giovedì 18 febbraio 2016

La Stampa 18.2.16
Rifugiati, l’arma di Mosca contro l’Europa
di Marta Dassù

Se il Consiglio europeo andrà come prevedono gli scommettitori di Londra, il premier britannico David Cameron riuscirà ad ottenere l’accordo che gli serve. Il «deal» per tentare di vincere quel referendum nazionale che Cameron ha deciso di convocare per tenere a bada i suoi avversari euro-scettici fra i Tories.
Il referendum (probabilmente nel giugno prossimo) ruota attorno a una domanda secca: i britannici vogliono uscire o restare parte dell’Ue? Se il partito pro-Brexit - a favore dell’uscita - perderà, entreranno in vigore gli accordi che sta discutendo in queste ore il Consiglio europeo: accordi relativi al «nuovo assetto» della posizione della Gran Bretagna come membro dell’Unione europea. In modo british - pragmatico e spregiudicato - David Cameron ha deciso così di usare il tavolo europeo per una battaglia alquanto domestica. Prima ha convocato il referendum; poi ha negoziato con Bruxelles (e Berlino) clausole che rafforzano lo status «speciale» di Londra: la condizione, appunto, non per dare le dimissioni ma per restare parte di un Club sempre più caratterizzato da forme diverse di membership. Vedremo poi, dalle reazioni britanniche in caso di accordo, se Cameron vincerà la sua mano anche a casa, oltre che a Bruxelles.
Se la posta in gioco, per Londra, è chiarissima, per gli altri europei i dilemmi sono essenzialmente tre. Primo: all’Europa conviene una Gran Bretagna parzialmente fuori dall’Ue (come di fatto è già) o conviene una Gran Bretagna del tutto fuori, che dovrà poi rinegoziare la sua posizione verso il mercato unico? La risposta di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, di Angela Merkel - magna pars del negoziato - e di molti altri governi dell’Ue, incluso il nostro, è che convenga mantenere ancorato un Paese vitale economicamente, con un peso-chiave sul piano finanziario, che siede nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con un peso innegabile quanto a capacità militari e di politica estera. Ma a quale prezzo? La risposta prevalente a questa seconda questione, è che il prezzo del «deal» sia accettabile, per una ragione in particolare: con le sue richieste, la Gran Bretagna non intende impedire l’integrazione ulteriore dell’euro-zona e non ha in effetti ottenuto un potere di veto. Londra vuole piuttosto garantire - anzitutto a se stessa - che i Paesi fuori dalla zona euro restino al riparo da decisioni adottate dai Paesi euro. Potrà essere un’illusione; ma il punto da cogliere è che Londra, a differenza del passato, non ambisce a bloccare l’Unione monetaria. Una delle lezioni tratte dal 2008, infatti, è che le fragilità strutturali dell’euro - in assenza di progressi verso l’Unione bancaria e fiscale - tendano a ripercuotersi negativamente anche sulla City. Cameron, quale premier di un Paese già avviato su un binario più esterno e separato dell’Ue, ha in fondo svelato la realtà materiale dell’Europa di oggi: l’esistenza, destinata a durare, di forme differenziate (più o meno strette) di integrazione o cooperazione. Nasce di qui, tuttavia, il terzo dilemma: se la Gran Bretagna otterrà quello che chiede entro domani sera - inclusa la discussa possibilità di graduare l’accesso al proprio welfare per cittadini europei - si innescherà un effetto contagio? Sarà solo l’inizio di una proliferazione di rivendicazioni nazionali? Questo rischio, innegabile, sarà comunque minore dei possibili effetti di una uscita di Londra dall’Ue (il primo passo verso la disgregazione, salutato con grande entusiasmo da partiti e forze anti-europee del Continente). Il Consiglio europeo punterà quindi a neutralizzare Brexit e a tenere sotto controllo il potenziale imitativo del «deal»: obiettivo possibile, fra l’altro, perché l’accordo ricercato da Londra sarà pur sempre valido erga omnes.
L’interesse a un accordo sarà più evidente, io credo, se verrà tenuto conto del contesto generale. In una fase già così caratterizzata dalla ri-nazionalizzazione della dinamica europea, l’Ue sta davvero rischiando il proprio futuro: non sul dossier inglese, tuttavia, ma sul dossier migrazioni/rifugiati. Si tratta in effetti del secondo punto all’ordine del giorno del Consiglio europeo, che include i rapporti con una Turchia colpita ieri da un nuovo attentato; la decisione di ricorrere al sostegno della Nato nel pattugliamento del Mar Egeo, il futuro di Schengen. E che sarà seguito da una discussione sulla Siria e sulla Libia. Come si vede: grandi sfide, intrecciate fra loro e ad alto potenziale distruttivo.
Sarebbe disperante, quindi, se il Consiglio europeo trattasse questi punti come una nota a margine del vertice sul Brexit. Il tempo dei rinvii è scaduto: il dramma dei rifugiati è ormai ostaggio dell’escalation di tensione fra Russia e Turchia sul fronte siriano, con il pericolo concreto di un allargamento ulteriore del conflitto. In modo molto diverso e con finalità opposte, sia Mosca sia Ankara utilizzano quest’arma per premere su un’Europa divisa. Indebolendola ancora. Se lo scenario è questo, le tensioni su Dublino e su Schengen appaiono ridicole: un lusso che gli europei non si possono più permettere. Se i rischi sono questi, è inspiegabile che Paesi membri dell’Est, da sempre preoccupati per l’influenza della Russia, pensino a ripiegarsi dietro muri illusori, mentre offrono così una sponda a Putin. L’Italia è particolarmente esposta, per ragioni geografiche. Ha, dalla sua parte, una visione diretta e non superficiale dell’entità del problema; e ha rafforzato nei mesi scorsi la sua credibilità (l’efficacia dei controlli in Italia è nettamente aumentata mentre non ha fatto passi avanti la «ricollocazione» - teorica - dei rifugiati). E’ il momento per mettere di nuovo sul tavolo pochi punti concreti, nella convinzione (giusta) che rispondano sia all’interesse nazionale sia a quello europeo: un metodo inglese, si potrebbe forse osservare, su questioni vitali per l’Ue.