Repubblica 25.2.16
Il libretto rosso delle città
La Cina
dice addio al modello occidentale che ha favorito lo sviluppo delle
megalopoli Le nuove direttive del governo vietano altri grattacieli e
impongono il ritorno alla tradizione
di Giampaolo Visetti
PECHINO
La Cina non vuole perdere il poco che resta del proprio antico aspetto e
impone lo stop all’architettura e all’urbanistica straniera. Basta
grattacieli in vetro e acciaio, shopping centre che copiano Venezia e
Parigi, metropoli stile Las Vegas, o palazzoni a forma di astronave.
Contro la globalizzazione del cemento capitalista, più devastante della
Rivoluzione culturale maoista, nel futuro della super potenza dell’Asia
c’è il ritorno al profilo del passato imperiale. Un documento del
comitato centrale del partito-Stato intima a funzionari e progettisti di
«abbandonare le soluzioni eccentriche per attenersi alle
caratteristiche storiche e locali».
Il presidente Xi Jinping,
chiudendo i lavori della commissione urbanistica nazionale, non ha usato
giri di parole: «Chi disegna edifici e quartieri — ha detto — la smetta
di inseguire la popolarità con opere volgari che scimmiottano le
stravaganze occidentali». La “guerra agli architetti stranieri” prevede
che le nuove costruzioni siano «adeguate, tradizionali e piacevoli» e
abbandonino «esotismi, esagerazioni e stranezze prive di identità». Per
il leader di Pechino la trasformazione cinese degli ultimi anni
«riflette una mancanza di fiducia culturale, atteggiamenti di dirigenti e
architetti che confliggono con gli obiettivi politici».
Per
trovare il precedente di un simile editto, si deve risalire al 1978. Mao
Zedong era morto da due anni, templi e pagode cinesi erano stati rasi
al suolo dalle guardie rosse, 88 cinesi su 100 erano contadini e
vivevano di sussistenza in villaggi medievali. La commissione
urbanistica del partito comunista, pronta all’ascesa di Deng Xiaoping e
al suo «contrordine compagni arricchirsi è glorioso», varò la prima
urbanizzazione forzata del Paese. Oggi il 53 per cento dei cinesi vive
nelle megalopoli industriali, la nazione vanta il maggior numero di
miliardari e la più numerosa classe media del pianeta, ma lo sfacelo non
è occultabile nemmeno dalla censura. Città e strade tutte uguali,
traffico paralizzato, aria tossica, famiglie distrutte e una società
implosa per solitudine e sradicamento. È il prezzo della crescita
economica, ma con la grande frenata la Cina non vuole pagarlo più. Sotto
accusa finisce così lo «squallido e banale skyline d’importazione».
Il
vero obiettivo del “nuovo Mao” è però impedire «il contagio del virus
occidentale»: assieme ai grattacieli «pensati per l’America e rivenduti
al Giappone» cerca infatti di «insinuare nel nostro popolo pure la
democrazia». «Per la Cina è un pericolo mortale — ha detto Xi Jinping —
che tenta di demolire l’aspetto di una civiltà per distruggerne anche i
valori». Rispetto alla furia devastatrice del Grande Timoniere e alla
speculazione selvaggia proseguita anche con Hu Jintao, si annuncia
davvero un’altra rivoluzione: una Cina impegnata a ricostruire se stessa
per scongiurare il rischio di non essere più nulla, colonizzata sia dai
palazzoni prefabbricati che dai modelli di vita globalizzati. Il leader
cinese punta il dito contro chi disegna edifici e metropoli, ma parla a
chi, assieme agli standard dell’edilizia internazionale, assorbe «i
cosiddetti valori universali e la retorica dei diritti umani».
Il
timore è che «una civiltà millenaria fisicamente occidentalizzata in due
decenni, si scopra ricolonizzata anche nella mente e nello spirito».
Liu Shilin, capo del’Istituto di scienze urbane dell’università Jiao
Tong di Shanghai, ha promesso che entro poche settimane le autorità
renderanno noti i criteri per definire chiara- mente cosa sia la bandita
“architettura strana”. Nessuno osa dirlo, ma nella culla
dell’imitazione l’imbarazzo è generale. Xi Jinping ha appena visitato la
sede della tivù di Stato, nota a Pechino come “il grande pantalone”.
Oggi a Shanghai il G20 economico si riunisce nei grattacieli di Pudong,
icona della «bizzarria delle archistar occidentali»: uno è chiamato
“cavatappi”, uno “missile”, l’ultimo “anguilla”. Poco distante sta per
essere inaugurato “Chinadisney”, il più grande parco divertimenti del
mondo, fotocopia dell’originale americano.
Nella capitale gli
antichi hutong sono stati rasi al suolo per fare posto a strade e centri
commerciali. Nelle province rurali le millenarie siheyuan vengono
demolite dagli speculatori che vendono palazzine a blocchi progettate in
Svezia. Ai piedi della Grande Muraglia, palcoscenico privo di neve
delle Olimpiadi invernali 2022, già sorgono villaggi turistici clonati
in Austria e Svizzera, con birrerie germaniche e pub inglesi.
L’originalità dell’estetica cinese, dalle pagode ai templi buddisti,
dalle sale da tè alle risaie terrazzate, si è autoestinta da tempo, ma
l’accusa di Xi Jinping oggi non liquida un «passato imperiale o
borghese», bensì il «presente straniero imposto dall’esterno». Per la
prima volta la distruzione dei luoghi storici e dello stile nazionale
non è promossa internamente dal potere che succede al potere, ma
«dall’attrazione irresistibile per il gusto, la tecnica e il business
dell’Occidente che cancella l’Oriente». Per Xi Jinping tutelare
l’“identità cinese” è un’operazione di propaganda nazionalista e
patriottica, precondizione per salvare l’egemonia dell’autoritarismo
comunista. Per chi ama la cultura, l’arte e il paesaggio è invece una
questione di rinascita civile.
«Chiedo alle autorità — ha detto
Wang Shu, vincitore del Pritzker Prize per l’architettura — di salvare
la Cina da una cementificazione e da una speculazione di Stato che
portano all’autocancellazione del Paese e del suo popolo». Per il
creatore dello straordinario museo di storia di Ningbo «una
globalizzazione architettonica al ribasso spoglia il Paese del suo
carattere e l’intera umanità di un patrimonio estetico irripetibile». Il
paradosso è che il governo attacca i progettisti, minacciando di
«rimuovere le strutture eccentriche entro cinque anni», mentre questi
accusano «lo Stato corrotto che promuove per primo lo svuotamento della
propria civiltà».
Due anni fa l’orgoglio della nomenclatura rossa
era il New Century Global Centre di Chengdu, 50 mila metri quadri di
cemento, stile Manhattan, esaltato come «l’edificio più grande del mondo
dove si può vivere dal giorno della nascita a quello della morte». Ora
Pechino fa marcia indietro, promette di tutelare ciò che è stato
risparmiato dalle ruspe, chiude le porte all’Occidente e ripropone il
“modello Cina”.
Per i cinesi sperare in città meno squallide e
crudeli è una buona notizia. Quella cattiva è che il bando alle
“sovversioni occidentali” non riguarda solo gli edifici, ma prima di
tutto le idee: la prima è il sogno, in una strada qualsiasi, di sentirsi
liberi.