche qui l’assenza è una forma di presenza e la realtà non è quella che si vede.
I libri seguenti non fanno che riprendere, abbassandola, la nota di Satura. Montale, pur in continuità con la propria storia (lui stesso dice di scrivere il rovescio di un’unica opera), può così mettersi in ascolto di un altro tempo. E può continuare, in forme sempre più ibride, a credere nella poesia, oltre il tintinnare di rime degli Ossi e oltre gli emblemi delle raccolte successive, accordandola in parte all’opacità della cultura di massa (morirà nel 1981, dopo il Nobel del ’75). Un testo del Diario del ’71 e del ’72 (1973) paragona la Musa del poeta a uno spaventapasseri e dice che essa «ha resistito a monsoni/ restando ritta, solo un po’ ingobbita». Ora, conclude il poeta, «dirige un suo quartetto/ di cannucce. È la sola musica che sopporto» .

Corriere 27.3.16
Gli ermetici «Ossi di seppia» che segnarono il Novecento
di Ida Bozzi

È in edicola il terzo volume dell’iniziativa editoriale «diVersi» dedicata alla grande poesia: con Eugenio Montale, infatti, continua la biblioteca poetica in 35 volumi che offre una selezione di altrettanti grandi autori significativi per il lettore contemporaneo (ciascun volume in vendita a e 5,90 più il prezzo del quotidiano). Una collana di divulgazione curata da Nicola Crocetti, che consente di leggere direttamente, inquadrati dal punto di vista storico e biografico, alcuni dei versi che più hanno inciso nell’immaginario e nella cultura italiana e mondiale.
Dopo Leopardi e Neruda, il volume su Montale (1896-1981) è una discesa nel mondo del grande Premio Nobel per la letteratura, sia attraverso la raccolta Ossi di seppia sia attraverso pagine del Diario del poeta. Un poeta che — a partire dall’epoca in cui proprio Ossi di seppia apparve per la prima volta, nel 1925 —, segnò una traccia indelebile nella produzione e nell’idea stessa di poesia in Italia, influenzando generazioni intere di autori. Letto, studiato, analizzato, variamente considerato («ermetico», filosofico, intimista, metafisico), è certamente una delle voci fondamentali della poesia del Novecento, in cui non si trova più «la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro informe», bensì «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Seguirà il 2 aprile la raccolta dedicata al grande, scandaloso, «maledetto» e nerissimo Charles Baudelaire, il quarto volume. Si continuerà nelle settimane successive con altri autori italiani e stranieri, a partire da Alda Merini (il 9 aprile), Emily Dickinson (il 16 aprile), e poi Walt Whitman (il 23 aprile). Per continuare con García Lorca, Catullo, Kavafis, Borges, Edgar Lee Masters... Diversi, anzi diversissimi tra loro, ma fondamentali.

La Stampa 27.3.16
Che fine ha fatto il teschio di Shakespeare?
Per un documentario di Channel 4 esaminata con il radar la tomba del Bardo: profanata probabilmente due secoli fa, sfidando la maledizione incisa sulla lapide
di Vittorio Sabadin

Sulla lapide della tomba di William Shakespeare nella Holy Trinity Church di Stratford-upon-Avon non è stato inciso il suo nome, ma un invito in versi a non toccare le ossa che quel sepolcro contiene. Un esame del loculo effettuato con un radar in grado di penetrare il terreno ha però permesso di scoprire che l’invito, pure accompagnato da una maledizione, non è stato rispettato: la tomba è stata profanata probabilmente due secoli fa, e il teschio di Shakespeare è stato rubato.
L’indagine commissionata da Channel 4, che ha mandato in onda ieri sera in Gran Bretagna un documentario sulla sepoltura del più grande poeta inglese, ha permesso di sfatare alcune leggende che si tramandano da tempo: Shakespeare non è sepolto in piedi come il suo amico e scrittore Ben Jonson all’Abbazia di Westminster; il corpo non si trova a cinque metri di profondità come si diceva, ma a 90 centimetri dalla superficie; è avvolto in un lenzuolo e non rinchiuso in una cassa. Ma dove si sarebbe dovuta trovare la testa del poeta ci sono segni di uno scavo e di terra frettolosamente rimessa a posto. È visibile anche una strana «scatola» di mattoni, della quale si ignora lo scopo.
La voce che il teschio di Shakespeare fosse stato rubato era circolata già nel XVIII secolo, un’epoca nella quale la violazione delle tombe era molto frequente. «C’era l’abitudine - ha spiegato l’archeologo Kevin Colls, direttore del progetto - di prelevare i teschi delle persone famose per analizzarli e per scoprire le ragioni anatomiche del loro genio. Da questo punto di vista il teschio di Shakespeare era un obiettivo molto appetibile».
Il 23 aprile si celebreranno i 400 anni dalla morte del drammaturgo, una ricorrenza così importante da avere convinto il vicario della Holy Trinity, Patrick Taylor, a concedere il permesso di esaminare con il radar la tomba. La scritta sulla lapide maledice solo chi «muoverà le mie ossa», e sembra dunque autorizzare uno scanner. «Ma non faremo altro - ha detto Taylor - e rispetteremo la richiesta di Shakespeare di non essere disturbato. Il mistero della sua tomba non sarà svelato, e non sapremo mai che cosa esattamente contiene».

Corriere La Lettura 27.3.16
Il sospiro
Fa parte del concerto delle passioni e arricchisce il repertorio delle nostre manifestazioni emotive (come il riso, il sorriso e il singhiozzo). Ma la scienza se n’è occupata poco e la letteratura persino troppo; ora, per ovviare alla prima lacuna, una ricerca fa luce sui meccanismi biologici complessi che regolano questo estenuato anelito di vita. Il risultato più sorprendente dello studio? Esistono due tipi diversi di respiri, dei quali non ci siamo mai accorti, per immettere nei polmoni il doppio dell’aria che inspiriamo di solito
di Edoardo Boncinelli

Quando eravamo ragazzi e leggevamo i fumetti, incontravamo una scritta — SOB — ogni volta che qualcuno singhiozzava e un’altra — SIGH — quando qualcuno sospirava, mentre si tossiva come COUGH COUGH. Abbiamo così imparato che in inglese to sob vuol dire singhiozzare, to sigh vuol dire sospirare e to cough tossire, tre verbi di presumibile natura onomatopeica. Le lingue si imparano anche così.
Il sospiro è un protagonista della nostra vita, individuale e di relazione, uno di quegli eventi ordinari dei quali la scienza si è occupata poco e la letteratura, di pregio o di dozzina, anche troppo. Una di quelle evenienze della vita quotidiana delle quali coloro che credono di sapere, sanno tutto. E ne discettano. Come il sorriso, il riso o il singhiozzo, che arricchiscono il repertorio delle nostre manifestazioni emotive, repertorio vario e affascinante del quale gli uomini hanno sempre discorso senza saperne quasi niente. D’altra parte, chi di noi non ha mai sospirato — di nostalgia, di desiderio, di rimpianto, per ricordi fuggevoli o per angustie presenti, per amore, per scommessa o per rabbia, nelle diverse vicissitudini che costellano il cammino della vita?
Talvolta il sospiro è incoercibile e può fungere da spia di un nostro stato d’animo profondo, al punto che ai tempi del romanticismo dichiarato si diceva che l’amore si può fingere e ostentare, ma mai nascondere. Un improvviso rossore e un sospiro non trattenuto hanno smascherato un gran numero di passioni inconfessate e hanno tradito le trame sentimentali più accortamente celate.
Anche i bambini piccoli spesso sospirano, quando meno te l’aspetti, e in alcuni casi a un sospiro improvviso si associa un breve incantevole brivido di tutta la personcina. Sospira chi sta male e chi sta bene, chi si accinge a compiere uno sforzo e chi lo ha portato a compimento con successo, chi spera e chi dispera, chi anela e chi è sazio, chi cerca comprensione e chi semplicemente ascolta, chi canta e chi ascolta cantare. Il sospiro può essere generato tanto da un’aspirazione quanto dal soddisfacimento della stessa. Ci sono i sospiri dei condannati della Repubblica Veneta che attraversavano il ponte detto appunto dei sospiri e i sospiri di un cane che assiste ai preparativi per la sua pappa.
Il sospiro, insomma, fa parte del concertino delle passioni, in un’epoca che qualche nostalgico ha definito, chissà perché, l’epoca delle passioni tristi.
Ma cos’è il sospiro? È una sorta di ripensamento, che fa partire un secondo movimento di inspirazione prima che sia finito quello in atto; un doppio passo del processo respiratorio, un sincopato nel balletto della vita, un estenuato anelito di vita, proprio laddove l’anima si trova a questionare con il corpo.
Può avere un’origine organica come una psicologica, ma ha in genere sempre lo stesso decorso, finalizzato a introdurre più aria nei polmoni, coinvolgendo quasi sempre l’abbassamento del diaframma. Io sospiro molto nella giornata. Più oggi che ho la «pancetta», che nei tempi passati, a proposito dei quali Leopardi direbbe: «Chi rimembrar vi può senza sospiri?».
Chi controlla l’affiorare di un sospiro e il suo decorso? Come quasi tutti i moti del nostro corpo e della nostra psiche, il sospiro è regolato da due processi antagonisti che agiscono sul centro del respiro, come rivelato in dettaglio da un recentissimo articolo scientifico (curato da Li Peng e collaboratori, pubblicato sul volume 530 di «Nature»), in un ennesimo esempio di fenomeno biologico complesso e a suo modo misterioso spiegato con semplicità e immediatezza dall’indagine sperimentale.
Il ritmo del respiro si trova sotto il controllo di uno specifico centro nervoso localizzato alla base del cervello vero e proprio, più o meno dove questo si assottiglia per divenire midollo spinale. Il centro porta il nome di Complesso pre-Bötzinger (CpB), comprendente qualche migliaio di neuroni. La sua attivazione è richiesta per dare inizio a un movimento di inspirazione e il fenomeno si può osservare anche in laboratorio, operando su fettine di tessuto coltivato in vitro. Ogni attivazione di tale centro genera a sua volta una contrazione nel diaframma e in diversi muscoli inspiratori, e tale contrazione dà inizio a un moto di inspirazione. Di tanto in tanto una seconda ondata di attivazione del Complesso CpB segue prontamente quella già in atto, e a questa doppia inspirazione, che ci fa immettere nei polmoni più o meno il doppio dell’aria che inspiriamo di solito, noi diamo il nome di sospiro.
Questo può accadere per una reale esigenza di più aria nei polmoni e per una serie di eventi psichici che ci coinvolgono emotivamente, tanto nella normalità quanto nei disordini psichici che coinvolgono un’aumentata quantità di ansia. Il sospiro e il normale respiro partono in conclusione entrambi dal Complesso CpB.
Si sapeva che un certo numero di neuromodulatori di natura peptidica — cioè proteica, e non appartenenti alla famiglia delle catecolamine, come la serotonina e l’adrenalina — possono influenzare nei ratti di laboratorio il presentarsi del sospiro, ma non era fino a oggi noto il meccanismo fisiologico di tale azione. Si è visto allora, non senza sorpresa, che i neuroni che costituiscono il Complesso CpB possono generare da soli il segnale per un normale processo di inspirazione, ma per dar luogo a un sospiro hanno bisogno di un segnale speciale proveniente da un centro nervoso supervisore, capace di tenere sotto controllo il Complesso CpB stesso. Questo centro di supervisione controlla il Complesso CpB attraverso l’azione di due tipi di circuiti nervosi paralleli, ma antagonisti, che utilizzano come mediatori l’uno la neuromedina B (NMB) e l’altro un derivato della gastrina (GRP).
Uno dei risultati più sorprendenti di questo studio è che evidentemente esistono tipi di sospiro diversi, dei quali prima non ci eravamo accorti e che prospettano sotto una luce nuova la comprensione e la modulazione di questo fenomeno e la sua collocazione nel quadro dei rapporti esistenti fra respirazione e sospiro in condizioni normali e patologiche.
Questa storia suggerisce almeno tre ordini di considerazioni. Per prima cosa abbiamo la conferma del fatto che lo studio attento e dettagliato dei fenomeni biologici ci può fornire una loro effettiva comprensione, spesso anche più precisa di quanto ci aspettavamo. Non è che per questo smetteremo di sospirare o lo faremo in maniera diversa, ma ora sappiamo quello che ci sta sotto. In secondo luogo si trova una volta ancora che ogni moto del nostro corpo e della nostra psiche è regolato da processi di natura antitetica, in maniera che uno promuove e l’altro frena l’occorrenza del moto stesso. Questo accade essenzialmente per due ragioni: perché ogni moto si deve prima o poi estinguere per potere magari ripresentarsi, e perché non deve essere mai né troppo esangue né troppo prorompente. Questo doppio controllo, ormonale o nervoso, delle nostre manifestazioni interne ed esterne fa sì che la nostra vita si estenda sempre fra il desiderio di fare una cosa e il senso di colpa per averla fatta, una situazione psicologica di fondo che caratterizza il nostro modo di vivere la vita in tutte le sue manifestazioni.
In terzo luogo, lo studio scientifico, di natura inevitabilmente riduzionistica, dei fenomeni può a volte portare a riconoscere nuove sfumature di quelli e ad aprire così nuovi inusitati orizzonti interpretativi, alla barba di coloro che amano sempre tessere le lodi di un approccio olistico, che non si capisce mai bene in cosa consista. Se si parla in particolare di fenomeni biologici, occorre considerare che per le cose vive tutto ciò che conta accade a livello molecolare. Si tratta cioè di mobilitazioni, trasformazioni e interazioni ordinate di molecole, fluide o semifluide, anche se ospitate e sorrette da strutture più stabili che possono anche essere di dimensioni macroscopiche, come organelli, membrane, vasi o impalcature rigide. Queste strutture costituiscono ciò che osserviamo di una cellula o di un organismo vivente, ma la vita vera ha luogo dentro di queste e fra di esse, al livello essenzialmente molecolare, e talvolta anche atomico.

Corriere La Lettura 27.3.16
Quello d’amore e quello esistenziale
di Alessia Rastelli

«Madonna mia, a voi mando/ in gioi li miei sospiri» scriveva il poeta della Scuola siciliana Giacomo da Lentini. «Perché i sospiri ispirano versi fin dagli albori», osserva l’italianista Luigi Surdich, professore all’Università di Genova, autore dei volumi sul Duecento e il Trecento della Storia della letteratura del Mulino, ma anche studioso dell’età contemporanea (ha appena curato, tra l’altro, la ristampa del «Terzo libro» e altre cose di Giorgio Caproni, Einaudi). Sospiri amorosi, soprattutto. Come nel sonetto di Guinizzelli Vedut’ho la lucente stella diana : «Ed io dal suo valor son assalito/ con sì fera battaglia di sospiri/ ch’avanti a lei de dir non seri’ ardito». E Dante, che chiude Tanto gentile e tanto onesta pare con la terzina: «e par che de la sua labbia si mova/ un spirito soave pien d’amore,/ che va dicendo a l’anima: Sospira». «È il repertorio del Dolce stil novo, in cui l’uomo sospira di fronte all’irraggiungibilità dell’amata — spiega Surdich —. Già nella Commedia però l’azione si umanizza: sospirano le anime del Limbo e sono “dolci sospiri” quelli di Paolo e Francesca nell’Inferno». La dimensione esistenziale diventa poi più marcata nel Canzoniere di Petrarca, nel quale «il sospiro è quello di un uomo che ricostruisce la sua vita interiore, non priva di contraddizioni tra amore terreno e spirituale». «Le lacrime e i sospiri degli amanti» si trovano pure nel mondo rovesciato della Luna nell’ Orlando furioso , mentre la situazione diventa più varia nell’Ot-tocento e Novecento. Se per Foscolo e Manzoni il sospiro è «un fisiologico soffio vitale» («e tutti l’ultimo sospiro/ mandano i petti alla fuggente luce», I sepolcri ; «Ei fu. Siccome immobile,/ dato il mortal sospiro», Il cinque maggio ), con Leopardi «il sospiro torna amoroso oppure nostalgico della giovinezza perduta». Fino a Giorgio Caproni, per il quale «Sospiro diventa il titolo di un componimento (nei Versicoli del Controca-proni , 1983) e si identi-fica con la poesia stessa, “fuga dell’anima mia”».

Corriere La Lettura 27. 3.16
Anni ’70 , i colori del piombo
C’erano anche voglia di vivere, creatività, irriverenza ma quel periodo cupo non merita di essere rivalutato
di Pierluigi Battista

I brividi di «Porci con le ali», la ricerca artistica di Pablo Echaurren, le innovazioni della pubblicità delineano un panorama meno buio di quanto si potrebbe pensare. Restano però indimenticabili gli anatemi contro Goffredo Parise, gli attacchi a Elsa Morante, il conformismo denunciato da Sciascia

«La strage di Piazza Fontana annuncia gli anni Settanta», scrive Guido Crainz all’inizio del capitolo dedicato a quel decennio della sua Storia della Repubblica , appena pubblicata da Donzelli. Con un annuncio così terribile e cruento, il destino è segnato: quel decennio salutato da un avvenimento tanto funesto non potrà che essere condannato, vituperato per l’eternità. E infatti Crainz continua così: in quel decennio dannato e infernale «la violenza politica conosce asprezze senza paragone con gli altri Paesi europei. Sono centinaia le persone che perdono la vita in seguito a stragi, atti terroristici, violenze di piazza: vittime nei primi anni soprattutto dello stragismo e dello squadrismo neofascista, e poi del terrorismo di sinistra». Anni bui, anni cupi, anni lugubri, anni di sangue e di intolleranza. Anni di piombo, secondo una locuzione passata alla storia anche se nata in un contesto nazionale diverso, raffigurato e immortalato da un film di Margarethe von Trotta. Ma quella definizione sembra attagliarsi perfettamente a un Paese «senza», come quello tratteggiato da Alberto Arbasino in pagine di quell’epoca bulimicamente saccheggiate da Crainz, quelle in cui si sferza un’Italia «vittima di abbagli metalmeccanici e velleità petrolchimiche», dove «il cuore della vita sono i gloriosi pensionati dello Stato, cioè gli operai delle grandi imprese passive» cantati nei «trip accademici sulla metallurgia wagnero-mirafior-marxista».
Troppo pessimismo di maniera? Troppa scontata retorica anti-Settanta, troppi luoghi comuni, troppa voglia di liquidare un decennio, su cui grava da sempre una spietata damnatio memoriae , di condannarlo come la matrice e l’ispiratrice di ogni nefandezza?
Va bene, proviamo a ribaltare il luogo comune. Proviamo a dimenticare per esempio gli insulti che piovvero copiosi sul capo del povero Goffredo Parise quando pubblicò nel 1970 il primo dei suoi Sillabari , accusati dalla più impegnata cultura progressista, quante volte lo ha ricordato Raffaele La Capria, di intimismo e di ripiegamento disimpegnato. Dimentichiamo la rozzezza che passava per afflato rivoluzionario del cinema politico degli anni Settanta, comprese alcune opere glorificate dei più accreditati registi italiani. Dimentichiamo la triste sorte della narrativa negli anni Settanta, confinata negli scaffali più inaccessibili delle librerie, perché nessuno ci poteva fare niente, né gli editori né i librai, se gli scaffali più in vista traboccavano di saggistica e di opuscoli politici, mentre la letteratura ristagnava, e per fortuna che c’erano i classici che facevano la fortuna delle edizioni tascabili, oppure Cent’anni di solitudine diventava il romanzo di una generazione politicizzata che ne aveva fatto il suo manifesto. Ma un romanzo come La storia di Elsa Morante, avendo spezzato questo clima di dittatura della grande Storia su quella piccola, quella dei messi a margine nelle fanfare e nei domani che cantano, venne gratificato da una gragnuola di stroncature. Proviamo a ribaltare il luogo comune, dunque: e se invece non fosse stato tutto così plumbeo? Se non fosse poi così vero che la creatività, la dimensione dei sentimenti, l’attenzione all’estetica e alle forme abbiano sofferto così tanto?
Per esempio: uno dei libri che hanno rotto quell’atmosfera è stato Porci con le ali di Lidia Ravera e di Marco Lombardo Radice. Venne pubblicato nel cuore degli anni Settanta dalla Savelli, la casa editrice del «Movimento», nella collana intitolata al «pane e le rose», lo slogan poetico in cui si diceva quanto fosse urgente che alla dimensione della necessità economica del «pane» dovessero affiancarsi la bellezza e la gentilezza e il sogno di una «rosa». Ovvio, tanti anni dopo. Ma allora non lo era. E non lo era la rivendicazione espressa in quel romanzo che fosse necessario esplorare una dimensione esistenziale non tutta riducibile al lessico della politica, ma ricca di turbamenti, brividi, dolori, piaceri: di vita, insomma. Bene, la copertina di quel libro era di Pablo Echaurren, il giovane artista del Movimento che in quel decennio fu tra quelli che si ostinarono a saldare testardamente politica ed estetica, forme, trasgressione e visione alternativa del mondo.
Per una fortunata coincidenza oggi si può proprio partire da Echaurren per rileggere gli anni Settanta con altre lenti. È la coincidenza di una grande mostra che ne ripercorre l’opera alla Galleria nazionale d’arte moderna, raccolta nel catalogo Contropittura , con la pubblicazione di un piccolo libro proprio su Pablo Echaurren. Il movimento del ’77 e gli indiani metropolitani , edito da Postmedia-Books, dedicato appunto a un artista che ha contribuito, scrivono i curatori, a quel «repentino processo di «massificazione dell’avanguardia» individuato all’epoca da Umberto Eco e Maurizio Calvesi: guardando alla ricerca artistica del primo Novecento e del decennio, il movimento si appropria di pratiche come il détournement , il collage , lo happening per arrivare a una trasformazione dei linguaggi dominanti. I curatori continuano così, ricreando l’atmosfera in cui dipinse e disegnò Echaurren, figlio del grande Roberto Sebastián Matta, negli anni Settanta: «L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari costituisce una lettura fondamentale per la cultura antirepressiva e antigerarchica del ’77 nella quale abbondano riferimenti più o meno diretti ai concetti di “macchine desideranti” e alla “schizoanalisi” teorizzati appunto nell’anti-Edipo, e in cui il classico sistema ”verticale” di conoscenza e di informazione, simboleggiato dalla tradizione occidentale della figura dell’albero, viene sostituito da un nuovo modello di sapere rizomatico, orizzontale, diramato e frammentario».
È vero. Ed è vero che nel ’77 affiorarono slogan come «siamo tutti Duchamp», ci si consacrò al fascino del situazionismo, si giocava con i motti di spirito, l’irriverenza, la trasgressione. Ma basta questo per rileggere con nuovi punti di vista gli umori e le atmosfere estetiche dei vituperatissimi anni Settanta?
Tanti libri usciti in questi ultimi tempi, con linguaggi completamente diversi, sembrano non accontentarsi degli stereotipi e dei luoghi comuni. Nel suo libro uscito da poco dalla casa editrice Rizzoli, e di cui ha lungamente scritto sul «Corriere» Paolo Mieli, I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo , Vladimiro Satta smonta le imponenti costruzioni dietrologiche che hanno offuscato la percezione di un decennio annunciato, come ha scritto Crainz, dall’orrore della strage di Piazza Fontana, e arriva a dichiarare che le istituzioni repubblicane, sanguinosamente sfidate dal terrorismo e dallo stragismo, «hanno vinto e hanno vinto abbastanza bene, nel complesso».
La lamentazione sul decennio più cruento della storia repubblicana si rovescia nella constatazione che tutto sommato le nostre istituzioni hanno retto, e hanno retto «abbastanza bene», addirittura. Non è un’edulcorazione del giudizio storico, ma la sottolineatura di un bilancio storico che la vulgata dominante degli anni Settanta non vuole nemmeno prendere in considerazione. Lo stesso Crainz, partendo da un punto di vista radicalmente diverso da quello di Satta, vuole ricordare nelle sue pagine tutto ciò che negli anni Settanta non poteva essere rinchiuso nelle sbarre di un decennio esclusivamente dedito alla violenza e alla pratica dell’intolleranza: il riconoscimento internazionale del design italiano con una grande mostra nel 1972 al Museum of Modern Art di New York; le «nuove forme di comunicazione pubblicitaria rivolte spesso ai giovani», dal «Chi Vespa mangia le mele» alla campagna di Pirella e Toscani per i jeans Jesus «con l’evocazione di frasi sacre (“Non avrai altro jeans all’infuori di me”; “Chi mi ama mi segua”)», mentre Giuliano Zincone scopriva, dietro gli slogan stentorei dell’operaismo dell’epoca, come persino nella classe operaia mitizzata si stessero annidando i germi detestati dell’«individualismo» e del «consumismo» disimpegnato.
Certo, resta il fatto che mentre gli «indiani metropolitani» facevano i beffardi coniando slogan stralunati e trasgressivi contro Luciano Lama, i gruppi di violenti si stavano preparando, nella stagione della P38, a cacciare con la forza militare il dirigente della Cgil, buttato fuori dall’Università di Roma. E nella memoria e nella letteratura, gli anni Settanta restano come qualcosa in cui la dimensione della violenza, ma anche della disperazione, del disagio esistenziale, del dolore umano sembrano consustanziali a quel decennio, come dimostra il romanzo uscito lo scorso anno da Einaudi Gli anni al contrario di Nadia Terranova, una scrittrice nata nel cuore dei Settanta. Un decennio di contrasti, durezze, storie finite malamente, destini spezzati, come è evidente nel romanzo di Elena Venditti Non mi abbracciare , pubblicato da Aliberti Wingsbert House.
E sarà pure un segno troppo labile, ma è comunque significativo che un bestseller in America e ora pubblicato in Italia da Mondadori, Città in fiamme di Garth Risk Hallberg, prenda le mosse da una grande catastrofe, da un evento apocalittico che colpì New York e che questo evento apocalittico sia irrimediabilmente intrecciato a un episodio svoltosi negli anni Settanta. Fino alla meritoria pubblicazione presso Adelphi dei saggi letterari di Leonardo Sciascia, raccolti sotto il formidabile titolo Fine del carabiniere a cavallo , in cui appare una polemica di Sciascia contro i detrattori dogmatici dei nouveaux philosophes , usciti dalla Francia attorno alla metà degli anni Settanta, e contro una sinistra ancora fortemente incline a demonizzare chi, anche dalle proprie file, osava «percepire il prurito sotto la pelle della storia» e mettere in discussione i luoghi comuni della storia ufficiale: «Siamo inveteratamente condizionati, quietamente abituati, a considerare di destra, a relegare nella destra tutto ciò che possa nuocere alla sinistra così com’è».
Questa inveterata abitudine, un po’ ricattatoria, non si è proprio estinta. C’è bisogno di rimpiangere il decennio in cui ha mietuto i suoi trionfi?

Corriere La Lettura 27. 3.16
Addio vecchia cronologia: il tempo è senza verso
di Pietro Mento

In pochi anni di vita i social network hanno sconvolto la nostra idea di tempo. Se i siti e i blog hanno da sempre obbedito all’ordine cronologico degli eventi, presentando i post dal più recente in poi, Facebook e simili hanno da tempo manomesso la linea temporale in uso da millenni per una sua versione da XXI secolo. Oggi sono gli algoritmi a decidere l’ordine delle cose che vediamo nel feed , nel flusso dei social network; sono loro a decidere che cosa vediamo, quali utenti appaiono spesso davanti ai nostri occhi e quali cadono nel dimenticatoio.
Qualche giorno fa Instagram, social network fotografico comprato da Facebook nell’aprile 2012, ha annunciato un cambiamento di base, introducendo un feed algoritmico che cambierà la sequenza di foto visibili agli utenti a seconda di vari parametri. È un evento importante per varie ragioni, l’ultimo passo dell’industria social verso una nuova concezione di tempo: se Facebook ha inaugurato il suo news feed nel 2006, cominciando gradualmente a «decidere» i contenuti visibili agli iscritti, il 2016 è stato l’anno di Twitter (febbraio) e, appunto, Instagram (marzo). La svolta di Twitter è peculiare anche perché è seguita a un lungo periodo di prova iniziato nel 2013 che ha interessato una piccola élite di utenti a cui è stato sottoposto il nuovo ordine algoritmico. Un esperimento che serviva a sondare il territorio, essendo Twitter un luogo in cui l’ordine cronologico ha sempre fatto la differenza, creando un sito composto da soli tweet, in puro, semplice ordine lineare. Un’epoca che oggi possiamo considerare finita.
Se a guidare la svolta nel mondo social è stata Facebook, Google ha iniziato ben prima nel world wide web, affinando un algoritmo sempre più sofisticato per il suo motore di ricerca e spianando la strada a quanto fatto dalla creatura di Mark Zuckerberg al suo feed . Lo strapotere di Facebook sta nei suoi 1,3 miliardi di utenti e nella cura con cui sceglie i contenuti che questi vedranno. Nel 2012 700 mila utenti del sito sono stati scelti come «cavie» di un esperimento segreto durato una settimana e mirato a indagare le reazioni emotive degli utenti ad alcune notizie e status, cosa che è stata rivelata pubblicamente solo due anni dopo creando enormi polemiche — e spingendo alcuni a dipingere uno scenario distopico in cui Facebook riuscirà a decidere l’esito delle elezioni.
Ma a cosa servono questi algoritmi? E perché anche Twitter e Instagram hanno deciso di usarli? La loro caratteristica principale è di poter raccogliere, analizzare e organizzare — ottimizzare, nella migliore delle ipotesi — la mole di contenuti disponibile, creando un feed «personalizzato» per ciascun utente, pure selezionando post «vecchi» di qualche ora per motivi di interesse e d’apprezzamento del pubblico. Un membro della vostra cerchia che non vedete da tempo su Facebook potrebbe insomma fare capolino nel caso un suo post avesse enorme successo inaspettato.
Soprattutto gli algoritmi, piegando lo scettro del tempo, permettono ai social network di inserire pubblicità con più facilità: un feed cronologicamente sconvolto esige la presenza di un algoritmo in grado di personalizzare davvero l’esperienza del sito. E cosa c’è di più personalizzabile della pubblicità su internet? Questo è il punto: Instagram e Twitter hanno bisogno di monetizzare. Ergo, hanno bisogno di pubblicità e di una piattaforma sofisticata in grado di somministrarle ai loro utenti. Anche per questo la nuova cronologia del web ha lati oscuri.
In molte occasioni, per esempio, gli utenti hanno notato come alcuni eventi trending topic su Twitter, spesso seri e drammatici, non apparivano tra quelli di Facebook, che sembra intenzionato ad allontanare le notizie scabrose dal feed dei loro utenti. Cosa resta da fare alle testate giornalistiche per risaltare in un ambiente così chiuso e omogeneo? Pagare, ovvio. Il cerchio si chiude, si apre l’epoca del dominio algoritmico.

Corriere La Lettura 27. 3.16Il contadino e il martirio
La sfida dei Crocifissi tra Donatello e Brunelleschi

Ha i capelli impastati di sangue, che cola sotto le ciocche fin sulla fronte e ai lati del viso. Gli zigomi tumefatti. Le palpebre lunghissime ormai ridotte a feritoie. Le labbra semiaperte nell’esalazione dell’ultimo respiro. Il corpo sfigurato nello spasimo della morte. È il Crocifisso di Donatello (qui sotto a sinistra), conservato nel transetto settentrionale della basilica fiorentina di Santa Croce, in un’area esclusa dai percorsi di visita. Si può ora vedere nella mostra Fece di scoltura di legname e colorì , alla Galleria degli Uffizi di Firenze curata da Alfredo Bellandi (fino al 28 agosto). Crocifisso famoso, non solo perché segna una nuova concezione del divino, sostanzialmente incarnato nell’uomo, ma anche il passaggio dall’arte gotica, che stilizzava il Cristo sulla croce, a una nuova rappresentazione in cui il figlio di Dio appare come un uomo di carne e nervi, che muore trafitto dal dolore come ogni uomo torturato.
La notorietà dell’opera, bellissima ma non certo tra le più tipiche di Donatello, si deve a una storia riferita dal Vasari nella biografia di Brunelleschi e subito dopo in quella di Donatello. Lo scultore intagliò il Crocifisso intorno al 1408, quando aveva poco più di vent’anni. Concluso il lavoro, «parendogli di avere fatto una opera lodatissima, chiamò per il primo Filippo di Ser Brunellesco, che era domestico amico suo, che lo venisse a vedere». Ma Brunelleschi, più anziano di una decina di anni, raffreddò l’entusiasmo: «Gli pareva ch’egli avesse messo in croce un contadino e non il corpo di Cristo, il quale fu delicatissimo di membra e d’aspetto gentile ornato». Donatello si offese e sfidò l’altro: «Piglia del legno e prova a farne uno tu».
La risposta è custodita nella basilica di Santa Maria Novella: un crocifisso scolpito e dipinto in un tronco di pero che venne immediatamente recepito dagli altri artisti del Rinascimento come opera esemplare: naturale e al tempo stesso nobile, perfetto nelle proporzioni che rimandano all’ideale «homo quadratus» di Vitruvio ma anche illuminato dall’idea neoplatonica della divinità, caratterizzata dalla bellezza e dal fulgore. Per esaltare l’armonia quasi musicale di questo corpo lo fece completamente nudo, iniziando una tradizione che arriverà fino a Michelangelo, nel Crocifisso della chiesa di Santo Spirito. Riferisce il Vasari che, dopo aver terminato in gran segreto la scultura «fatta a gara», Brunelleschi invitò Donatello a pranzo. Passando dal mercato fecero la spesa: formaggio, uova e frutta. E con queste cose inviò l’amico a casa dandogli le chiavi e dicendo che lui si fermava per il pane dal fornaio.
Donatello entrò e si trovò davanti il Crocifisso, «di perfezzione e sì maravigliosamente finito, che di stupore e di terror ripieno, ne rimase vinto talmente, che la tenerezza dell’arte e la bontà di quella opera gli aperse le mani, con le quali strette teneva il grembiule pieno di quelli frutti et uova e formaggio, sì che il tutto si versò in terra e si fracassò». Vedendo la frittata sul pavimento, Brunelleschi rimproverò l’amico di aver rovinato il desinare. Donatello rispose che per quel giorno aveva avuto la sua parte, pensasse lui a raccogliere il resto «imperoché conosco e veramente confesso ch’a te è conceduto fare i Cristi et a me i contadini».
I due rimasero amici e al tempo stesso in competizione. Nel 1418 Donatello aiutò Brunelleschi a realizzare il modello della cupola del Duomo, in mattoni e calcina, senza armature, per dimostrare che poteva crescere sostenendosi da sola, secondo il modo di murare degli antichi, che avevano studiato durante il loro viaggio a Roma, nel 1402. Aveva pagato Filippo tutte le spese, vendendo un poderetto nelle campagne di Settignano. Era figlio di un ricchissimo notaio, ser Brunellesco Lippi, a cui il Comune di Firenze, sul finire del Trecento, aveva affidato la difesa della città. Donatello invece era figlio di un cardatore di lana, che per avere una bocca in meno da sfamare l’aveva messo a bottega dai Ghiberti.
Fu qui che nacque l’amicizia con Brunelleschi. A Roma, dissotterrando e misurando i ruderi affioranti dal terreno, l’architetto cercava di capire il segreto della divina proporzione. E incitava Donatello a guardare bene le sculture, a disegnarle. A Firenze realizzarono altre statue in legno dipinto, come quelle raffiguranti la Maddalena orante , che insieme ai due Crocifissi fecero da modello alla scultura lignea del Quattrocento, alla quale è dedicata la mostra fiorentina. Nelle opere, una cinquantina, si assommano la riscoperta della plasticità classica, la policromia, l’assemblaggio di materiali diversi. Come nel Crocifisso del Pollaiolo, con il corpo in sughero, il perizoma di tela gessata, i capelli di stoppa impastati di stucco.

Repubblica Cult 27.3.16
Compagno robot /1
Noam Chomsky. Che meraviglia se le macchine ci rubassero il lavoro

CHI È
NOAM CHOMSKY, OTTANTOTTO ANNI, PROFESSORE EMERITO AL MIT , È CONSIDERATO IL PIÙ GRANDE LINGUISTA DEL VENTESIMO SECOLO.
HA SEMPRE CONIUGATO LA SUA CARRIERA ACCADEMICA CON L’IMPEGNO POLITICO DIVENTANDO UNO DEI PIÙ RAPPRESENTATIVI INTELLETTUALI DELLA SINISTRA RADICALE AMERICANA. SI DEFINISCE ANARCHICO

C’È UN MANTRA CHE NOAM CHOMSKY, ottantasette anni, ripete con energia durante tutta la nostra intervista: « It’s our choice », dipende da noi. Dipendesse da lui, celebre linguista famoso in tutto il mondo, intellettuale mai tenero con il potere, allora una chance ai robot bisognerebbe darla. «Potrebbero essere loro a liberarci dal guinzaglio della routine», a farci correre sui campi incolti della creatività e del piacere.
Professor Chomsky, secondo lei che cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale?
«Si può intendere l’intelligenza artificiale in due modi. Il primo è quello a cui ho dedicato la mia vita: l’indagine sull’intelligenza umana, il tentativo di ricostruirla. Molto dev’essere ancora dimostrato, ma con la “rivoluzione copernicana” della linguistica abbiamo finalmente inteso il linguaggio come proprietà biologica, mostrando che l’enorme varietà linguistica può essere ricondotta a un sistema molto semplice che genera il pensiero. L’altro modo di intendere l’intelligenza artificiale è il lato ingegneristico della faccenda: i dispositivi utili, ad esempio le macchine che si guidano da sole. Vuol sapere come vedo quel tipo di futuro? Con entusiasmo».
Il premio Nobel per l’economia, Paul Krugman, però mette in guardia: dice che in realtà i robot ci ruberanno il lavoro, e che la diseguaglianza è dietro l’angolo. A lei il tema dell’uguaglianza sta a cuore. I robot valgono il rischio?
«Chi accusa i robot di toglierci lavoro dovrebbe avere dalla sua parte l’evidenza: la produttività dovrebbe aumentare, cosa che al momento non avviene. Ma se davvero le macchine dovessero rimpiazzarci, io direi: bene! Sarebbe un enorme beneficio per l’umanità. Certo, quando un robot subentra in un certo settore ci saranno problemi di adattamento, i lavoratori di quel settore devono essere reimpiegati. Ma un mondo robotizzato è una possibilità di liberazione ».
Liberazione da che cosa?
«Ma dalla routine, dal lavoro ripetitivo e alienante. Chi di noi desidera stare otto ore a una cassa di supermercato piuttosto che dedicarsi alle cose che ama? Se i robot facessero il lavoro che ci annoia al posto nostro, saremmo liberi di creare, di concentrarci sull’innovazione. Potremmo dedicarci al piacere».
Cosa le fa pensare che l’automazione verrà gestita portando più libertà ed equità? Oggi le tecnologie dell’informazione sono in mano a poche grandi aziende che offrono servizi “masticando” i nostri dati. E se nel futuro i benefici che secondo lei saranno prodotti dai robot alla fine andassero solamente a favore di pochi?
«Dipende da noi, la tecnologia è neutrale, è come un martello: puoi usarlo per torturare o per costruire. La scelta è politica, il futuro è un bivio: se immagini la tecnologia gestita da pochi grandi centri di potere, se pensi a un “neoliberismo in salsa tech”, allora devi persino temere nuovi totalitarismi — penso alla sorveglianza da “Grande fratello”, ad esempio. Ma se la immagini in mano alle persone, se pensi a una svolta tecnologica democratica, allora intenderai l’opposto: più conoscenza uguale più uguaglianza. Quale tra le due strade prenderemo? Non si tratta di cataclismi naturali ma di come faremo la Storia».
L’etichetta di radicale che alcuni le attaccano sulla schiena le pesa?
«Oggi viene definito radicale chiunque esca dal pensiero dominante, perciò lo prendo come un complimento. Bernie Sanders si ispira al New Deal, eppure c’è chi lo definisce estremista. Quanto a me, penso che i lavoratori debbano disporre del loro lavoro, e mi ispiro in ciò al socialismo libertario. Ma queste sono eredità del neoliberalismo classico: prendo molto sul serio pensatori come John Stuart Mill, sono grandi classici. Io stesso mi sento un “classico”, se però vi piace chiamatemi pure “radical”…».

Repubblica Cult 27.3.16
Compagno robot /2
Paul Mason. Il postcapitalismo? Un’utopia socialista in salsa hi-tech

CHI È
PAUL MASON, CINQUANTASEI ANNI, GIORNALISTA, INGLESE, LAVORA PER “CHANNEL 4”.
IN ITALIA HA APPENA PUBBLICATO CON IL SAGGIATORE “POSTCAPITALISMO, UNA GUIDA AL NOSTRO FUTURO” (382 PAGINE, 22 EURO, TRADUZIONE DI FABIO GALIMBERTI).
LO PRESENTERÀ L’11 APRILE A MILANO (MEDIATECA SANTA TERESA, ORE 18.30)

MARX È MORTO MA ANCHE IL CAPITALISMO non sta tanto bene. E allora bisogna voltare pagina: «La nuova classe rivoluzionaria è tra noi: sono i white wire people, i sempre connessi, quelli con gli auricolari. E i robot saranno i loro alleati». Così parla l’ultimo dei tecnoentusiasti, Paul Mason, inglese, giornalista economico e ora star del Postcapitalismo, come ha intitolato il libro appena uscito in Italia con il Saggiatore.
Oggi anche i più incalliti tecnofedeli della rete libera fanno i conti con la realtà e iniziano a esprimere dubbi. Lei invece parte dalla tecnologia per proporre un’utopia addirittura di sinistra.
«Il capitalismo si basa su risorse scarse, mentre l’informazione è una risorsa abbondante: con il web abbiamo raggiunto la possibilità di crearla e riprodurla senza limiti. Questo elemento farà saltare il vecchio sistema. L’uomo del futuro sarà istruito e connesso, la società non si baserà su capitale e lavoro ma su energia e risorse: il postcapitalismo è un’utopia socialista in salsa tecno. Esperienze collaborative come Wikipedia dimostrano che una rete della condivisione è possibile. Quanto ai robot so bene che l’università di Oxford prevede la scomparsa del 47 per cento dei lavori a causa loro. Dico però che sono un antidoto, non un pericolo. Grazie a loro, quando l’informazione avrà reso molte cose gratuite potremo rinunciare agli impieghi di basso valore e prediligere meno lavoro, più produttivo. Insomma, potranno liberarci dai lavori più alienanti: tecnologia può significare conoscenza diffusa ed equità».
Equità? In realtà la tecnologia dell’informazione è in mano a pochi: Google, Facebook... E il capitalismo non è mai stato così aggressivo. Almeno così dice chi critica il suo “postcapitalismo”, come Evgeny Morozov.
«I monopoli sono proprio il tentativo del capitalismo di dominare un cambiamento inevitabile. Quando puoi prendere un’informazione, ad esempio una traccia musicale, e copincollarla all’infinito, il prezzo tende inevitabilmente allo zero. Il monopolio consente di controllare quell’informazione e imporre artificialmente un prezzo. Ma una visione alternativa è assolutamente possibile. La rivoluzione dell’informazione suggerisce invece abbondanza e prodotti gratis».
Gratuità, lavoro volontario in stile Wikipedia e porte aperte ai robot. Scusi, ma nel suo postcapitalismo come ci si mantiene?
«In una fase di transizione sarà fondamentale che lo Stato garantisca il reddito di cittadinanza universale. Poi verremo “pagati” sempre di più in servizi: i salari diventeranno sociali, fino a sparire lentamente».
Lei dice “economia della condivisione” e viene in mente la sharing economy di Uber. È questo che ha in mente?
«No, Uber non è un sistema equo, al contrario: è una piattaforma di self impoverishment, spinge alla competizione estrema e allo sfruttamento. Io ho in mente Wikipedia: il
peer- to- peer, la rete paritaria, elevata a potenza, un modello basato su competenze diffuse e collaborazione».
Lei sostiene che la sinistra politica non sta capendo nulla di quanto sta accadendo. Che “si rifiuta di vincere”. Neppure Bernie Sanders la entusiasma?
«Sì, trovo interessanti sia lui che Jeremy Corbyn, sono due politici che conoscono le abitudini della “generazione connessa”, che del resto li vota. Mi piace anche la sindaca Ada Colau, di Podemos: a Barcellona ha aperto un bel ragionamento sulla
smart city. Dico però che la sinistra non ha saputo sfruttare le contraddizioni tra mercato e economia dell’informazione. Il neoliberismo dell’austerity non darà risposte efficaci quando i robot ci toglieranno il lavoro. La condivisione sì. Ovviamente in questa transizione lo Stato ha un ruolo chiave: può rompere le asimmetrie che consentono i monopoli, primo fra tutti quello dell’informazione. Provi a immaginare: se potessimo utilizzare tutti i dati che finiscono in mano alle corporation per fini pubblici condivisi, non sarebbe una vera rivoluzione?».

Repubblica Cult 27.3.16
I tabù del mondo
Quel che resta della parola “educazione”
Nessun tempo come il nostro ha così esaltato la centralità del bambino nella vita della famiglia I piccoli non si piegano più alle leggi degli adulti e finiscono per ignorare il senso del limite Davanti ai figli e alle loro richieste, i genitori rinunciano a ogni possibile pedagogia
Gli esiti di questo processo si possono riassumere con una difficoltà crescente dei nostri ragazzi di accedere alla dimensione generativa del desiderio
di Massimo Recalcati

È sempre esistita una corrente della pedagogia che, a diverso titolo, ha preteso di liberarsi dell’educazione considerata come un vero e proprio tabù: le vite dei figli traggono più danno che benefici dall’educazione, la quale non sarebbe altro che una museruola messa da genitori paranoici sulla legittima voglia di libertà dei loro figli. Tra tutti i riferimenti possibili possiamo pensare al recente lavoro di Peter Gray dal titolo, che è già, come si può intendere facilmente, tutto un programma: Lasciateli giocare (Einaudi). La tesi di questo libro è quella che bisogna restituire ai nostri figli la loro autonomia che una concezione aridamente disciplinare della scuola gli ha sottratto. Quella che l’autore definisce “istruzione forzata” appare come una macchina repressiva tale da spegnere la creatività nel nome di una esigenza di controllo e di disciplinamento coatto che proviene dal mondo degli adulti.
Questa rappresentazione della problematica dell’educazione risente di una ideologia libertaria che misconosce la funzione della differenza simbolica tra le generazioni e il ruolo essenziale degli adulti giocato nel processo di formazione. Si tratta di una vera e propria “mutazione antropologica” che è stata descritta con efficacia da Marcel Gauchet in un bel libro titolato Il figlio del desiderio (Vita e pensiero). Riassumo sinteticamente il suo ragionamento: se c’è stato un tempo dove l’educazione aveva il compito di liberare il soggetto dalla sua infanzia, oggi si tende invece a concepire l’infanzia come un tempo al quale si vorrebbe essere eternamente fedeli, come una sorta di “ideale del sé” puro e incontaminato da tutti quei condizionamenti culturali e sociali che rischiano di corrompere la sua affermazione. Non si tratta più di educare il bambino alla vita adulta ma di liberare il bambino dalla vita degli adulti perché la vita adulta non è una vita, ma solo la sua falsificazione morale. Nessun tempo come il nostro ha mai esaltato così la centralità del bambino nella vita della famiglia. Tutto pare capovolgersi: non sono più i bambini che si piegano alle leggi della famiglia, ma sono le famiglie che devono piegarsi alle leggi (capricciose) dei bambini. Nanni Moretti ne fornì un esempio esilarante in Caro diario: in una piccola isola delle Eolie i bambini diventano i padroni anarchici della famiglia obbligando tutti gli adulti al telefono a prodigarsi in improbabili imitazioni di animali per poter ottenere il permesso di parlare coi loro genitori. Il compito dell’educazione viene aggirato nel nome della felicità del bambino che solitamente corrisponde a fargli fare tutto quello che vuole: il soddisfacimento immediato non è solo un comandamento del discorso sociale, ma attraversa anche le famiglie sempre più in difficoltà a fare esistere il senso del limite e del differimento della soddisfazione. Non è forse questa la nuova Legge che governa le nostre vite? Lo spirito del mercato non esige forse la realizzazione del massimo profitto in tempi sempre più brevi?
Gli esiti di questo processo si possono riassumere con una difficoltà crescente dei nostri figli di accedere alla dimensione generativa del desiderio poiché la condizione di questo accesso è data dall’incontro con il trauma virtuoso del limite. Solo se la vita riconosce che non tutto è possibile può fare esistere il desiderio come una possibilità autenticamente generativa. Altrimenti il desiderio si eclissa soffocato dalla marea montante della soddisfazione immediata dei bisogni. È un problema cruciale del nostro tempo. L’elevazione del bambino a nuovo idolo di fronte al quale, al fine di ottenere la sua benevolenza, i genitori si genuflettono, è un effetto di questa erosione più diffusa del discorso educativo. Nella pedagogia falsamente libertaria che oscura il trauma benefico del limite come condizione per il potenziamento del desiderio, l’educazione stessa è diventata un tabù arcaico dal quale liberarsi, una parola insopportabile che nasconde e giustifica subdolamente il sadismo gratuito degli adulti verso l’innocenza dei figli. In realtà, questa dismissione del concetto di educazione è un modo con il quale gli adulti – che, come ricorda Lacan, sono i veri bambini – tendono a disfarsi del peso della loro responsabilità di contribuire a formare la vita del figlio. Ne è una prova il sospetto coi quali molti genitori osservano gli insegnanti che si permettono di giudicare negativamente i loro figli o di sottoporli a provvedimenti disciplinari. Dando per scontato il fatto che non esistono genitori ideali, o, che, come sentenziava Freud, il mestiere del genitore è impossibile, cioè è impossibile per un genitore non sbagliare, questo non significa affatto disertare la responsabilità di assumere delle decisioni, di non farsi dettare la Legge dai propri figli. Non si tratta per i genitori di proporsi come modelli educativi infallibili – niente di peggio per un figlio che avere un padre o una madre che si offrono come misura ideale della vita – ma di fare sentire che esiste sempre un mondo al di là di quello incarnato dell’esistenza del figlio, che l’esistenza di un figlio non può esaurire l’esistenza del mondo. In un recente colloquio clinico con una famiglia in difficoltà di fronte ad un bambino che ha progressivamente cannibalizzato le loro vite mostrando di non aver alcun rispetto per il senso del limite, il padre, per definirlo, ha usato questa espressione eloquente: «Lui pensa di essere il centro del mondo». Aggiungendo però subito dopo, senza riuscire a trattenere una certa soddisfazione: «Lui non sa quanto per noi questo sia assolutamente vero».

Il Sole Domenica 27.3.16
Tutte le stelle di Dante (e di Einstein)
di Armando Massarenti

Il 20 gennaio 1320, a 55 anni, Dante Alighieri tenne una lezione pubblica di cosmologia presso la chiesa di Sant’Elena a Verona. Astronomia e astrologia, a quei tempi, erano due artes distinte ma percepite come complementari: le stelle e le intelligenze angeliche si pensava intervenissero nelle vicende terrene infondendo specifiche virtù. Che cosa ne penserebbe la scienza di oggi? Dante e le stelle, edito da Salerno è scritto a quattro mani dall’astrofisico Attilio Ferrari e dallo storico della letteratura Donato Pirovano, è un’affascinante risposta a questa domanda. Nel Convivio, ma soprattutto nella Divina Commedia, tocchiamo con mano quanto Dante fosse esperto di stelle. Gli eventi cardinali della sua vita – il primo incontro con Beatrice, la morte di lei, l’incontro con la Donna Gentile (allegoria della Filosofia), la crisi spirituale dalla quale si rialzerà attraverso l’allegorico e immaginifico viaggio di salvazione narrato nella Commedia – per Dante assumono un senso possibile solo se vengono raccontati in stretta relazione con le costellazioni, attraverso le quali connette la sua vita con Dio.
Smarrito nella selva oscura – era il 25 marzo o l’8 aprile del 1300 – è confortato dall’intravedere il Sole che sorge accompagnato dalla benaugurante costellazione dell’Ariete, la stessa presente nel cielo al momento della creazione di Adamo. Il pianeta Venere – la “stella” che infonde la virtù d’amore spirituale – brillare sull’orizzonte marino del Purgatorio al punto da offuscare la costellazione dei Pesci. Dante è appena uscito dal buio infernale e ha ormai la certezza che, per intercessione dell’amore di Maria e di Beatrice, la salvezza spirituale e la carità di Dio lo attendono. I riferimenti astronomici, com’è ovvio, si moltiplicano poi nella terza cantica, quando il viaggio ha luogo proprio di tra le sfere del Paradiso.
L’astronomia aristotelico-tolemaica, mutuata da Tommaso d’Aquino, - unita a una teologia della luce e a un emanatismo di stampo neoplatonico – prevede un sistema geogentrico: attorno alla terra, girano sette sfere celesti di materiale incorruttibile, ciascuna governata da una schiera angelica e caratterizzata da una stella o pianeta; seguono il cielo delle Stelle Fisse e quindi il Primo Mobile, la sfera più veloce di tutte perché la più vicina a Dio e anche quella che infonde alle sfere inferiori il movimento. La decima sfera, la più esterna, è l’Empireo: si tratta di una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo, fatta di non-materia, di una sostanza puramente spirituale; è qui che avviene la visione della Rosa dei Beati e quindi di Dio, contemplato come una sorgente luminosissima e ardente d’amore che muove l’intero universo.
Nella descrizione dell’Empireo, però, pare esservi una specie di contraddizione. Se il cosmo è fatto di sfere concentriche sempre più grandi, e se la sede di Dio - l’Empireo - è la sfera più ampia che abbraccia e contiene tutte le altre sottostanti, come mai allora Dante parla di Dio non come di una sfera bensì come di un «punto» luminosissimo? «Un punto vidi che raggiava lume acuto». L’ipotesi sorprendente è che l’intuizione poetica di Dante possa avere ideato non una sfera, ma una ipersfera, al cui centro è Dio, fonte di luce e di calore (empyrios: ardente) da cui si origina tutto l’universo.
Nella visione geometrica e cosmologica contemporanea, inaugurata dalle teorie di Einstein, un’ipersfera è una sfera in uno spazio a più di tre dimensionii, che ammette che vi sia un centro esterno che al contempo è il centro di tutta l’ipersfera stessa: «grazie all’intuizione dantesca, “perno” del mondo è quel punto ineffabile che è il centro del creato e al tempo stesso circonda tutta la creazione in un abbraccio cosmico». Oggi non osserviamo più il cielo stellato a occhio nudo, né vi immaginiamo le schiere angeliche. «Esistono, però, delle analogie con il cosmo dantesco: anche il nuovo universo si è sprigionato da un “punto”, la sua origine è il risultato di una concentrazione energetica da un punto che si è espanso vertiginosamente con un violento Big-Bang, dando origine allo spazio e al tempo e a tutto il mondo sensibile. (…) Ma che cosa c’è “fuori”, in che cosa si espande l’universo?». Esiste un equivalente dell’Empireo dantesco? Al momento, «in quanto a comprensione del “tutto”, siamo ancora nella selva oscura. La scienza ci aiuta a vivere, l’arte ci aiuta a sognare e a vedere oltre la realtà, forse fino all’Empireo o iperspazio che dir si voglia», concludono gli autori. Ma non bisogna mai pensare che l’immaginazione sia prerogativa di un solo ambito umano. In Dante è sempre attiva e non fa di queste distinzioni.

Il Sole Domenica 27.3.16
Charlotte Brontë (21 aprile 1816 – 31 marzo 1855)
Donne che non immaginate
Il bicentenario è l’occasione per rendere giustizia a un’autrice moderna e indipendente che fu vittima del suo secolo
di Elisabetta Rasy

L’ultimo film dal romanzo Jane Eyre è stato fatto nel 2011 da Cary Fukunaga, il regista della serie iniziale di True Detective, il primo risale al 1910, un cortometraggio muto diretto dal pioniere del cinema Theodore Marston. In mezzo un numero considerevole di altre trasposizioni cinematografiche , tra cui una, la più celebre, con Orson Wells del 1944, e da noi quella di Zeffirelli del 1996, oltre a una nutrita serie di adattamenti per la televisione in vari Paesi europei. Ma Charlotte Brontë, la sua autrice, non ne sarebbe affatto stupita: quando scrisse Jane Eyre, nel 1846, a trent’anni, era convinta di scrivere un’opera rivoluzionaria e di aver inventato un’eroina di un tipo nuovo affidata al futuro, molto diversa dalle protagoniste dei romanzi scritti dagli uomini, create «dalla loro stessa fantasia», artificiali «come la rosa del mio cappello». E diversa anche dai personaggi femminili usciti dalla penna di illustri colleghe, per esempio Jane Austen, che Charlotte non amava molto. Se Orgoglio e pregiudizio è, come Jane Eyre, un altro romanzo evergreen che gli contende il primato delle versioni cinematografiche e televisive e che sfida audacemente i secoli, le due protagoniste non potrebbero essere più diverse: la Elizabeth Bennett di Austen è una ragazza intraprendente che naviga intelligentemente nei valori della società del suo tempo: denaro, stato sociale, matrimonio. L’istitutrice Jane, invece, mette in campo valori nuovi: lavoro soprattutto e forza della passione, proponendo al lettore un’immagine di inedita indipendenza femminile. In tutti i suoi quattro romanzi, Charlotte dà voce a molte idee, ma una è quella portante: le donne non sono come gli uomini se le immaginano. Lo fa dire esplicitamente dalla protagonista di un’altra opera, Shirley: «Se gli uomini potessero vederci come realmente siamo, sarebbero alquanto sorpresi».
Una verità innegabile alla metà dell’Ottocento, ma tutt’altro che superata all’inizio del terzo millennio. Anche per questo l’Inghilterra festeggia con convinzione il bicentenario (21 aprile) della nascita della intraprendente signorina Brontë, che tale – signorina – rimase fino a un anno prima della morte, quando, ormai priva delle sorelle Emily e Anne, accettò un tardivo matrimonio con un uomo che faceva lo stesso mestiere del padre, il curato di campagna. Tra le tante iniziative per ricordarla, una mostra alla National Portrait Gallery di Londra, con manoscritti e ritratti, e una esposizione di oggetti personali e cimeli famigliari nella casa museo Brontë Parsonage, ad Haworth, nello Yorkshire, dove la scrittrice visse quasi tutta la vita. Mentre una nuova biografia di Charlotte a opera della studiosa Lyndall Gordon, (Una vita appassionata) viene pubblicata in Italia dall’editore Fazi, che in occasione del duecentesimo compleanno ripubblica anche Il professore, dopo aver riedito qualche mese fa Shirley .
La bibliografia sulla più anziana e nota delle sorelle Brontë (benché il vero capolavoro, Cime tempestose, l’abbia scritto Emily) è sterminata, a partire dalla prima biografia scritta poco dopo la sua morte da un’altra intraprendente scrittrice sua contemporanea, Elizabeth Gaskell, legata a lei da una benevola amicizia. Ma la signora Gaskell aveva a cuore soprattutto l’onore vittoriano e cercava di difendere la figura di Charlotte dall’immagine non sempre lusinghiera che ne avevano dato gli scrittori del suo tempo. Il critico e poeta Matthew Arnold, per esempio, l’aveva descritta come «nient’altro altro che fame, ribellione e rabbia», e anche William Thackeray, che pure la stimava, decise di non poter essere suo amico: «Il fuoco e la furia che ardono quella piccola donna, la collera che infiamma il suo cuore non fanno per me». Per questo la prima biografa creò l’icona destinata a entrare nella mitologia Brontë, quella di una «vita di desolazione», di una donna «passata per sofferenze tali da averla privata di ogni scintilla di allegria». In realtà – e su questo insiste il racconto biografico di Lyndall Gordon - se è vero che la vita di Charlotte fu segnata da gravi sofferenze – morte precoce della madre, perdita continua di familiari amati, problemi di denaro e di solitudine –lei non ne fu piegata e vinta: era una persona tutt’altro che desolata e invece molto appassionata e determinata a emergere, ad affermarsi, a trasformare le proprie sofferenze in materia d’ispirazione. Soprattutto decisa a dedicarsi a un lavoro considerato poco adatto a una donna. All’inizio dei suoi esperimenti letterari aveva cercato la protezione del poeta laureato Robert Southey, ma lui le aveva scritto perentoriamente: «Signora, la letteratura non può essere l’occupazione della vita di una donna». Lei gli aveva risposto con l’apparente ossequio che un tipo del genere si aspettava dalle signore, ma con sotterranea ironia che un occhio meno conformista non poteva fraintendere: «Mi sono sforzata di assolvere pienamente non solo tutti i doveri di una donna, ma anche di interessarmi profondamente a essi. Non sempre ho successo, perché talvolta, mentre insegno o lavoro di cucito, preferirei leggere o scrivere, ma cerco di reprimermi…».
Comunque quando decise di pubblicare scelse lo pseudonimo maschile Currer Bell, cognome che, con altri nomi maschili, assunsero anche le sorelle Emily e Anne per firmare i loro libri, essendo tutte e tre convinte che le autrici vengono «spesso guardate con pregiudizio» e che «i critici si servono per condannarle, dell’arma del loro essere donne, e per lodarle di un’adulazione che non è vera lode». Ma anche quando il velo dello pseudonimo cadde, Charlotte, malgrado le accuse di sfacciataggine, continuò per la sua strada, raccontando cosa si prova a essere un’istitutrice colta e povera in una casa di ricchi ignoranti e maleducati, come si patisce a non poter esercitare pubblicamente la propria intelligenza, quanto è frustrante non poter ambire a un lavoro all’altezza delle proprie capacità e anche di quanta passione siano capaci le donne seppure respinte da chi amano, come era successo a lei travolta dal desiderio per un professore che aveva conosciuto durante un periodo giovanile di studio a Bruxelles. Fedele alla sua nuova eroina: la donna che lavora e che si costruisce la sua strada, non bella ma tenace e soprattutto in rivolta contro le convenzioni dell’epoca.
Dopo la sua morte il padre e il vedovo se ne spartirono l’ eredità, il padre facendo con i suoi cimeli piccoli souvenir da vendere, il marito (che si era velocemente risposato) nascondendo le lettere in cui il suo spirito ribelle veniva allo scoperto. Ma il patrimonio lasciato da Charlotte è riuscito eludere la stretta sorveglianza dei suoi volenterosi custodi, e a circolare nei luoghi più imprevisti. Per esempio recentemente in Pakistan: dove la Brontë Society ha tradotto la sua guida in urdu per venire incontro al crescente interesse delle donne pakistane, che trovano la loro condizione e i loro desideri molto simili a quelli espressi da Miss Brontë nelle sue opere.
Lyndall Gordon, Una vita appassionata. Vita di Charlotte Bronte , traduzione di Nicola Vincenzoni, Fazi, Roma, pagg. 504, € 18. In libreria il 14 aprile.
Charlotte Bronte, Il professore , traduzione di Maria Stella, Fazi, Roma, pagg. 300, € 18

Il Sole Domenica 27.3.16
Tra fisiologia e metafisica
Le due anime di Cartesio
La tensione tra le «Meditazioni» e i libri non pubblicati in vita (per paura dell’Inquisizione) «Uomo» e «Mondo»
di Franco Giudice

«Come gli attori, accorti a non fare apparire l’imbarazzo sul volto, vestono la maschera, così io, sul punto di calcare la scena del mondo, dove sinora sono stato spettatore, avanzo mascherato ( larvatus prodeo)». L’autore di questa frase ormai celebre è Cartesio, una figura chiave della rivoluzione intellettuale del XVII secolo. Si trova all’inizio di un suo quaderno personale di appunti, una sorta di diario intimo, e reca la data del primo gennaio 1619.
Una frase giovanile dunque che, nonostante le distorsioni cui talvolta è stata sottoposta, aiuta tuttavia a capire perché diverse pagine delle sue opere e la sua stessa biografia suscitino, come ha osservato Eugenio Garin, un’indelebile «impressione di ambiguità», quasi che il filosofo della «chiarezza» intendesse nascondere «una contraddizione segreta, o un conflitto non pacato». Il che spiega forse quelle tensioni concettuali riscontrabili nel suo pensiero e poi riprodottesi in quanti, a vario titolo, se ne sono proclamati eredi.
Proprio quelle tensioni di cui si occupa ora Emanuela Scribano, apprezzata studiosa di Cartesio e del pensiero filosofico moderno. Con l’eleganza e la sobrietà che caratterizzano tutti i suoi lavori, Scribano cerca di individuare le ragioni di alcuni importanti cambiamenti introdotti da Cartesio nella sua teoria della conoscenza e nella sua analisi della percezione sensibile. E per farlo muove dall’ipotesi che essi scaturiscano da una duplice esigenza: da un lato, sviluppare e rafforzare la fondazione metafisica della scienza; dall’altro, rendere coerente tale fondazione con la scienza medesima.
Con la scienza cioè elaborata da Cartesio nell’Uomo, la neurofisiologia, che costituiva la seconda parte del Mondo, dove esponeva la sua fisica e la sua cosmologia. La redazione di questi due scritti, concepiti come un’opera unitaria, fu terminata tra il 1633 e il 1634. L’autore decise però di lasciarli nel cassetto: il Mondo, in seguito alla condanna di Galileo, l’Uomo, invece, per ragioni intrinseche alla stessa ricerca fisiologica. Sarebbero stati pubblicati postumi come testi a sé stanti nel 1664, anche se una traduzione latina dell’Uomo era apparsa due anni prima, e messi insieme per la prima volta soltanto nel 1677.
Queste vicende editoriali sono di estremo rilievo, poiché attestano che quando nelle Meditazioni metafisiche (1641) perfezionò il progetto di fondazione della scienza, Cartesio aveva ormai tracciato le linee portanti della sua fisiologia. E indicano, come fa notare Scribano, «la coesistenza in Cartesio di due anime parallele». Gli scenari che si vengono a delineare, quello metafisico e quello fisiologico, si riveleranno però difficili da amalgamare, creando appunto tensioni profonde, se non addirittura irrisolte.
Nell’Uomo, dove si proponeva di studiare la risposta del corpo umano agli stimoli provenienti dal mondo esterno, Cartesio formulava una teoria della sensazione, dell’immaginazione e della memoria che era esclusivamente materiale. Con un obiettivo quanto mai esplicito: mostrare i poteri del corpo indipendentemente da qualsiasi azione della mente. Al punto che il corpo umano era descritto come una macchina complessa e «intelligente», dotata di sistema nervoso, circolazione sanguigna e cervello, in grado di reagire all’ambiente con comportamenti funzionali alla conservazione della vita.
Nelle Meditazioni egli perseguiva un obiettivo altrettanto esplicito, che andava però nella direzione opposta: ampliare il ruolo della mente e dimostrare che anche nella conoscenza sensibile il corpo, senza un intervento attivo della mente, era impotente. Così, se nell’Uomo, per la conoscenza empirica, la mente si limitava a registrare gli eventi corporei e a tradurli in percezioni, credenze e giudizi; nelle Meditazioni invece veniva teorizzata l’impossibilità della stessa conoscenza empirica, altro non essendo quest’ultima che una costruzione della mente.
A dire il vero, questi due aspetti della riflessione cartesiana ebbero un debutto ufficiale già nel 1637, con la pubblicazione del Discorso sul metodo e dei tre saggi annessi (la Diottrica, le Meteore e la Geometria), dove venivano presentati alcuni elementi centrali della fisiologia sviluppata nell’Uomo insieme a una prima esposizione della sua metafisica.
Qui però il confronto, come ci spiega Scribano, si svolgeva senza particolari problemi, poiché il progetto metafisico di Cartesio non era ancora giunto al livello di maturazione delle Meditazioni che, tra altre importanti novità, introducevano anche la teoria della costruzione mentale dell’esperienza sensibile. Le incoerenze tra le due anime cartesiane emersero dunque nel 1664, quando le tesi neurofisiologiche espresse nell’Uomo divennero finalmente di pubblico dominio, e si cercò di far convivere questo “nuovo” Cartesio con quello delle Meditazioni.
Un compito gravoso, di cui si fecero carico i principali successori del filosofo francese, alle prese con i nodi problematici del suo pensiero. Scribano ricostruisce le tappe più significative del dibattito innescato dalla difficile eredità cartesiana, analizzando in dettaglio le varie soluzioni avanzate da Louis de La Forge, da Gèraud de Cordemoy e da Nicolas Malebranche. Tre filosofi che si erano avvicinati a Cartesio, rimanendone conquistati, più per la lettura dell’Uomo che per quella delle opere da egli edite in vita. Un testo, l’Uomo appunto, che sarebbe stato all’origine della «scelta radicale» di Spinoza: costruire una teoria della conoscenza basata esclusivamente sulla fisiologia cartesiana.
Emanuela Scribano, Macchine con la mente. Fisiologia e metafisica tra Cartesio e Spinoza, Carocci, Roma, pagg. 260, € 23

Il Sole Domenica 27.3.16
Galileo Galilei (1564-1642)
A Dio piacendo, o alla scienza?
di Massimo Firpo

È a tutti ovvio che oggi l’ancor vitalissima questione galileiana non è più una questione scientifica, non investe più la natura del cosmo, ma è una questione storica, che investe il giudizio su ciò che allora accadde e ciò che ne conseguì. Da questo punto di vista, a trent’anni di distanza appaiono assai fragili le istanze apologetiche che ancora ispiravano il volume Galileo Galilei 350 anni di storia (1633-1983), apparso nel 1984, dove per esempio c’era ancora chi insisteva nel denunciare «l’aggressività anticlericale» di quanti si ostinavano a non capire «la ragione, nascosta ma profonda», della condanna di Galileo, e cioè il fatto che egli «veniva a trovarsi troppo in avanti rispetto al suo tempo», quasi che fosse un dovere della Chiesa combattere le più ardite innovazioni scientifiche.
Quel volume scaturiva dai lavori di un’apposita commissione istituita da Giovanni Paolo II, che sarebbero infine approdati alla solenne ammissione di questo e altri errori della Chiesa, o meglio di «alcuni uomini di Chiesa» – e «in un certo senso in nome suo» – per i quali il pontefice volle chiedere perdono in occasione del giubileo dell’anno 2000. Non stupisce che quella distinzione tra la Chiesa e gli uomini di Chiesa, pur dotata di antichi precedenti, diventasse oggetto di polemiche, sulle quali non è questa la sede per tornare. Mi limito a osservare che tale distinzione – come ha scritto Giovanni Miccoli – ha «come conseguenza una sorta di sottrazione della Chiesa dalla storia» e che pertanto essa «vale e può valere solo per coloro che partecipano della fede cattolica». Ed è qui, a mio avviso, proprio sul terreno storico che intorno alla vicenda galileiana si stringono i nodi più aggrovigliati, a cominciare dal cruciale rapporto tra mutamento storico e verità teologica.
Tutto cambia, tutto evolve nella storia, e presidiarla in nome di una verità immutabile è un’impresa titanica, che l’odierna accelerazione della storia stessa rende ancor più ardua. Si pensi solo alle delicate questioni dibattute nelle settimane scorse dal Parlamento, nelle quali si riflettono profondi mutamenti di costume, mentalità, sensibilità individuali e collettive, peraltro in costante evoluzione, e sulle quali è del tutto legittimo avere opinioni molto diverse, tutte meritevoli di rispetto. Per questo mi è parso curioso che, in relazione a un punto particolarmente controverso della legge, un autorevole uomo politico abbia evocato i principi di un’astratta “natura”, così come gli anticopernicani difendevano il cosmo tolemaico che appariva come una natura tanto più certa quanto più suffragata dalla parola di Dio.
In realtà, dovrebbe essere noto che la natura non è affatto astorica, ma è sempre una rappresentazione, una costruzione storico-culturale, un modo di pensarla e interpretarla. E in quanto tale anch’essa cambia, sta mutando sotto i nostri occhi: da un lato noi stessi la cambiamo, talora brutalmente, e dall’altro fino a ieri non sapevamo nulla del genoma o del bosone di Higgs, dopo il quale sono arrivate le onde gravitazionali e un giorno toccherà all’antimateria e alla forza oscura. Per certi versi la storia dell’uomo ha coinciso con una battaglia incessante per sottrarsi al dominio cieco di una natura onnipotente, delle sue forze telluriche, delle sue catastrofi climatiche, dei suoi agenti patogeni.
Certo, adesso i problemi più delicati non sono la cosmologia o la fisica subatomica, e neanche il paradigma darwiniano (che pure contraddiceva il dettato scritturale), ma la biologia, le neuroscienze, le tecniche della fecondazione artificiale e in prospettiva l’eugenetica, dove scienza e tecnologia pongono serie questioni morali, sulle quali la Chiesa esercita il suo magistero muovendosi sulle impervie frontiere tra ineludibile (e imprevedibile) mutamento storico e verità immutabili. Il dirompente passaggio dalle rigide chiusure del concilio Vaticano I e del Sillabo alle aperture del concilio Vaticano II sono una prova evidente della storicità del magistero, passato in meno di un secolo da uno scontro frontale contro la cultura laica e i processi di secolarizzazione al tentativo di dialogare con la modernità.
In questa prospettiva, il caso Galileo ripropone ancora una volta la sua attualità non solo nell’ambito oggi più vivo che mai del rapporto tra scienza e fede (o meglio, tra scienza e magistero ecclesiastico), ma in quello non meno sensibile del rapporto tra Chiesa e storia, tra una Chiesa che ovviamente si muove dentro la storia e che dunque cambia, evolve e talora si contraddice o sbaglia, e una Chiesa che in nome della verità di cui si sente depositaria quella stessa storia giudica, ponendosi al di fuori e al di sopra di essa, e cerca di indirizzare secondo i propri fini, i propri valori le proprie certezze.
La bimillenaria durata della Chiesa è senza dubbio una ragione della sua autorevolezza, del suo prestigio, della sua forza, della sua stessa identità, ma quella stessa bimillenaria storia è anche un fardello che rischia qualche volta di diventare troppo pesante per traghettarlo tutto quanto verso il futuro, senza modificarne neanche una virgola, ne iota unum. Ieri come oggi il problema resta quello della storicità del vero e del giusto, che impone anche alla Chiesa l’esigenza di far proprie almeno in parte le ragioni di quel relativismo che essa combatte nei suoi esiti scettici.
Un compito immane e sempre più difficilmente componibile nelle cautele pastorali e nella prudenza della ragion di Chiesa, anche perché ormai fa parte del senso comune il fatto che né la storia né la scienza postulino un fondamento divino o una legittimazione teologica. Storici e scienziati possono essere responsabili di errori anche gravi, e magari gravissimi, così come lo furono papa Urbano VIII e san Roberto Bellarmino, ma oggi a vigilare su di essi – errori e non eresie – può essere solo la comunità scientifica e non qualche tribunale della coscienza. Un principio, questo, ormai auspicabilmente condiviso da laici e cattolici.
(Sintesi del discorso tenuto alla Camera dei Deputati
a Roma il 4 marzo scorso nel quattrocentesimo
anniversario della prima condanna di Galilei)

Il Sole Domenica 27.3.16
Da Agostino a Zwingli
Lessico delle opere teologiche
Un immenso deposito delle idee di tutti i grandi teologi, ma anche di filosofi, storici, letterati e persino scienziati
di Gianfranco Ravasi s. j.

Théophile Gautier, il celebrato autore ottocentesco del Capitan Fracassa, invitava i poeti a leggere solo il vocabolario, unico libro degno di colui che dalle parole deve estrarre il fuoco come dalla pietra, ed è forse per questo che Baudelaire gli dedicò i Fiori del male. Devo confessare che, senza essere poeta, fin da ragazzo amavo “leggere” il vocabolario dominante, che in quegli anni lontani e nella provincia, era il famoso Nuovissimo Dizionario Melzi. Naturalmente poi fu la volta dei “lessici” composti di voci ben più corpose e sofisticate. È così che in queste ultime settiman e ho trascorso ampie porzioni delle mie notti nella lettura affascinata di un originale e particolare lessico, quello che una legione di 250 teologi tedeschi ha elaborato sulle Opere teologiche principali sbocciate nei duemila anni di cristianesimo.
Alla fine si è allestita una vera e propria biblioteca di oltre mille testi, tant’è vero che la copertina è illustrata da una foto dell’imponente biblioteca olandese di Delft che, però, appartiene a un’università di tecnologia. Elenchiamo subito le obiezioni scontate in questo genere di selezioni bibliografiche: sarebbe attesa forse una più vasta presenza dell’Ortodossia; è sempre possibile segnalare le assenze di opere rilevanti; sottolineature tipiche della scuola tedesca originaria sono sempre reperibili; alcuni accenti ermeneutici possono riflettere opzioni contestabili e così via. Gli stessi coordinatori del volume, il cattolico Bernd Hilberath e il protestante Eberhard Jüngel (che, con modestia, non si è inserito nel catalogo, pur essendone decisamente degno), mettono al riguardo subito le mani avanti e siamo pronti a comprenderli e ad assolverli.
Il risultato, comunque, è straordinario e costringe a usare una metafora abusata e forse banale ma pertinente: siamo di fronte a una miniera dalla quale cavare giacimenti intellettuali preziosi, fondamentali per comprendere la bimillenaria storia del pensiero occidentale non solo cristiano. Proprio per questo giustamente nella versione italiana si invitano a scendere in quell’immenso deposito di ricerche, di idee, di intuizioni, di elaborazioni non solo i teologi di professione, ma anche filosofi, storici, letterati e persino scienziati credenti, non credenti e diversamente credenti. Laggiù, infatti, ci vengono incontro le stelle della riflessione teologica e si incrociano anche tutte le figure geniali che hanno alimentato per secoli menti e coscienze, hanno scandito tappe storiche capitali e illuminato percorsi esistenziali e sociali. Non per nulla, la palma del maggior numero di presenze va a un sant’Agostino con 27 opere e a un Lutero che lo batte d’un soffio con 28 scritti (ma è ovvio che un Tommaso d'Aquino può ben equipararsi a loro con le sue imponenti Summae).
A questo punto è difficile descrivere un simile giardino di delizie intellettuali: l’alfabeto dei titoli di dischiude con una delle opere ascetico-mistiche rinascimentali maggiori, quell’Abecedario espiritual di Francisco de Osuna che molti come me probabilmente ignorano del tutto ma che fu un ispiratore di quel vertice mistico-letterario che è stata santa Teresa d’Avila (per altro essa pure presente). A suggello, ecco invece un saggio di sole cinque pagine di Friedrich Gogarten intitolato Zwischen den Zeiten divenuto non solo il manifesto della “teologia dialettica” ma anche l'insegna di un'impresa editoriale teologica. Se, invece, a guidarci fosse l'alfabeto degli autori, si partirebbe con Abelardo per approdare a Zwingli, il famoso riformatore svizzero, passando attraverso i più grandi nomi del pensiero patristico, medievale, umanistico e dei successivi secoli, dal XVI al XX, scanditi ormai dalla separazione tra cattolici ed evangelici.
Come si diceva, percorrendo questa galleria di opere ci si imbatte – accanto ai nomi assolutamente necessari e che è inutile citare – in figure inattese ma suggestive: solo per fare qualche esempio casuale, Blondel, Brentano, Fichte, Heidegger, il nostro Bonaiuti, il poeta Coleridge, Ephraim Lessing, Maistre, John Milton, Petrarca (ma allora perché non Dante...?) e così via. Qualche lettore sarà curioso di sapere quale opera rappresenti proprio il Petrarca teologo: è il Secretum, naturalmente per l’indiscutibile legame con sant’Agostino che il poeta introduce come suo interlocutore in un dialogo intimo, imponendo così la figura del vescovo di Ippona anche all’orizzonte letterario e non solo teologico e filosofico.
A questo proposito è significativa la tendenza, che affiora in molte voci del lessico, a ricostruire, sia pure sommariamente, la cosiddetta Wirkungsgeschichte, cioè la storia della recezione e degli “effetti” o influssi esercitati da molte di queste opere teologiche nel corso evolutivo della storia e della cultura dell’Occidente. Per stare ancora a Agostino appena citato, basta solo evocare le sue Confessioni; oppure si può ricorrere alle 95 tesi affisse da Lutero il 31 ottobre 1517 sulla porta del castello di Wittenberg, o ancora ai saggi di Erasmo da Rotterdam, a partire dall’immortale Elogio della follia (l’originale, tra l’altro, nel titolo grecizzante Moriae encomium rimanda a un altro pensatore, il suo amico Tommaso Moro, perché in greco morós è “folle”).
Per questa via si potrebbe anche approntare un vaccino contro la sindrome della stupidità che affetta non pochi dirigenti scolastici o politici inclini a demolire la gloriosa e vitale tradizione cristiana per artificiose ragioni di correttezza sociale. È, però, arduo immaginare tali personaggi alle prese con le molte grandiose e mirabili architetture del pensiero che popolano questa silloge bibliografica. Per comprendere, tra l'altro, quanto la teologia cristiana sia ancor oggi vivace, è significativa la scelta di introdurre in questa sfilata anche gli autori viventi. Ne ho contati almeno 24, a partire dall'ormai centenario Franz Mussner (è del 1916!), autore di un interessante Traktat über Juden, espressione del mutato approccio cristiano al giudaismo dopo il Concilio Vaticano II, passando attraverso nomi ben noti come Ratzinger e Küng, Drewermann, Cox e Kasper, per giungere sino all’America Latina con i due Boff, Clodovis e Leonardo, con Gustavo Gutiérrez e Jon Sobrino.
Nell’ambito dei teologi decisivi del secolo scorso non possiamo non citare Karl Barth, qui presente con sette opere, tra cui la monumentale e incompiuta Kirchliche Dogmatik (12 volumi) e quella Lettera ai Romani che è la “laica” Feltrinelli a riproporre ancor oggi. È a lui che ci affidiamo per trovare idealmente un’epigrafe a questo lessico prezioso e grandioso. Nella sua Introduzione alla teologia evangelica (1962), non presente in questa antologia, confessava: «Tra le scienze la teologia è la più bella, la sola che tocchi la mente e il cuore arricchendoli... Ma è anche la più difficile ed esposta a rischi; in essa è più facile cadere nella disperazione o, peggio, nell’arroganza; più di ogni altra può diventare la caricatura di se stessa».
Bernd Jochen Hilberath , Eberhard Jüngel , Michael Eckert, Eilert Herms, Lessico delle opere teologiche , edizione italiana a cura di Gianni Francesconi e Rosino Gibellini, Queriniana, Brescia, pagg. 862, € 110.

Il Sole Domenica 27.3.16
Padri della chiesa
La storia nell’ottica cristiana
di Armando Torno

Sesto Giulio Africano, Padre della Chiesa vissuto tra la fine del regno di Marco Aurelio (161-180) e l’età di Gordiano (238-244), fu amico di Origene ed ebbe un rapporto con l’imperatore Settimio Severo; anzi, per questo sovrano ordinò la biblioteca - considerata di Stato – conservata nel Pantheon. Tra le sue opere vi sono le Chronographiae, in cinque libri, che narravano la storia umana tra la creazione di Adamo e la resurrezione del Salvatore. E quest’ultimo avvenimento sarebbe caduto, secondo i calcoli di Africano, nel 5532. Vi era anche una parte che arrivava sino ai giorni in cui era vivente l’autore, ovvero il 5723 della creazione, che coincideva con il terzo anno del regno di Eliogabalo, vale a dire il 221 d.C.
Ora le Chronographiae, di cui sono rimasti soltanto frammenti, sono state tradotte in italiano da Carlo dell’Osso per la «Collana di testi patristici» di Città Nuova. L’opera, per dirla in breve, è il primo tentativo sistematico di interpretare la storia secondo una visione cristiana e assume particolare importanza per gli influssi che lascerà. Ci resta un autorevole giudizio di Fozio, che inserì lo scritto nella sua Bibliotheca, e con esso esprime il sentire della cultura bizantina: «Benché sia sintetico, Africano non omette nulla di quanto è necessario raccontare». Insomma, siamo in presenza di una cronaca universale in forma di epitome, vergata con il gusto per l’affermazione erudita e originale; il suo autore è colto, tanto che si potrebbe confondere con un esponente della Seconda Sofistica, mostrando una preparazione retorica degna di attenzione.
Da quel che rivelano i frammenti, le Chronographiae furono un’opera di compilazione, con liste di genealogie e di re, di personaggi. Due di esse sono preziose: si tratta di quella dedicata ai faraoni egizi, proveniente da una versione di Manetone che fu interpolata nell’ambito giudeo-ellenistico, e quella dei vincitori alle olimpiadi. Africano, comunque, conosceva anche le tradizioni storiografiche dei popoli orientali; in diversi punti del testo emerge la sua familiarità con gli scritti originali della Bibbia e con la letteratura pseudoepigrafica ebraica, diventando in alcuni casi il tramite per la cronachistica della tarda antichità e di Bisanzio, come per il Libro di Enoch e probabilmente per il Libro dei Giubilei.
Nelle Chronographiae tutto ruota intorno a Cristo e Africano rielabora completamente la visione universale della storia rispetto al modello ebraico. Per dare l’idea delle notizie riportate, basterà leggere un paio di frammenti. Il primo è conservato dallo storico bizantino Giorgio Sincello: «La tenda da pastore di Giacobbe custodita in Edessa fu distrutta da un fulmine ai tempi dell’imperatore dei Romani Antonino, come dice Africano…». Il secondo da Agapio di Mabbug, autore arabo-cristiano melchita del X secolo: «Quanto al re dei Persiani che aveva mandati i Magi, si chiamava Faransun. Nel quarantaquattresimo anno di Augusto, questi Magi vennero da Cristo, che secondo l’opinione di alcuni, aveva già due anni. Ma Cirillo e Africano insieme con alcuni altri riportano che Cristo aveva sette giorni…».
Sesto Giulio Africano, Le cronografie , introduzione di Umberto Roberto, traduzione di Carlo dell’Osso, Citta Nuova Editrice, Roma, pagg. 200, € 26.

Il Sole Domenica 27.3.16
Rivoluzione francese
Il 1789 dei tagliateste
di Sergio Luzzatto

Haim Burstin esplora i meccanismi che hanno fatto emergere capipopolo, uomini sanguinari, le dames de la Halle e altri soggetti refrattari ai meriti della democrazia rappresentativa
«Le sezioni sono per tre quarti deserte; sembrano appartenere ormai a un pugno di individui che finiscono per nominarsi l’un l’altro. Sono questi stessi individui che, a furia di dispute insolenti e propositi oltraggiosi rivolti contro pacifici cittadini senza ambizioni, hanno creato in loro il disgusto di andare a votare nelle sezioni». Suonava così – all’inizio del 1793, anno I della Repubblica francese – la denuncia di tale citoyen Labenette, poligrafo bretone trasmigrato nella Parigi della Rivoluzione e redattore di un periodico dal titolo insieme fantasioso, misterioso, minaccioso: «Journal de la Savonette républicaine, à l’usage des députés ignorans et de ceux qui se proposent de trahir la patrie». Cioè: «Giornale della Saponetta repubblicana, a uso dei deputati ignoranti e di quelli che si propongono di tradire la patria».
Nella Francia rivoluzionaria, molti giornali somigliavano a certi blog d’oggidì. Si davano l’aria di valere da organi dell’uno o dell’altro movimento d’opinione, mentre non erano nulla più che torrenziali e autoreferenziali logorree dell’uno o dell’altro mitomane. Lo stesso cittadino Labenette non lascerà alcun’altra traccia, nella storia della Rivoluzione, che una piccola sfilza di giornali tanto roboanti nel titolo quanto effimeri nella durata. Ma la sua denuncia del 1793 va colta al volo, perché conduce dritto al cuore del libro di Haim Burstin, Rivoluzionari. Un’«antropologia politica della Rivoluzione francese», secondo l’ambizioso sottotitolo di questo volume laterziano.
Da un secolo e mezzo in qua, ciascuna generazione di storici interroga il passato della Rivoluzione sulla base di un questionario più o meno esplicitamente dettato dalle Faq (Frequently asked questions) del suo presente. Nel caso di Burstin – il maggiore studioso italiano della Rivoluzione francese – le domande sollecitate dall’attualità sono oggi quelle che ruotano intorno alla crisi della democrazia rappresentativa. Perché le sezioni (da intendere qui, per metonimia, come i luoghi deputati all’esercizio della politica democratica) sono per tre quarti deserte? Perché la politica non appartiene più che a un pugno di individui che si nominano l’un l’altro? E come stupirsi se, a queste condizioni, i cittadini dabbene provano un disgusto sempre maggiore nell’andare a votare?
Facendo perno sulla Parigi del 1789 e degli anni immediatamente successivi, Burstin scopre quanto presto i rivoluzionari francesi – homines novi per definizione – siano divenuti, a loro volta e a loro modo (cioè nel caos di un mondo sottosopra), professionisti della politica: un notabilato, se non proprio un’oligarchia. Quanto rapidamente il personale della Rivoluzione abbia ragionato in termini di carrierismo e di favoritismo, a misura che il sistema assembleare inaugurato dall’Ottantanove andava degradandosi in lotta fazionaria. Inoltre, Burstin scopre quanto naturalmente la logica della Rivoluzione abbia promosso come sovrana la figura dell’estremista. E quanto copiosamente la radicalizzazione rivoluzionaria abbia alimentato una specie di indotto sociale dell’estremismo: un vasto sottobosco fatto di portieri delle prigioni, di custodi di abitazioni poste sotto sequestro, di emissari addetti alla sorveglianza o alla repressione, insomma l’equivoco demi-monde di chi aveva tutto l’interesse a brandire senza posa la «saponetta» della Rivoluzione.
Fin dalla primavera del 1789 e poi nel fatidico 14 luglio, con la presa della Bastiglia, le «giornate» insurrezionali del popolo parigino scatenarono una dinamica che era – al tempo stesso – collettiva e individuale: era collettiva, poiché traeva la propria legittimità dall’essere mobilitazione di massa; era individuale, poiché non poteva prescindere dall’azione di un gruppetto di agitatori o di un singolo capopopolo. E fin dall’indomani del 14 luglio 1789 la Rivoluzione riconobbe ufficialmente il principio di una remunerazione politica del merito patriottico, dal momento che il Comune di Parigi istituì una commissione deputata ad attribuire il titolo ufficiale (accompagnato da premi vari) di Vainqueur de la Bastille: a conti fatti, non meno di 861 prodi!
È nel rapporto tra individui e folla che nasce e cresce l’estremismo insurrezionale. E che un popolo in rivoluzione, lungi dall’accontentarsi della democrazia rappresentativa incarnata da deputati formalmente eletti, investe l’uno o l’altro agitatore della carica informale di genuino rappresentante del popolo: quand’anche si tratti – letteralmente – di un tagliateste. Così nel giorno della Bastiglia, quando un macellaio disoccupato, François Desnot, con il suo coltello da tasca provvede a decapitare il governatore della famosa prigione, e su questo costruisce la sua reputazione di rivoluzionario. «Sono un ottimo cittadino», si vanterà Desnot di lì a qualche mese: un cittadino che «se ne intendeva di amputazioni», e «sapeva trattare le carni».
Neppure tre mesi dopo il 14 luglio 1789, tocca alle donne del popolo parigino di farsi interpreti del protagonismo e del radicalismo della Rivoluzione: sono le dames de la Halle – le donne dei Mercati generali – che marciano compatte verso la reggia di Versailles, il 5 ottobre, e che l’indomani trascinano a Parigi il re Luigi XVI e la regina Maria Antonietta, un po’ in trionfo, un po’ alla gogna. A condurre tali donne è un’avvenente fruttivendola, Louise-Renée Audu, destinata a pagare per tutte: un anno e passa di carcere. Colpevole di sommossa, la «Regina Audu». Ma colpevole anche, o forse soprattutto, di avere sognato che la Rivoluzione degli uomini potesse essere la Rivoluzione delle donne.
Più che un’antropologia della Rivoluzione francese, il libro di Burstin offre una fenomenologia di tipi rivoluzionari. E ha il merito di indugiare – piuttosto che sui grandi nomi – sui piccoli. In qualche caso, nomi quasi incredibilmente rivelatori: come nel caso del gendarme Charles-André Merda, che il 9 termidoro dell'anno II (27 luglio 1794) entrò nella storia per avere arrestato Maximilien Robespierre. E per avere osato sparargli in faccia, sosteneva Merda, bloccando qualunque tentativo del «tiranno» di chiamare a raccolta i suoi feroci pretoriani. In realtà, probabilmente Robespierre si era sparato da solo, aveva cercato di togliersi la vita. Ma su quel controverso colpo di pistola, il granatiere Merda fonderà una bella carriera da ufficiale napoleonico. Riuscendo a diventare, nel 1807, nientepopodimeno che barone dell’Impero.
Haim Burstin, Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari, pagg. 314, € 25

Il Sole Domenica 27.3.16
Easter rising
Irlandesi contro inglesi, 100 anni dopo
di Renzo S. Crivelli

«Metti giù quel carro. Lascia stare, e fuori dai piedi!». Chi apostrofa un tizio che cerca di riprendersi il suo carro usato dai patrioti rivoluzionari per le barricate in una Dublino bloccata dall’Insurrezione di Pasqua 1916, il cosiddetto Easter Rising, è un combattente degli Irish Volunteers, la compagine armata che, unitamente ad altre formazioni, come la Lega Gaelica e il partito indipendentista Sinn Féin, ha da poche ore dato il via alla storica sollevazione contro gli odiati inglesi “occupatori”. In effetti, quest’immagine è abbastanza emblematica d’una sommossa del tutto velleitaria, eroica indubbiamente, ma così satura di ideali da risultare priva di strategia e di organizzazione. Una sorta di auto-immolazione di un gruppo di patrioti (tra di loro vi furono poeti, teorici dei diritti umani e diplomatici, dal sindacalista James Connolly allo scrittore Patrick Pearse al “feniano” Sean McDermott), che riuscì a commettere — in circa una settimana in cui “tenne” eroicamente un gruppo di avamposti tra cui il famoso Ufficio Postale, cuore pulsante della città — un numero incredibile di errori tattici.
Del popolano che va a riprendersi il suo prezioso carro intorno a St. Stephen Green, il giardino a pochi passi dalla centrale Grafton Street, parla uno dei maggiori scrittori irlandesi degli anni trenta, James Stephens, autore di romanzi come La pentola dell’oro o La figlia della donna a ore, amico di Joyce e da lui stimato a tal punto che nel 1929 gli affidò il compito di terminare Finnegans Wake nel caso in cui lui non ci fosse riuscito. Stephens si aggira per la città in preda ai tumulti, tra uomini armati che si muovono come allucinati, mentre i Volunteers s’impadroniscono di molti edifici-chiave. E mentre le truppe inglesi, colte di sorpresa, cominciano ad accerchiare tutti i punti di resistenza (tra cui il Post Office, il Green, le Distillerie Jameson e la Fabbrica di biscotti Jacob), e a far pesare la loro supremazia bellica (hanno parecchi cannoni) forte anche dell’arrivo di rinforzi da Londra, da parte loro, gli ammutinati sperano in un’improbabile insurrezione generale che possa estendersi a tutto il Paese.
Stephens racconta la Rivoluzione di Pasqua 1916 (24-30 aprile) con gli occhi di un cronista curioso — e talvolta attonito — fornendoci un vero reportage degno degli uomini della Cnn sui recenti fronti di guerra. Lo fa aggirandosi per le vie senza badare alle pallottole che fischiano, e non risparmiandosi constatazioni come quella del povero carrista (finito con una palla “amica” in testa), a sottolineare l’assoluta mancanza di coinvolgimento popolare. Nel suo resoconto, L’insurrezione di Dublino, ora tradotto per la prima volta in italiano da Menthalia nel centenario commemorativo d’un evento che ha avuto tanta risonanza non solo in Irlanda, assistiamo ad episodi come il «lancio di mattoni, bottiglie e bastoni» contro i Volunteers da parte dei dublinesi, a sostegno dell’arrivo dei Lancieri inglesi (c’era chi gridava «Volete fare del male a quei poveretti?»). Oppure troviamo descritto il saccheggio, da parte della folla, dei negozi del centro, con il furto di scarpe, vestiti e…dolciumi. Questi ultimi a rappresentare una sorta di toccante riappropriazione delle delizie tanto agognate dalla povera gente («C’è qualcosa di comico nel saccheggiare negozi di dolciumi — scrive Stephens — quasi innocente e fanciullesco»).
La Rivoluzione di Pasqua 1916 fallì, come è noto, tra i dubbi di molti intellettuali che non ne capirono le scelte affrettate ma che, ciò nondimeno, ne cantarono l’epos (basti ricordare Yeats, in una sua famosa poesia). Fallì proprio perché quel pugno di eroi non seppe costruire intorno ad essa il consenso della gente comune, puntando principalmente sull’impegno defatigante dell’Inghilterra nella prima guerra mondiale (un’occasione di debolezza da sfruttare “a caldo”, come ritenevano) ma dimenticando che in quel momento ben 300.000 giovani irlandesi stavano combattendo al fianco di Londra sulla Somme, giovani che avevano madri e genitori in patria. E puntando anche su una “fantasiosa” strategia di alleanza con il nemico germanico, indotto a fornire persino una nave piena di armi («20.000 carabine, centinaia di migliaia di munizioni e dieci mitragliatrici pesanti», come ricorda Tim Pat Coogan nel suo 1916: The Easter Rising) che, per errori tecnici puerili degli insorti, non riuscì a sbarcare un bel nulla sulle coste del Kerry.
Nel centenario della sommossa in tutto il mondo fioriscono Convegni (il primo in ordine di tempo, ad anticipare quello dublinese all’University College previsto per il 26 e 27 aprile, si è tenuto a gennaio all’Università di Roma 3), e quella controversa pagina di storia viene ora riletta e reinterpretata dagli storici, sfrondata dalle antiche oleografie. Perché se i cospiratori (tutti regolarmente fucilati, meno le donne) fallirono militarmente, furono altresì politicamente vittoriosi: innestando nell’agenda mondiale (e ancor più nell’opinione pubblica inglese), la convinzione che il problema dell’indipendenza irlandese dovesse essere ormai affrontato, una volta per tutte.
James Stephens, L’insurrezione di Dublino , trad. di Enrico Terrinoni
e cura di Riccardo Michelucci, Menthalia, Milano, pagg. 125, € 12;
Tim Pat Coogan, 1916: The Easter Rising , Weidenfeld & Nicolson,
London, pagg. 179, £ 9,99

il manifesto Alias 27.3.16
Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli, lettere sulla fatica di essere un genio
Carteggi. Paziente del fondatore della psicologia analitica per due anni, il grande fisico avviò con lui un carteggio durato dal ’32 al ’57, che oggi vale più come indagine antropologica sulla cultura umana che come fuoco sulla realtà fisica e il funzionamento della mente
di Giovanni Iorio Giannoli

L’ultima impresa teorica pubblicata in vita da Carl Gustav Jung, il secondo volume di Mysterium Coniunctionis, uscì sessant’anni fa: era «una indagine sulla separazione e la sintesi degli opposti psichici nell’alchimia». Nell’inviarne una copia a Wolfang Pauli – il geniale fisico che era stato due decenni prima suo paziente, e che divenne in seguito un suo assiduo interlocutore – Jung inserì nella dedica una formula cara a Nicolò Cusano (nec nimis nec minus), come a sottolineare il nucleo di atteggiamenti e di idee che li univa da un quarto di secolo: il rigore intellettuale, l’inclinazione platonica, l’attribuzione di un valore universale alle simmetrie, la tesi della coincidenza degli opposti, il presupposto di unità sostanziale tra il mondo fisico e quello psicologico, l’idea che sussista un legame molto stretto tra l’inconscio, l’hintergundsphysik (il fondamento su cui poggia la fisica), le immagini simboliche che costellano i sogni e gli archetipi (il contenuto innato, arcaico e collettivo della mente umana; una sorta di schema generale del sentire, dell’immaginazione e del ragionamento).
Pubblicate in tedesco nel 1992 (poi in spagnolo, in francese e in inglese) le lettere tra Jung e Pauli arrivano ora in libreria, nella loro prima traduzione italiana con il titolo Il carteggio originale: l’incontro tra Psiche e Materia (a cura di Antonio Sparziani, con Anna Panepucci, traduzione di Giusi Drago, Moretti & Vitali pp. 392, euro 30,00). Benché le edizioni già presenti in Europa non facciano di questo volume una primizia assoluta, tuttavia l’autorevolezza degli autori e la profondità con cui affrontano i temi trattati potrebbe costituire da noi un deterrente, una sorta di argine, nei confronti di quella diffusa sotto-cultura di massa che ha trasformato la fatica e la ricerca intellettuale di questi e di altri grandi scienziati del Novecento in una sorta di melassa ammiccante, nella quale convergono l’astrologia e lo spiritismo, l’esotismo e il finalismo, la telepatia e la preveggenza, la numerologia e la divinazione, il misticismo e i pregiudizi contro la scienza. Valga – a questo proposito – il caveat espresso dallo stesso Pauli, in uno scritto del 1948: «Dal punto di vista della scienza moderna, la forma di immaginazione (archetipica) è senza dubbio da considerare una regressione a uno stadio arcaico»; per cui: «non bisogna cadere nell’errore di ritenere che i suoi prodotti siano verità scientifiche equiparabili a una solida dottrina».
C’è da chiedersi però quale possa essere oggi il contributo del carteggio alla discussione sul pensiero scientifico e sull’umanesimo, sul rapporto tra il corpo e la mente, sulla natura della psicologia e sul suo rapporto con le scienze «forti», sulla storia della cultura umana e sulle teorie della conoscenza. Sia la fisica contemporanea che la psicologia scientifica sembrano infatti aver superato da tempo i nodi che impegnavano questi due grandi scienziati nella prima metà del secolo scorso: la fisica, perché la riflessione sui fondamenti della meccanica quantistica (e sul ruolo determinante dell’osservatore, nel determinare il reale osservato) si è spostata in larga misura su interrogativi che riguardano ontologie molto più astratte (come quella, per esempio, che concerne la natura dello spazio-tempo quantistico); la psicologia, perché l’esplosione delle scienze cognitive (a partire dagli anni ottanta del secolo scorso) ha trasferito su un altro terreno l’indagine della psyché, dei suoi contenuti simbolici e/o sub simbolici, sottraendo al lavoro analitico, all’introspezione e all’archeologia culturale, una parte molto rilevante degli studi che riguardano la mente umana.
Ai giorni nostri, dunque, l’idea che mente e materia possano essere aspetti epifenomenici di un’unica realtà sottostante, in sé neutra (cioè: né fisica né mentale), può sembrarci un po’ ingenua, retaggio di una presunzione essenzialistica che non sentiamo più nostra. Così come pure l’idea, caldeggiata da Pauli, che tra la descrizione fisica e quella psicologica sussista una sorta di «complementarietà», analoga a quella che Niels Bohr introdusse nel 1927, per dar conto dell’impossibilità di osservare – nello stesso esperimento – sia gli aspetti ondulatori che quelli particellari della materia, alla scala atomica e sub-atomica. Analogamente, può sembrare oggi priva di senso, o di cogenza, l’idea che la sincronicità (il verificarsi di coincidenze significative, di natura non causale, in punti molto lontani dello spazio-tempo) possa integrare sotto il profilo logico ed epistemologico (come un tassello mancante, come un «quarto escluso») la triade canonica della meccanica classica, costituita dallo spazio, dal tempo e dalla causalità. Ognuna di queste idee si presenta oggi come il retaggio di un sentire datato, piuttosto che come l’embrione di un fecondo programma di ricerca.
ppure, meglio: studi di questo genere conservano il loro carattere di indagini antropologiche, monumentali, profonde e piene di fascino, che riguardano la ricchezza della cultura umana, le sue origini, i suoi riferimenti e le sue costruzioni, piuttosto che la realtà fisica o il funzionamento della mente. Di questo tipo, per esempio, è sicuramente l’analisi dell’alchimia (perseguita da Jung e condivisa da Pauli), come proiezione dell’inconscio collettivo sulla materia, nel tentativo di trasformarla.
Ed emerge anche, insieme a questo, un resoconto «in presa diretta» della fatica di esser un genio, delle ossessioni, delle compulsioni, dell’insicurezza e dell’ansia che si associa spesso al lavoro intellettuale, ai suoi massimi livelli. Nell’epistolario, Pauli ha un ruolo maggiore di quello che occupa Jung, sia per il numero delle lettere, sia per la quantità delle pagine, sia per l’emozione che accompagna ogni scritto, anche il più astratto. E nel ritmo incalzante degli interrogativi e degli argomenti affiora per venticinque anni la posizione specifica del paziente, nei confronti del suo terapeuta (anche se il rapporto effettivo di analisi era durato solo due anni, dal 1932 al 1934).
Così – anche quando erano venute meno le ragioni più urgenti della terapia (l’alcolismo, le risse, la depressione, legata anche agli strascichi del suicidio della madre, o alle difficoltà del rapporto con l’altro sesso) – Pauli continuava a sottoporre a Jung i suoi sogni; e non certo, o non solo, per alimentare un terreno comune di ricerca. Combattevano, in lui, due Pauli: quello estroverso/empirico/razionale/giudicante, legato alla figura del padre (un medico, poi docente di chimica e di fisica) e all’influenza del padrino (Ernst Mach, il grandissimo filosofo e fisico austriaco, capostipite dell’empirismo del Novecento) e quello introverso/intuitivo/passionale/creativo, legato alla figura della madre, all’infanzia e all’adolescenza. Fino all’ultimo, lo scontro tra queste polarità restò attivo nel suo carattere; e volle descriverlo alla fine lui stesso, a pochi anni dalla morte, in una «fantasia attiva sull’inconscio» (dedicata a Marie-Louise von Franz, allieva e collaboratrice di Jung, legata a Pauli da un rapporto molto intimo). Alla fine di questo breve racconto, quando il personaggio denotato come Io (lo stesso Pauli) si accinge a tornare nel suo «mondo maschile, tra la gente», risuona la Voce del Maestro (Jung?), che lo incoraggia alla congiunzione tra i sessi; e – per tranquillizzarlo – ingiunge alla donna: «Sii sempre benigna».

il manifesto Alias 27.3.16
«Posso morire, io, un cristallo?». Tornano i «Diari» di Klee
I «Diari» di Klee riproposti dal Saggiatore nella sua vecchia edizione 1960. 1898-1918: profonda passione teorica, musica-colore, crolli esistenziali come la morte in guerra dell'amico Franz Marc
di Massimo Romeri

In una conferenza tenuta alla Kunstverein di Jena nel 1924 Paul Klee paragona l’artista al tronco di un albero, tormentato, scosso dalla possanza dei fluidi che penetrano attraverso le radici, «e come la chioma dell’albero si dispiega visibilmente in ogni senso nello spazio e nel tempo, così avviene con l’opera». L’immagine dell’albero sta a significare due cose: il legame saldo con il mondo, con il presente, e il ruolo dell’artista come mediatore della realtà. La sua attività si spiega bene con questa metafora: è tanto legata alla propria vita, quanto tende a recepire regole universali. Klee, il suo corpo, le sue vicende personali, sono uno strumento conoscitivo.
Lo si percepisce nei suoi Diari 1898-1918, pubblicati postumi a cura del figlio Felix nel 1957, e di cui il Saggiatore ripropone ora la prima edizione italiana, datata 1960 (pp. 418, euro 29,00), con la bella prefazione di Giulio Carlo Argan e una nuova introduzione di Hans Ulrich Obrist – ma è di soli quattro anni fa l’edizione ritradotta, e integrata, per Abscondita (traduzione di Angelica Tizzo, postfazione di Elena Pontiggia e appendice iconografica).
I ricordi dell’artista, numerati progressivamente, si leggono d’un fiato. Si sente crescere, dall’1 al 1134, la profonda passione teorica, che coincide con una graduale mutazione stilistica: le frasi si spezzano, la consapevolezza del proprio ruolo aumenta, le letture si succedono una all’altra e vengono meticolosamente annotate. Quelle che ci si aspetta: Gor’kij, Nietzsche, Zola, Poe, Gogol’, Voltaire…; e i classici: Aristofane, Plauto, Tacito, Platone e il Simposio di Senofonte, «tra le cose più belle dell’arte antica», per la grazia degli scherzi e delle azioni, e il parlare tanto semplice quanto profondo dell’amore, del sesso, della vita. C’è anche, dalla prima all’ultima pagina, un’ironia che tende ora al cinico – ma senza la rabbiosa frustrazione di Céline – ora alla canzonatura più leggera: «alla domanda se amo la natura, rispondo, per ora: “la mia certamente”». Talvolta emerge l’afflato messianico dello Zarathustra: «Io sono Dio. Tanto di divino si è accumulato in me che non posso morire», o ancora: «posso morire, io, un cristallo?».
Ma sempre alle parole soggiacciono delle forme: «Sogno me stesso che divengo il mio modello. Il mio io proiettato. Destandomi, riconosco la realtà. Giaccio in posizione complicata ma supino, tutto aderente al lenzuolo. Io sono il mio stile». I viaggi rappresentano un momento di formazione importante. Il suo italienische Reise dura sei mesi, tra 1901 e 1902: segue la strada del sud paragonandosi a Dürer. Come quest’ultimo aspira alla chiara pienezza delle forme classiche o, in senso ancora romantico, a trovare una «natura amica che non tenta, ma salva». Infine «in Italia ho compreso l’architettura dell’arte figurativa», laddove il figurativo, per Klee, non è la rappresentazione dell’oggetto, ma la costruzione interna dell’immagine; si avvicina così, per la prima volta, a una concezione astratta del visibile. Al ritorno dall’Italia tenta di imporsi sulla scena artistica monacense, ma si susseguono i rifiuti: è un momento difficile dal punto di vista finanziario. Le ristrettezze economiche rendono scettici i genitori della futura sposa, ma i due giovani sono ben decisi nelle loro scelte e Klee, evidentemente con orgoglio, incolla dopo il ricordo 777 la pagina del Bollettino dello Stato Civile con la pubblicazione del proprio fidanzamento. A stretto giro il matrimonio e la nascita del figlio Felix. Saldamente connessi a queste vicende personali, nel diario si seguono anche i progressi nella pittura, tra scatti in avanti e ricadute, dubbi, problemi e soluzioni. Dai primi disegni simbolisti alle incisioni, alle sintesi lineari: «Mi si rivela così una via per l’uso delle linee e posso finalmente uscire dal vicolo cieco dell’ornamento»; e in un’ora felice, a Tunisi, in una serata «dai colori altrettanto delicati che decisi», scopre che «io e il colore siamo tutt’uno. Sono pittore».
Poi combina questi elementi, la linea e il colore, misurandoli quasi musicalmente, soppesandone le potenzialità nelle composizioni. Si sente in questi anni prima della Grande Guerra un bisogno di riforma. Le «alte grida di lamento per la rivoluzione in corso» si levano a Monaco soprattutto per la mostra dei futuristi alla Galleria Thannhäuser. Klee parla specialmente di Carrà: gli ricorda Tintoretto e Delacroix. Ma l’impressione è che il roboante mondo dei futuristi che aspira alla novità con prorompete foga retorica sia legato a doppia mandata all’arte antica. Forse l’unica strada possibile per riformare il linguaggio artistico è gettare uno sguardo alle raccolte etnografiche o, ancora meglio, in casa propria, «nella stanza riservata ai bambini». Le creazioni dei bambini e dei malati di mente, tanto più solo elementari, tanto più possono essere, secondo Klee, esempi istruttivi, da considerare «con una serietà maggiore a quella che si riserva a tutte le pinacoteche, se si vuole oggi riformare la pittura». Un interesse del genere fa il paio in pittura almeno con Picasso.
Nel campo letterario, per rimanere in tema, si possono citare anche le ricercate crudezze linguistiche di Gertrude Stein. La guerra entra nei Diari in modo fulmineo con la scomparsa, tremenda, di Franz Marc, in una delle pagine più intense e drammatiche del libro.
Da quel 4 marzo 1916 la morte del giovane compagno di ricerche riaffiora fino alla fine «come un fulmine, come se qualcosa crollasse in me». E a qualche mese di distanza, raccontando Marc, Klee racconta se stesso. La scomparsa improvvisa ne ha stroncato la maturazione, Marc si sarebbe evoluto in un senso universale, come un’idea, perciò con uno sconforto martellante l’amico si chiede: «ma allora perché è morto?». In questo frangente, solo l’incontro con Kandinskij e l’impegno nel Blaue Reiter chiariscono le ragioni definitive della propria ricerca: «Quanto più spaventoso è questo mondo, come oggi, tanto più astratta è l’arte». L’astrattismo raccoglie il senso più profondo di una realtà oltre il visibile, con freddezza calcolata, al di là di ogni espressione sentimentale: «Nel grande serbatoio delle forme giacciono macerie a cui in parte teniamo ancora. Esse offrono la materia dell’astrazione». Vibrano, in queste parole, i traumi inauditi della guerra. Negli anni successivi Klee continua a lavorare moltissimo. Le brevissime interruzioni sono dovute a fatti contingenti come gli impegni militari, eppure a monte di ogni sua opera sta un ragionamento a sé. Disegna o dipinge ispirato da una fantasia che pare infinita, accompagnata a un’ intelligenza prodigiosa. I suoi pensieri non sono raccolti solamente nei diari. Dal 1921 al 1931, in concomitanza con le sue lezioni al Bauhaus – prima a Weimar, poi a Dessau –, l’artista ha compilato dei quaderni solo in parte pubblicati, e le cui 3900 pagine, fitte di appunti e disegni, sono rese da poco disponibili online dal Zentrum Paul Klee di Berna (www.zpk.org), con scansioni e trascrizioni. Vale la pena sfogliarli: questi fogli stanno al Novecento come gli scritti di Leonardo al Rinascimento. Un paragone che trova senso nelle pagine dei Diari: Leonardo è il nume italiano di Klee, un «pioniere nell’uso delle tonalità», un artista al quale, attraverso lo studio, la natura appare rivelata. Una natura che per l’uomo moderno è «mobile» e infinita nella sua varietà, dai microcosmi visibili attraverso le lenti del microscopio allo spazio infinito oltre l’atmosfera terrestre. E per concludere dove si è iniziato, dalla conferenza di Jena del ’24: «Chi mai non vorrebbe, come artista, dimorare là, dove l’organo centrale d’ogni moto temporale e spaziale – si chiami esso cervello o cuore della creazione – determina tutte le funzioni? Nel grembo della natura, nel fondo primordiale della creazione, dove è custodita la chiave segreta del tutto?»