martedì 5 gennaio 2016

Repubblica 5.1.16
A scuola di Serendipity
Per molti si tratta soltanto di colpi di fortuna inattesi. Ma alcuni scienziati hanno cominciato a studiare l’arte di scoprire ciò che non stiamo cercando
Con risultati sorprendenti: spesso il fato è legato a poteri percettivi speciali
di Pagan Kennedy


ESISTONO persone che hanno un talento speciale per la serendipità? E se sì, perché?
Nel 2008, un inventore di nome Steve Hollinger lanciò a campanile una macchinetta digitale dall’altra parte del suo studio, in direzione di pila di cuscini. «Non stavo cercando di inventare niente », dice. «Stavo solo giocando». Mentre volava, la macchinetta scattò quella che generalmente si definirebbe una brutta foto. Ma quando a Hollinger cadde l’occhio su quell’immagine confusa, intravide possibilità nuove e dopo non molto era lì che costruiva una videocamera lanciabile a forma di palla da baseball, dotata di giroscopi e sensori. La Squito, come l’ha chiamata, può essere fatta rotolare dentro un’intercapedine o lanciata sull’altra riva di un fiume, offrendo una registrazione del mondo da ogni sorta di prospettiva «non umana». Oggi Hollinger detiene sei brevetti relativi a videocamere lanciabili.
È sorprendente la quantità di oggetti pratici della vita moderna inventati da qualcuno che si è imbattuto per caso in una scoperta o ha fatto tesoro di un incidente: il forno a microonde, il vetro di sicurezza, i rivelatori di fumo, i dolcificanti artificiali, le radiografie. Molti tra i farmaci più venduti del XX secolo sono nati perché un ricercatore, in qualche laboratorio, si era messo a lavorare su un dato “sbagliato”.
Studiando questo tipo di rivoluzioni, ho cominciato a chiedermi se la serendipità non sia qualcosa che si può insegnare. Come si fa a coltivare l’arte di scoprire quello che non stiamo cercando?
Per decenni Sanda Erdelez, scienziata informatica all’Università del Missouri, si è posta questa domanda. In Croazia, dov’è cresciuta, aveva sviluppato la passione di perdersi fra pile di libri e manoscritti ingialliti nella speranza di trovare qualcosa che la sorprendesse. Mi dice che in croato non esiste una parola che esprima il brivido della scoperta inattesa e che fu entusiasta quando scoprì (dopo essersi trasferita negli Stati Uniti con una borsa di studio Fulbright, negli anni 80) la parola inglese serendipity.
Oggi associamo questa parola a una sorta di colpo di fortuna inaspettato. Ma il suo significato originale era molto diverso: nel 1754, un letterato di nome Horace Walpole si mise seduto a una scrivania nel suo sfarzoso castello di Twickenham, a sudovest di Londra, e scrisse una lettera. Walpole era rimasto estasiato da una fiaba persiana su tre principi dell’isola di Serendip che possiedono capacità di osservazione sovrumane. Nella sua lettera, suggeriva che questo antico racconto conteneva un concetto fondamentale riguardo alla genialità umana: «Viaggiando, le loro altezze reali non facevano che scoprire, per accidente o per sagacia, cose che non stavano cercando ». E proponeva una nuova parola – serendipity – per descrivere questo principesco talento per il lavoro di indagine. Insomma, in origine la parola serendipità stava a indicare un’abilità, e non un casuale colpo di fortuna.
La Erdelez concorda con questa definizione. Lei vede la serendipità come qualcosa che le persone fanno. A metà degli anni 90, avviò uno studio su un centinaio di persone, per scoprire in che modo riuscivano (o non riuscivano) a crearsi una propria serendipità.
I suoi dati qualitativi – da indagini e interviste – dimostravano che i soggetti ricadevano in tre gruppi distinti. Il primo era quello dei «non incontratori», gente che vedeva tutto attraverso una visuale ristretta, come una fessura, e quando si trattava di cercare informazioni tendeva ad attenersi alla propria scaletta di cose da fare, invece di avventurarsi ai margini. Il secondo gruppo era quello degli «incontratori occasionali », che di quando in quando si imbattevano in momenti di serendipità. Il gruppo più interessante era il terzo, quello dei «super- incontratori», che riferivano di imbattersi in liete sorprese ovunque volgessero lo sguardo. I super-incontratori, per esempio, adoravano trascorrere un pomeriggio a rovistare dentro una rivista di epoca vittoriana sull’allevamento di bestiame, perché contavano di poter trovare tesori nascosti nei posti più strani. Erano talmente drogati di questo tipo di esplorazioni che spesso scovavano informazioni per amici e colleghi.
Secondo la Erdelez, si diventa super-incontratori anche perché si è convinti di esserlo: aiuta a dare per scontato che si possiedono poteri percettivi speciali, come un insieme di antenne invisibili che ti conducono agli indizi.
Negli anni ‘60, Gay Talese, all’epoca un giovane reporter, dichiarava che «New York è una città di cose che passano inosservate », e si delegò da solo a essere quello che le osservava. Trasformò l’isola di Manhattan nell’isola di Serendip: seguì le peregrinazioni dei gatti randagi, catalogò i lustrascarpe, scovò le statistiche sulle toilette dello Yankee Stadium e scoprì una colonia di formiche in cima all’Empire State Building. Pubblicò le sue scoperte in un libro intitolato “New York: A Serendipiter’s Journey”.
Martin Chalfie, che ha vinto un premio Nobel per il suo studio sulla Gfp (la proteina fluorescente verde, quella che fa luccicare di verde le meduse), mi ha detto che lui e molti altri premi Nobel hanno beneficiato di una catena di casualità e incontri fortuiti sulla via che ha condotto alle loro rivelazioni. Alcuni scienziati sposano addirittura una sorta di metodo da free jazz, dice, improvvisando man mano che vanno avanti: «Ho sentito di gente che ha ottenuto risultati validi dopo aver fatto cadere per sbaglio i suoi preparati sperimentali per terra, averli raccolti e aver continuato a lavorarci nonostante questo».
Quante idee nascono da un recipiente rovesciato, da un incidente, da un esperimento fallito, da un tentativo alla cieca? Un’indagine fra detentori di brevetti ha scoperto che addirittura metà dei brevetti era frutto di un processo che si potrebbe definire serendipità. Migliaia di partecipanti all’indagine hanno dichiarato che la loro idea era nata mentre stavano lavorando su un progetto non collegato. Ecco perché dobbiamo cercare di saperne di più sulle abitudini che trasformano un errore in una scoperta rivoluzionaria.
Alla fine degli anni 80, l’endocrinologo John Eng decise di approfondire lo studio di certi veleni animali che danneggiavano il pancreas, quindi ordinò per posta veleno di lucertole e cominciò a trastullarcisi. Il risultato di questo curioso esercizio fu la scoperta di un nuovo composto nella saliva di un mostro di Gila, che a sua volta condusse a una cura per il diabete.
È necessario, dunque, sviluppare un nuovo campo di studi interdisciplinare (studi sulla serendipità, potremmo chiamarli), che possa aiutarci a creare una tassonomia di scoperte in laboratori chimici, redazioni dei media, foreste, aule scolastiche, acceleratori di particelle e ospedali. Osservando e documentando le tante «specie» diverse di super- incontratori, potremmo cominciare a comprendere come funziona la loro mente.
Ovviamente, anche se riuscissimo a organizzare lo studio della serendipità, resterebbe sempre uno sforzo dall’esito incerto, considerando che abbiamo a che fare con un fenomeno di difficile definizione, incredibilmente variabile e assai complicato da esprimere sotto forma di dati. Gli indizi emergeranno senza dubbio dove meno ce lo aspettiamo, forse nelle muffe abbarbicate alle pareti di un parcheggio sotterraneo, o nelle abitudini di accoppiamento dei birdwatcher. Il viaggio sarà esasperante, ma le potenziali intuizioni sono profonde. E un giorno potremmo riuscire a imbatterci in qualche modo nuovo e più efficace per smarrirci.
© The New York Times 2016 ( Traduzione di Fabio Galimberti)