martedì 26 gennaio 2016

Corriere 26.1.16La svolta sulla Riforma Il Papa sarà in Svezia all’anniversario di Lutero
Per i 500 anni scelta ecumenica di cattolici e protestanti
di Gian Guido Vecchi

CITTÀ DEL VATICANO L’inizio della Riforma è considerato il 31 ottobre del 1517, l’affissione delle 95 tesi sul portone della chiesa di Wittenberg, ma il momento più drammatico è quando il monaco Martin Lutero parlò alla Dieta di Worms, 18 aprile 1521, per dire «non confido né nel Papa né nel solo Concilio, poiché è certo che essi hanno spesso errato e contraddetto loro stessi» e affidarsi alla sola scriptura e alla propria coscienza «prigioniera della Parola di Dio». Bisogna partire da qui, per misurare la portata del gesto epocale del Papa, mezzo millennio più tardi: Francesco parteciperà a una cerimonia congiunta fra la Chiesa cattolica e la Federazione luterana mondiale per commemorare il cinquecentesimo anniversario della Riforma. In un comunicato congiunto, si spiega che la «commemorazione ecumenica» si svolgerà il 31 ottobre di quest’anno nella città svedese di Lund, e sarà presieduta dal pontefice assieme al vescovo Munib A. Younan e al reverendo Martin Junge, presidente e segretario generale della Federazione luterana mondiale.
«Sono profondamente convinto che adoperandoci per la riconciliazione fra Luterani e Cattolici operiamo per la giustizia, la pace e la riconciliazione in un mondo lacerato dai conflitti e dalla violenza», spiega il reverendo Junge. Il cardinale Kurt Koch ha spiegato che la commemorazione ecumenica sarà possibile «concentrandosi insieme sulla centralità della questione di Dio e su un approccio cristocentrico».
Il cammino di riavvicinamento prosegue dal Concilio. Un momento importante è stata la «Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della giustificazione» che nel 1999 superò secoli di dispute teologiche. Resta memorabile il gesto di Benedetto XVI a Erfurt, il 23 settembre 2011, nella chiesa dell’ex convento degli agostiniani dove Lutero si formò dal 1505 al 1511: l’elogio di Lutero e della sua «passione profonda, molla della sua vita e dell’intero suo cammino» per «la questione su Dio» e le considerazioni di Ratzinger sul «pensiero» e la «spiritualità del tutto cristocentrica» del padre della Riforma, «la sua scottante domanda: come mi trovo davanti a Dio?, deve diventare di nuovo, e certo in forma nuova, anche la nostra domanda». Il cammino è ancora lungo. Ma non a caso l’annuncio è arrivato, ieri, alla fine della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. «Mentre siamo in cammino verso la piena comunione tra noi, possiamo già sviluppare molteplici forme di collaborazione per favorire la diffusione del Vangelo. E camminando e lavorando insieme, ci rendiamo conto che siamo già uniti nel nome del Signore», ha detto ieri Francesco durante i Vespri celebrati nella basilica di San Paolo fuori le Mura con i rappresentanti delle altre confessioni cristiane. Francesco, la sera dell’elezione nella Sistina, si presentò come vescovo della Chiesa di Roma «che presiede nella carità tutte le Chiese»: una citazione di Ignazio di Antiochia, Padre della Chiesa indivisa del II secolo, come segnale a tutti i cristiani.
Le parole di Bergoglio hanno richiamato ieri sera i mea culpa di Wojtyla: «In questo Anno giubilare straordinario della Misericordia, teniamo ben presente che non può esserci autentica ricerca dell’unità dei cristiani senza un pieno affidarsi alla misericordia del Padre. Chiediamo anzitutto perdono per il peccato delle nostre divisioni, una ferita aperta nel Corpo di Cristo. Come vescovo di Roma e pastore della Chiesa cattolica, voglio invocare misericordia e perdono per i comportamenti non evangelici tenuti da parte di cattolici nei confronti di cristiani di altre Chiese. Allo stesso tempo, invito tutti i fratelli e le sorelle cattolici a perdonare se, oggi o in passato, hanno subito offese da altri cristiani». Il Papa ha concluso: «Non possiamo cancellare ciò che è stato, ma non vogliamo permettere che il peso delle colpe passate continui a inquinare i nostri rapporti. La misericordia di Dio rinnoverà le nostre relazioni».

Corriere 26.1.16
Da Carlo V al Vaticano II Il dilemma su opere e fede
di Giuseppe Galasso

È difficile non percepire il rilievo storico della partecipazione di papa Francesco all’avvio nel prossimo ottobre, a Lund, delle celebrazioni in vista del cinquecentesimo anniversario di quell’affissione delle 95 Tesi di Lutero alla porta della chiesa del castello di Wittenberg (31 ottobre 1517), che è stata da sempre assunta come data di nascita della Riforma protestante.
Molti colloqui tra protestanti e cattolici vi furono nei primissimi tempi della Riforma, e puntò le sue carte su una loro conciliazione Carlo V come sovrano del Sacro romano impero. Nel 1541 si tenne l’incontro sostanzialmente decisivo di questi ripetuti tentativi. Vi fu presente per i cattolici il cardinale Gasparo Contarini, noto esponente dell’ala moderata della Curia romana. Da parte protestante vi parteciparono Filippo Melantone e Martin Bucer, personalità eminenti del campo opposto. L’incontro si arenò del tutto sulla questione della Dottrina della giustificazione del cristiano (solo per la fede, come per Lutero, o per la fede e per le opere, come per la Chiesa cattolica?), che implicava quella del ruolo della Chiesa nella vita dei fedeli e nel mondo, nonché quella della posizione e del ruolo del papa nella Chiesa.
In seguito il solco tra cattolici e protestanti si fece molto più largo e profondo di quanto si sarebbe mai potuto pensare fra credenti che si rifacevano tutti al nome e alla parola del Cristo, con conseguenze sanguinose e devastanti nella storia d’Europa e all’interno di ciascuna delle due confessioni cristiane, di cui l’una considerava l’altra come l’impero del male.
Tranne poche eccezioni, un diverso orizzonte si aprì solo col Concilio Vaticano II e con i papi Giovanni XXIII e Paolo VI. Dal Concilio uscì una dottrina dell’ecumenismo come dimensione essenziale della condizione di una vera confessione cristiana, cui si accompagnò pure l’istituzione di un Segretariato vaticano per la ricerca dell’unità fra i cristiani. Sono due prospettive diverse. L’ecumenismo va molto oltre i confini tra i cristiani e abbraccia tutte le altre maggiori religioni. Quanto a protestanti e cattolici, si è svolto dopo il Concilio un lavoro intensissimo, che giunse nel 1999 a una dichiarazione congiunta sul punto dottrinario di maggiore contrasto, quello della giustificazione. Il documento è, peraltro, più una registrazione sinottica delle due diverse posizioni che una loro effettiva mediazione. Nel frattempo si sono moltiplicate le cerimonie comuni, le concelebrazioni, gli incontri e le altre iniziative che attestano il grande miglioramento del clima dei rapporti fra le due confessioni.
La presenza del Papa a Lund — una novità assoluta, si dica pure gigantesca, del tutto imprevedibile fino a ieri — potrà significare o portare a qualcosa di diverso? Il peso di un passato non casuale né immotivato rende difficile pensare a una totale vanificazione di contrasti di idee che ebbero ragioni profonde e per nulla pretestuose. Ma neppure si pensava che dal Concilio Vaticano II si giungesse fin dove ora si è giunti. Il passato ammonisce anche, infatti, a essere molto prudenti nelle previsioni.

Corriere 26.1.16Squinzi, l’udienza da papa Francesco con settemila imprenditori

Settemila imprenditori italiani ad ascoltare le parole di papa Francesco. La macchina organizzativa si è in messa pienamente in moto per realizzare al meglio un evento che non ha precedenti: la Confindustria porterà un’amplissima rappresentanza dei suoi iscritti ad ascoltare le parole del Santo Padre in un’udienza ad hoc che si terrà nella Sala Nervi. Gli organizzatori ne parlano come di un piccolo «Giubileo dell’industria», che avrà il suo momento clou proprio nell’appuntamento con papa Francesco nella mattinata di sabato 27 febbraio, ma che prevede anche altri momenti di riflessione. Tra cui un importante convegno sui temi dell’etica dell’impresa (titolo: «Fare insieme») che si aprirà il giorno prima e alla cui preparazione sta lavorando un gruppo di economisti tra i quali il professor Alberto Quadrio Curzio.
Con la due giorni romano-vaticana si avvia a conclusione il mandato presidenziale di Giorgio Squinzi, un imprenditore di profonda cultura cattolica e che con la sua Mapei negli anni non ha fatto mancare un aiuto materiale alla Chiesa. Come nel caso del restauro conservativo della Basilica di S.Ambrogio a Milano. Ci sarà tempo per un bilancio dei quattro anni di Squinzi alla guida degli industriali italiani ma la sua uscita di scena - formalmente prevista per l’assemblea di maggio - avviene sotto il segno di un omaggio al nuovo pontificato e alla straordinaria figura di papa Francesco. Una scelta tutt’altro che scontata.
In attesa dell’udienza vaticana c’è però un’altra macchina organizzativa che sta muovendo i primi passi in Confindustria, quella che dovrà portare alla scelta del successore di Squinzi. Giovedì 28 gennaio verranno nominati i saggi - con l’inedito utilizzo del sorteggio all’interno di una rosa predefinita - che dovranno condurre le consultazioni delle strutture territoriali e di categoria per arrivare al 17 marzo, giorno in cui sarà votato il prossimo presidente di Confindustria. Il quadro della candidature ancora non è definito ma è questione solo di giorni.

Corriere 26.1.16
Cara agli uomini più che ai teologi
Il culto di Maria resiste al tempo
di Ranieri Polese

Come uscire dal lungo Inverno mariano, dal grande freddo che ha colpito, nella stessa Chiesa cattolica, il culto della Vergine Maria e che ha messo tra parentesi la devozione per la Madre di Gesù? Questa domanda è un po’ il filo conduttore degli oltre 60 capitoli di Ipotesi su Maria di Vittorio Messori, il volume, edito da Ares, che è la nuova edizione ampliata del libro uscito sempre da Ares dieci anni fa. Nasceva, allora, il libro come raccolta dei Taccuini mariani scritti da Messori per il mensile «Jesus». Terminata la collaborazione con la rivista, Messori non ha smesso di interessarsi alla questione mariana, come testimoniano anche i recenti libri o gli articoli del «Corriere». Un interesse che si accompagna con la polemica: il bersaglio è quello che Messori chiama il «teologicamente corretto», cioè i «cattolici adulti» per niente in sintonia con gli ultimi due dogmi (l’Immacolata concezione, 1854; l’Assunzione, 1950) e scettici verso la devozione popolare, specie riguardo alle apparizioni mariane, ai miracoli, alle guarigioni.
Alla base di questa posizione critica, Messori vede «un contagio protestante». Cioè la volontà di conformarsi al pensiero dei teologi riformati nell’idea — per Messori falsa — di conciliare religione e modernità. Le Chiese riformate, come è noto, oltre a condannare la venerazione dei santi come paganesimo, non solo rifiutano i dogmi dell’Immacolata e dell’Assunzione, ma considerano il culto di Maria una sorta di pericolosa idolatria. Del resto — in Ipotesi su Maria la citazione ritorna spesso — il più importante teologo protestante, Karl Barth, definiva la mariologia «escrescenza tumorale del cattolicesimo». Ma il neoprotestantesimo diffuso fra i cattolici all’indomani del Concilio Vaticano II ha, per Messori, anche il difetto di arrivare a tempo scaduto, quando cioè «le comunità protestanti storiche sono morenti, fornite di cattedre universitarie ma quasi del tutto prive di popolo».
Parla, Messori, da «cattolico normale», libero dai complessi di inferiorità. È un credente, ma conosce e discute le idee dei critici che rileggono i testi evangelici alla luce della scienza e distinguono il Cristo storico dal Cristo della fede. In polemica con i protestanti, lui non considera solo la Scrittura, ma anche la tradizione importantissima proprio per quanto riguarda Maria. Parla a nome dei «semplici cattolici attardati, legati ancora a miti e favole che la scienza ha dissolto».
Per questo, interessato a ritrovare il calore della fede popolare (la vecchina che recita il rosario), dedica gran parte delle sue pagine alle apparizioni e ai santuari sorti dove la Vergine si è manifestata. Lourdes, Fatima, ma anche la parigina Rue du Bac (qui la Madonna parlò a Catherine Labouré nel 1830, chiedendole di far forgiare una medaglia con la sua immagine e dodici stelle), La Salette, Saragozza, dove si venera la Madonna del Pilar (a un suo famoso miracolo Messori ha dedicato un libro). Santuari che la Chiesa ha riconosciuto, anche se recentemente — prima e dopo Medjugorje — si moltiplicano le apparizioni su cui la Chiesa non si è ancora pronunciata.
In tutti questi luoghi, osserva Messori, coloro che vedono la Madonna sono persone umili, i pastori di Fatima, la poverissima Bernadette: a volte sono semianalfabeti. Ma dove la sociologia vede allucinazioni provocate dal disagio, Messori vede la conferma del versetto in cui Gesù dice: «Ti benedico Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli».
Su Lourdes Messori si sofferma a lungo. Ripercorre la storia delle apparizioni (1858) e delle critiche che comunque non hanno scalfito la reputazione del santuario, dedica molte pagine alla figura di Bernadette Soubirous e al crescente numero di pellegrini che fin da subito si recarono alla grotta dei Pirenei nonostante l’ostilità delle autorità e dell’opinione pubblica francese, anticlericale e incline a leggere quei fatti come visioni di una povera isterica. Spiega la complessa procedura per riconoscere un miracolo (ufficialmente sono 65), senza dimenticare le migliaia di guarigioni attestate, anche se non rientrano nel numero ristretto di avvenimenti inspiegabili scientificamente. Ci parla di Fatima (1917), dei tre pastori, del miracolo del sole che danza, dei tre segreti l’ultimo dei quali — un’allusione all’attentato al Papa — fu rivelato proprio a Giovanni Paolo II, sopravvissuto ai colpi sparati da Ali Agca. Ci sono poi altri santuari, piccoli e non, luoghi dove andare non solo per chiedere una grazia, ma per compiere un’esperienza che in qualche modo ci invita alla preghiera, a una sorta di guarigione interiore.
Da una ricerca sulla religiosità degli italiani realizzata dall’Università Cattolica di Milano con il sostegno della Cei (l’ha pubblicata Mondadori nel 1995) su un campione di 4.500 italiani, fra i 18 e i 74 anni, in 166 comuni della penisola, risulta che il 55,7 per cento degli interpellati ritiene che le apparizioni della Madonna a Lourdes e Fatima «sono segni della presenza di Dio in mezzo agli uomini», mentre il 29,4 si dichiara incerto, ma possibilista. Se si confrontano questi dati con le risposte ad altri quesiti (la resurrezione dei morti: solo il 27,5 per cento ci crede; la Chiesa cattolica è un’organizzazione voluta e assistita da Dio: il 41,5 dice sì), non si può non vedere l’importanza del culto mariano nella popolazione italiana. Del resto, sempre la stessa indagine ci dice che il 46,8 per cento degli italiani nelle sue preghiere si rivolge alla Madonna, e solo il 38,2 a Cristo. Da qui, dunque, parte il «suggerimento pastorale» di Messori alla Chiesa: «Perché non far leva proprio sulla straordinaria fiducia che la gente (giovani compresi) ripone nella verità di luoghi come Fatima e Lourdes? Perché non partire da lì per una rievangelizzazione che potremmo dire “deduttiva”: dalla realtà di quei fatti, cioè, alle verità di fede che presuppongono e che confermano ?».

Repubblica 26.1.16
La dottrina e il senso comune
risponde Corrado Augias

CARO AUGIAS, il Papa dice che non bisogna confondere il matrimonio voluto da Dio con altri tipi di unione. Una dichiarazione ovvia, ma deve essere chiara la tutela della pari dignità dell’affettività espressa in entrambe le relazioni. In questa tormentata vicenda delle unioni civili la posta in palio è l’uguaglianza affettiva, da sempre osteggiata dal Vaticano. È necessaria una legge che tuteli chi vuole un rapporto stabile con un’altra persona, e che abbia effetti giuridici nei confronti dell’intera comunità nazionale. Ed è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini (art. 3 Costituzione). In questo percorso civile verso la “omodignità”, il Papa parla alle coscienze e per quanto mi riguarda — da credente — dissento dall’invito a non concedere uguaglianza alle coppie omosessuali. Cristo era laico, perché superava i divieti religiosi nel nome della suprema dignità degli uomini. I poveri, le prostitute, i lebbrosi e tutti gli intoccabili per decreto religioso erano i suoi compagni e commensali. Preferisco Cristo al Vaticano. La dignità di tutti, a quella di alcuni. Il Papa faccia il Papa. Il Parlamento italiano faccia il Parlamento italiano.
Massimo Marnetto — massimo.marnetto@gmail.com
LA DICHIARAZIONE del Papa contro le unioni civili di fronte al tribunale rotale, espressa con discrezione ma in un delicatissimo momento di scontro, conferma altri precedenti segnali. Francesco ha piena libertà in campo sociale; ne ha assai meno in campo dottrinale dove – infatti - non ha introdotto innovazioni che non siano quelle di una visione meno cupa della religiosità cristiana. Siamo lontani dalle prime audaci manifestazioni («chi sono io per giudicare?») che tanta ostilità hanno suscitato nella curia. Mi ha scritto il signor Roberto Bertuzzi (bertuzzi. roberto@hotmail. com): «I bambini vogliono amore, vogliono sentirsi al sicuro. Sono cresciuto in orfanotrofio, ero definito tanto tempo fa, figlio di N.N. e in alcuni collegi ero identificato da un numero. Non Roberto Bertuzzi ma il numero 294. A codesti cattolici, chiedo di avere più rispetto per i sentimenti degli altri. Non possono decidere loro cosa è giusto e cosa non lo è - ho avuto nei collegi cattolici esperienze sulle quali è meglio sorvolare». A proposito del cd. utero in affitto mi ha scritto la signora Loredana Ferencich (ugo.loredana@libero.it): «Ritengo che possa essere un gesto di solidarietà umana, e di profonda generosità, offrire il proprio corpo per consentire la nascita di un bambino, quindi la gioia di essere genitore a chi lo desidera e non può fare diversamente. Nel pieno ed esclusivo interesse del nascituro e della sua futura famiglia, chi ha diritto di impedirmi di fare liberamente questa scelta?». Appena si scende dalle astratte questioni di principio alla vita delle persone, si vede di che cosa sia fatta in concreto la materia in discussione: gioie e sofferenze, delusioni e speranze. Con quale legittimità un gruppo di anziani signori celibi che alla famiglia hanno volutamente rinunciato vorrebbe impedire agli altri di averne invece una? È qui il vero problema di coscienza.

Repubblica 26.1.16
Libia
Una giungla di bande e tribù serve un’alleanza con i libici per sconfiggere i jihadisti
Non è più tanto in discussione se intervenire o meno in Libia. Il problema che si pone è quando e come
Un intervento militare straniero potrebbe aumentare il caos ed è temuto dalle grandi società petrolifere Ma ormai il problema che si pone è solo il “quando” e il “come”
di Bernardo Valli

NON è più tanto in discussione se intervenire o meno in Libia. Il problema che si pone è quando e come. I militari della coalizione impegnata contro lo Stato islamico in Iraq e in Iran ormai da tempo ispezionano il terreno e valutano le forze da affrontare. Il generale Joseph F. Dunford, capo di stato maggiore americano, è stato esplicito: Barack Obama gli ha dato l’ autorizzazione ad agire. E la concertazione con gli alleati inglesi, francesi e italiani ha occupato l’intera scorsa settimana nelle varie capitali. Le ricognizioni clandestine, compiute da tempo, hanno consentito di stimare la presenza jihadista di Daesh (acronimo di Stato islamico) una minaccia crescente e senz’altro la più grave a ridosso dell’Europa. I terroristi sarebbero circa tremila e sarebbero in aumento da quando la Turchia rende più difficile il passaggio del confine ai volontari diretti in Siria e in Iraq, e quindi la Libia è diventata una spiaggia più raggiungibile. L’accesso dall’Africa subsahariana non presenta seri ostacoli. Lo Stato islamico ha già il controllo su quasi duemila chilometri di costa mediterranea, con Sirte, la città di Gheddafi, come capitale.
Uno dei comandanti è Abu Ali al-Anbari, un iracheno un tempo ufficiale dell’esercito di Saddam Hussein. Anbari è arrivato dal Mediterraneo con una nave da crociera. Un altro capo conosciuto per le sue imprese in Medio Oriente, il siriano Abu Omar, occupa un posto di rilievo nella gerarchia militare della Sirte. Sempre secondo la Cia, Abu Nabil, un altro capo arrivato in Libia dalla Valle dell’Eufrate è stato ucciso durante un bombardamento americano. L’organizzazione militare jihadista si sta estendendo rapidamente. La conclusione del generale Dunford, venerdì scorso di passaggio a Parigi, è che non c’ è tempo da perdere.
Ma l’azione militare deve avere l’autorizzazione del nuovo governo libico di unione nazionale, formato in dicembre in Marocco con l’accordo dell’Onu. E quel governo è stato bocciato ieri dal Parlamento di Tobruk che lo ha giudicato troppo numeroso (32 membri; quindi il primo ministro, Fayez el Sarraj, ha adesso una settimana di tempo per presentarne un altro più smilzo. Ma oltre al carattere pletorico del nuovo governo non andrebbe a genio ai deputati di Tobruk l’articolo dell’accordo raggiunto in Marocco secondo il quale sarebbero affidate a Serraj le funzioni di capo supremo dell’esercito libico. Il generale Khalifa Haftar che ha le sue milizie non è d’ accordo. E Haftar è potente. È uno degli avversari più efficaci dello Stato islamico.
L’operazione libica si presenta complessa perché il paese è una giungla di tribù e di gruppi autonomi armati. Un intervento militare straniero potrebbe aumentare il caos. Invece di raccogliere, di unire le forze contro lo Stato islamico potrebbe provocare un rigetto dell’invasore straniero e infedele, e favorire gli islamici. O frantumare ancora di più il mosaico tribale o dei clan intensificando le rivalità. Non a caso le società petrolifere occidentali, che operano grazie ad alleanze con i vari gruppi armati, ai quali versano gli “affitti” dei pozzi di estrazione e delle pipelines dirette al mare, sono scettiche o contrarie a un intervento militare occidentale. Sono invece in favore di un’azione diplomatica paziente che cerchi di ricucire il paese lacerato.
Nessun paese della coalizione pare comunque disposto a inviare corpi di spedizione. La tattica da adottare resta ovviamente segreta. Ma le guerre asimmetriche hanno insegnato che un esercito tradizionale riesce a spuntarla raramente nel confronto con bande armate che alimentano una guerriglia, che attaccano e fuggono, favorite dal terreno e dalla popolazione. La coalizione che si prepara punta quindi sulle incursioni aeree e su rapide operazioni di commando. Le quali avranno difficilmente risultati positivi in tempi rapidi senza un’ azione politica parallela.
Il panorama politico libico è frastagliato. Oggi esistono di fatto tre principali autorità, se si escludono lo Stato islamico e i piccoli o medi gruppi armati che agiscono spesso autonomamente. C’è un governo di salvezza nazionale, un governo libico provvisorio e un governo di unione nazionale. Quest’ultimo, formato il 19 gennaio, e appena bocciato dal Parlamento di Tobruk, opera da Tunisi ed è presieduto da Fayez el-Serray, uomo d’affari tripolitano. Esso dovrebbe rappresentare un certo numero di regioni del paese in frantumi. Col tempo dovrebbe insediarsi a Tripoli. Dove però c’ è il governo di salvezza nazionale, appoggiato da milizie spesso islamiste poco disposte a cedere il posto. Il terzo governo, quello provvisorio di Baida, quando il parlamento di Tobruk avrà legittimato il governo di unione nazionale, potrà rinunciare al suo ruolo.
Gli avvenimenti del 2011, che portarono alla fine del regime di Gheddafi, hanno sollevato polemiche. Molti rimpiangono il defunto, folle raìs, sostenendo che lui sapeva tenere unito il paese. In realtà quando l’aviazione anglofrancese aiutò i ribelli la secessione della Cirenaica era già un fatto compiuto e il regime si stava sfaldando, sotto l’influenza delle “primavere” d’Egitto e di Tunisia. L’ errore fu nel non guidare la transizione. Per la storia e la geografia l’Italia potrà difficilmente sottrarsi all’impegno che sembra profilarsi. Se non si presenteranno altre scelte, il solo suggerimento è quello di agire insieme ai libici alleati, e il più possibile attraverso un’azione politica. Ma i rischi restano inevitabili.

Repubblica 26.1.16
La Cassazione: “Stop al sistema di difesa Usa”
La Cassazione lascia sotto sequestro l’impianto satellitare statunitense a Niscemi
di Alessandra Ziniti

PALERMO. Il “timing” fissato dal Pentagono prevedeva l’entrata in funzione del nuovo sistema integrato operativo di comunicazioni satellitari nel 2017 ma adesso lo stop della Cassazione alla stazione di Niscemi rischia di far saltare definitivamente lo strumento strategico per le comunicazioni delle forze militari americane e dei loro alleati. L’unica base del Muos non ancora operativa (le altre tre sono in Virginia, alle Hawaii e in Australia), ospitata in Sicilia in una base dell’Us Navy all’interno della Sughereta di Niscemi, è abusiva, realizzata in una zona protetta da vincolo paesaggistico e di inedificabilità assoluta. Questo il verdetto della Cassazione che, respingendo il ricorso presentato dall’Avvocatura dello Stato per conto del ministero della Difesa, ha confermato il provvedimento di sequestro disposto ad aprile dal procuratore di Caltagirone Giuseppe Verzera che sta indagando anche sull’impatto delle tre enormi parabole dal diametro di 18 metri sulla salute dei cittadini preoccupati dalla vicinanza del sito che dista solo una manciata di chilometri dall’abitato di Niscemi.
Il procedimento penale aperto dalla Procura di Caltagirone, che vede anche diversi indagati tra i responsabili dell’iter autorizzativo del Muos, sembra troncare il braccio di ferro in corso da tempo davanti alla giustizia amministrativa tra i comitati No Muos e il Comune di Niscemi da una parte e il ministero della Difesa dall’altra. A disporre per primo il blocco dei lavori nella base di Niscemi era stato a febbraio il Tar di Palermo che, accogliendo l’istanza dei comitati preoccupati per le conseguenze delle possibili emissioni nocive delle parabole, aveva annullato le autorizzazioni concesse in precedenza alle autorità americane dalla Regione Siciliana. Una decisione sulla quale è ancora pendente un ricorso al Consiglio di giustizia amministrativo.
E irrisolto resta il rebus sulle verifiche dell’impatto dell’impianto sulla salute dei cittadini in mancanza delle quali il prefetto di Caltanissetta Maria Teresa Cucinotta ha, nei giorni scorsi, bloccato i test sulle rilevazioni elettromagnetiche. Gli americani sostengono che il Muos non è un radar, le parabole sono puntate verso l’alto e le emissioni non superano i 200 watt e dunque sono perfettamente entro i limiti previsti dalle legislazioni italiana e americana ma in Italia l’annunciato sistema di monitoraggio permanente da parte dell’Arpa non è mai stato montato e nessuno è in grado di dire se e quanto le emissioni di quelle parabole potrebbero essere dannose per la popolazione.

La Stampa 26.1.16
Timori del Pd sulle adozioni
Se non passano c’è un piano B
L’idea: reintrodurre la stepchild alla Camera
di Ilario Lombardo

A 24 ore dall’approdo in aula delle unioni civili, e a quattro giorni dal Family Day, le certezze si trasformano in dubbi e paure. Dietro l’ottimismo di facciata di molte dichiarazioni, all’interno del Pd è forte la preoccupazione che l’articolo più delicato della legge, il numero 5, quello sulla stepchild adoption, possa essere affossato durante il voto a scrutinio segreto. Per questo, in una prospettiva pessimistica, sarebbe già pronto un piano B, sul quale sono informati anche il ministro Maria Elena Boschi e il premier Matteo Renzi. Mettiamo che la maggioranza vada sotto sulle adozioni e il testo esca monco dal Senato: alla Camera, dove ci sono i numeri per votare qualsiasi cosa, verrebbe reinserita la stepchild costringendo così il ddl, nuovamente modificato, a tornare in Senato. Ad agosto era stato il premier a chiedere che le unioni civili venissero votate in un testo blindato dai soli senatori, in modo da poter accelerare l’approvazione finale – in una sorta di ratifica - a Montecitorio. Da qui è nata l’idea della «bicameralina» Pd, per coinvolgere anche i deputati dem nei lavori.
Adesso, invece, se si realizzasse lo scenario peggiore, le modifiche alla Camera servirebbero a neutralizzare le intenzioni della fronda cattodem che sulle adozioni spinge per lo stralcio. Assecondare le posizioni più conservatrici, a ridosso del voto alle amministrative, e nel pieno dell’«anno dei diritti», come Renzi ha battezzato il 2016, scoprirebbe il partito a sinistra, e darebbe ancora più fiato al M5S. Nelle prossime ore di mediazione si tenterà il tutto e per tutto. Dopo l’ultima riunione della commissione informale del Pd, oggi è previsto l’incontro (e forse il voto) dei senatori per compattare il gruppo sull’impianto della legge. L’orientamento resta quello di arrivare in aula con la stepchild rinforzata dagli emendamenti di Beppe Lumia che prevedono maggiore chiarezza sul ruolo del Tribunale dei minori e l’eliminazione di qualsiasi elemento che possa equiparare le unioni gay al matrimonio.
Ai cattolici non basta e tentano l’affondo con un’ultima offerta. È l’emendamento di Giorgio Pagliari, avvocato e professore di Diritto amministrativo: un affido di due anni prima dell’adozione. Altra opzione: concederla solo a chi ha avuto una convivenza di almeno tre anni. Secondo i tecnici del Senato, entrambe le ipotesi conterrebbero profili di incostituzionalità, per diverso trattamento delle coppie e perché rischierebbe di creare differenze tra i figli.
Le parole di ieri del presidente della Cei Angelo Bagnasco e la previsione di una grande partecipazione al Family Day, hanno comunque dato nuovo coraggio agli oppositori della legge. Difficile che giovedì passino le pregiudiziali con cui Lega, Ncd e Forza Italia proveranno a fermare il testo. E di fronte alla minaccia di un «canguro», per preservare il dibattito, potrebbero essere sfoltiti i 6 mila emendamenti. Sono piuttosto le insidie del voto segreto a spaventare il Pd e le associazioni Lgbt, al punto che l’Arcigay ha lanciato al campagna «Mettici la faccia» per chiedere lo scrutinio palese, ed evitare che si consumi la resa dei conti tra i partiti (osservati speciali i grillini). Il ddl Cirinnà passa soltanto se regge l’asse tra Pd, M5S e Gruppo Misto, magari con l’aiuto dei verdiniani e di qualche senatore di FI. Servono 161 sì. Tra i dem si parla di 162-165 favorevoli, ma meglio restare prudenti e non azzardare cifre ufficiali.

Repubblica 26.1.16
Pre-affido prima dell’adozione e “abiura” dell’utero in affitto Pd spaccato dai paletti cattolici
Senatori dem oggi in assemblea, con due nuovi emendamenti il fronte anti-Cirinnà tenta di evitare “la follia di consegnarci ai 5Stelle”. Ma l’accordo sembra sempre più lontano
di Goffredo De Marchis

Preaffido di due anni prima dell’adozione e dichiarazione giurata di non aver fatto ricorso all’utero in affitto. I cattolici del Pd si aggrappano a una coppia di emendamenti per salvare l’unità del partito o sarebbe meglio dire, per non arrivare a uno scontro frontale. Sta crescendo la tensione nel gruppo dem. Il dialogante Alfredo Bazoli dice che la «mediazione» legata alle due proposte è «il minimo sindacale. Ora devono fare uno sforzo anche gli altri». Poi aggiunge: «Mi sembra folle consegnarsi ai 5stelle e sento nel mondo Pd un rigurgito di intolleranza verso noi cattolici. Ai limiti dell’idiosincrasia».
Quello di Bazoli è lo sfogo serale che giunge al termine di una giornata di incontri e di tentativi d’intesa andati a vuoto. Alla vigilia del voto sulle pregiudiziali di costituzionalità (giovedì) e del Family day (sabato), le posizioni si sono irrigidite anziché ammorbidirsi. Stamattina l’assemblea dei senatori Pd potrebbe sancire la spaccatura, malgrado la garanzia della libertà di coscienza sui temi più spinosi a partire dalla stepchild adoption. C’è davvero il rischio di una radicalizzazione, dopo mesi di confronto invece molto civile, alla luce del sole, con l’accordo sulla necessità di riconoscere le coppie gay condiviso in maniera trasversale.
Walter Verini, laico favorevole ai matrimoni omosessuali, aveva immaginato questo esito e anche lui invita a valutare con attenzione i due emendamenti di compromesso. Li hanno presentati uno il cattolico Pagliari e il renzianissimo Marcucci e l’altro l’ex Pci Chiti. Il primo autorizza l’adozione del figliastro solo «dopo una verifica del giudice all’esito del biennio di affidamento precedentemente disposto ». Insomma, ci vuole il preaffido prima della stepchild. Il secondo prevede «un’apposita dichiarazione sostitutiva di atto notorio del genitore parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, che attesti che il figlio è nato senza il ricorso a tecniche riproduttive vietate dall’ordinamento giuridico italiano».
Per i “cattodem” sono gli strumenti per disinnescare la mina, non dipendere soltanto dai 5stelle e evitare lo scontro interno. Gli unici strumenti, cioè, per avere 30 voti sicuri sul provvedimento. Ma i sostenitori del ddl Cirinnà non accettano il compromesso anche perché il timore è lo stesso espresso qualche giorno fa dal ministro Maria Elena Boschi. «Certo, che sono preoccupata per i numeri - diceva la Boschi -. Se tiro la coperta da una parte posso perdere una serie di voti che non sono sicura di recuperare dall’altra». Tradotto: i voti grillini sono quelli persi e i voti centristi sono quelli non garantiti anche con la mediazione. Ivan Scalfarotto, sottosegretario alle Riforme, non usa toni accesi ma considera le modifiche non risolutive e alla fine difficilmente accettabili. Monica Cirinnà sentenzia, alla fine della giornata: «Non esiste nessuna mediazione ».
In realtà, il Pd ha disinnescato (teoricamente) l’equiparazione con il matrimonio. Alcuni emendamenti firmati Lumia eliminano 13 riferimenti al codice civile nella parte che regola le nozze. È la base di partenza sulla quale cattolici e non cattolici avvieranno il confronto di stamane in assemblea. Lumia ha presentato anche una proposta sulla stepchild adoption che rafforza il potere del giudice al momento della decisione. Ma qui cominciano i guai. «Quel testo è una presa in giro — avverte Bazoli — . Non cambia nulla, ho consigliato di toglierlo di mezzo. Invece è vero che l’opera di ripulitura dei primi articoli c’è stata. Anche grazie a noi».
Giovedì si votano le pregiudiziali di costituzionalità. A scrutinio palese. Sarà la prima prova dell’asse Pd-5stelle. Il problema è che le varie controprove si consumeranno nei voti segreti. E nessuno nel Pd può scommettere sul fatto che lo strappo dei 30 cattodem venga compensato dai grillini. Molti nel Partito democratico si chiedono ancora: «Perché dovrebbero farci questo gigantesco regalo? Cosa gliene viene da un successo storico del Pd?». È la domanda che assilla la cabina di comando di Palazzo Chigi: Renzi, Boschi e Lotti. In attesa di testare anche l’effetto della piazza di sabato.

Repubblica 26.1.16
Il compromesso impossibile
Il voto segreto previsto al Senato per il ddl sulle unioni civili si presenta come una scommessa al buio per Renzi
di Stefano Folli

IL nuovo intervento di Bagnasco, molto duro nei toni, segna il progressivo avvicinamento dei cattolici (o meglio, di una parte del mondo cattolico) al Family Day, sabato prossimo. Non c’è la volontà di rialzare i vecchi steccati fra il mondo laico e quello cattolico; e certo questa intenzione era assente l’altro giorno nelle parole del Papa. Tuttavia il crescente attivismo del presidente della Cei contribuisce a rendere improbabile qualsiasi compromesso di sostanza in Parlamento sul ddl Cirinnà.
LE posizioni si vanno irrigidendo e gli spazi per un accordo si esauriscono: resta l’ipotesi di ridurre la massa degli emendamenti, ma anche qui non c’è nulla di certo. Se il confronto si radicalizza, chi è a favore delle unioni civili tenderà a vederle come uno strumento per introdurre di fatto nell’ordinamento una forma di matrimonio gay, compreso il diritto di adozione. Viceversa, chi è contrario o dubbioso trova nell’intervento dei vescovi (non tutti, per la verità) l’incoraggiamento a persistere nel “no”. Di conseguenza i voti segreti previsti al Senato si presentano come una scommessa al buio. È chiaro che la maggioranza che sostiene il governo è destinata a sfaldarsi, a cominciare dal voto contrario dei centristi di Alfano. Ma i veri quesiti da porsi sono due. Primo, la spaccatura nella coalizione e probabilmente nello stesso Pd avrà riflessi sulla stabilità del governo? Secondo, la legge sulle unioni civili riuscirà a passare nonostante tutto?
Circa il primo punto, la risposta è negativa. Finora l’operazione politica condotta dietro le quinte dal presidente del Consiglio e dal ministro dell’Interno consiste proprio nello sterilizzare gli effetti del voto sugli equilibri di governo. È un po’ come camminare su una fune sottile sospesa nel vuoto, ma l’intesa regge ed è piuttosto chiara nei suoi risvolti. Area Popolare voterà “no” alla legge, ma eviterà di trasferire il suo malcontento su Palazzo Chigi. A sua volta Renzi tiene un profilo basso per non inasprire gli animi e soprattutto per non mettere in ulteriore difficoltà l’alleato Alfano. Del resto, per il premier c’è anche e forse soprattutto un problema di consenso.
Nel paese chi vota il “partito di Renzi” è a favore dei diritti individuali. Ma la questione delle unioni omosessuali, e in particolare il delicato tema delle adozioni, attraversa le coscienze in modi imprevedibili. Persino fra chi ha forti dubbi sulla legge Cirinnà ci sono numerosi, potenziali elettori renziani. Come ce ne sono molti che oggi sono attenti alle parole del Papa, più che a quelle del presidente dei vescovi. Per un politico che si pone in misura prioritaria la ricerca del consenso, è fondamentale non incrinare la propria immagine di riformatore, ma lo è altrettanto impedire strappi, non dividere il paese su temi che hanno notevole impatto etico e toccano diverse sensibilità umane e religiose. È probabile peraltro che Renzi sia soddisfatto per l’uscita della presidente della Camera, Laura Boldrini, favorevole senza mezzi termini alle adozioni nelle coppie omosessuali. Avere qualcuno più a sinistra di lui, si potrebbe dire, è utile nel momento in cui l’obiettivo è a portata di mano, ma occorre guardarsi dai passi falsi.
E infatti, alla domanda se la legge sarà approvata nonostante i trabocchetti e le resistenze, occorre rispondere “probabilmente sì”. In fondo, questa volta il voto segreto può favorire e non danneggiare la maggioranza. Nell’urna possono arrivare voti trasversali, al di là degli annunci mediatici dei partiti d’opposizione. Sono in tanti a essere convinti che l’Italia deve comunque darsi una legislazione sulle unioni civili in linea con i maggiori paesi europei. Si parla molto dei Cinquestelle e di qualche loro possibile apporto. Ma anche all’interno di Forza Italia ci sono voci favorevoli. Nel voto segreto Renzi perderà i cattolici più intransigenti — e solo quelli — ma dovrebbe colmare i vuoti (con un punto interrogativo sulle adozioni). Senza nemmeno bisogno di rendere indispensabile Denis Verdini per la seconda volta in poche settimane.

La Stampa 26.1.16
Le maggioranze variabili per il via libera alla nuova legge
di Marcello Sorgi

Dopo l’intervento del Papa di venerdì, era abbastanza difficile che l’assemblea dei vescovi riunita ieri potesse aggiungere qualcosa in materia di unioni civili. E infatti il presidente della Cei, cardinale Bagnasco, s’è limitato a ripercorrere le parole di Francesco, talvolta citandole tra virgolette, e ribadendo, senza esplicito riferimento alla legge in discussione al Senato, che la Chiesa vuole evitare confusioni tra la famiglia formata da un uomo e una donna e altri tipi di unione.
Un atteggiamento prudente legato anche al tentativo, che si sta svolgendo in extremis a Palazzo Madama, di arrivare a una formulazione degli emendamenti al testo che consentano di limitare al massimo il dissenso cattolico, e approvare una legge che riconosca i diritti civili anche delle coppie omosessuali, evitando l’aggancio alla disciplina del matrimonio.
C’è però un ostacolo politico al compromesso che aiuterebbe il Pd a recuperare il dissenso interno e Renzi a evitare di spaccare la maggioranza che sostiene il governo, all’interno della quale il Nuovo centrodestra è schierato contro l’attuale formulazione della proposta di legge della senatrice Cirinnà: le unioni civili hanno molta più probabilità di passare con un’intesa tra Pd (anche se non tutto), Sel e Movimento 5 stelle, che non con la maggioranza stretta del governo e con l’aiuto del gruppo di Verdini. Renzi inoltre era partito dallo schema che un accordo parlamentare di questo genere avrebbe contribuito a recuperare un’intesa con la sinistra radicale anche per le amministrative, in vista delle quali, con la sola eccezione di Milano, Vendola ha già annunciato che Sel presenterà candidati contrapposti a quelli del Pd in tutte le maggiori città.
La spaccatura interna al Pd ha portato il premier a dare libertà di coscienza ai parlamentari del proprio partito, fermo restando che la legge va fatta, dato che è l’Europa a chiederlo all’Italia, e ad accettare che alla fine le nuove norme siano le risultanti dalle varie maggioranze che si comporranno in Senato, via via che verranno messi in votazione gli emendamenti.
Ora Sel e 5 stelle confermano che sono pronti ad approvare il testo Cirinnà, ma senza modifiche; mentre Ncd e dissidenti interni al Pd la voterebbero solo se modificata e ammorbidita. E Grillo, che solo due giorni fa aveva annunciato che avrebbe fatto un passo di lato rispetto al suo ruolo di leader di M5s, ieri è tornato a tempo pieno al suo impegno politico, attaccando frontalmente il Pd sul tema dell’occupazione della Rai.

Corriere 26.1.16Sinistra in crisi e flop di Marino Che cosa resta
di Massimo Rebotti

S i parte da una vicenda «enorme» — i consiglieri del Pd che il 30 ottobre 2015 sfiduciano il loro stesso sindaco, Ignazio Marino — per un viaggio nel fallimento della politica al Campidoglio, le responsabilità della sinistra, le strade di una possibile «riscossa civica». Roberto Morassut, nel libro-intervista a cura dell’ex vicedirettore dell’Unità Pietro Spataro, conosce il tema: deputato pd, è stato segretario romano dei Ds e assessore con Veltroni. Ha partecipato insomma, e in posizione di primo piano, al quindicennio (1993-2008) di governo della città da parte del centrosinistra, che descrive come un grande tentativo di «modernizzare» la Capitale. Ora Morassut riflette, e senza sconti, sull’epilogo rovinoso dell’amministrazione Marino, il buco nero di Mafia Capitale e lo stato del Pd romano, che l’ex ministro Barca nel suo rapporto sui circoli definì «dannoso». Per l’autore il degrado inizia con la vittoria di Gianni Alemanno nel 2008 — «una destra famelica che si avventò senza freni sul potere» — con cui il Pd decise di trattare: quella scelta, scrive, «ha agito come un virus». Nella ricostruzione, il fallimento del sindaco-chirurgo — che nel 2013 aveva riportato il Comune al centrosinistra — era quindi già scritto: «L’astrattezza di Marino e il vuoto del Pd sono due facce della stessa medaglia». Sugli ultimi e convulsi avvenimenti in Campidoglio aleggia per l’autore qualcosa di ben più profondo, una «questione romana» legata alle vicende nazionali: è la «fuga dalla politica» che lascia il campo libero ai populismi. Il dirigente pd, per guardare al futuro, si affida all’esempio delle amministrazioni di sinistra del passato — Veltroni, Rutelli, ma anche Petroselli e Argan. Quasi a esorcizzare l’ipotesi che tra qualche mese in Campidoglio sieda invece un sindaco a cinque stelle.

Repubblica 26.1.16l vicolo cieco del Pd a Napoli Bassolino scalpita “Chi mi sfida?”
Renziani divisi sul loro candidato Ma cresce il manager dell’Ice Monti
di Conchita Sannino

NAPOLI. Un uomo solo in campo da due mesi e una settimana, il revenant Antonio Bassolino che insegue la rivincita verso la poltrona di sindaco di Napoli macinando impegni, slogan e incontri casa per casa. Ma non è il candidato di Matteo Renzi. Perché quel profilo ancora non c’è. E le primarie sono fissate il 6 marzo: tra quaranta giorni. Arriverà in extremis oggi, l’anti- Bassolino? E sarà il manager dell’Agenzia Ice, Riccardo Monti? Molti sono pronti a scommetterci.
Ma la lunga attesa spinge Bassolino a un’altra provocazione. «Avanti, attendo rispettosis-simamente che ci siano altri in campo. Tutto posso fare, meno che candidarmi da solo contro me stesso», infierisce l’ex governatore. E ancora: «Ricordo a tutti che si vota a giugno di quest’anno, non dell’anno prossimo. E meno male che mi sono candidato, altrimenti a Napoli in questi mesi ci sarebbero stati solo de Magistris, Cinquestelle e Gianni Lettieri che fanno il loro lavoro. Ma non ci sarebbe stato il Pd in gioco».
Che la scalata sia durissima, lo sa l’atleta Bassolino per primo. E il Pd che dal 21 novembre - giorno in cui l’ex governatore lanciò via Facebook le fatidiche paroline “mi candido” - non offre ancora il nome che dovrebbe incarnare il progetto renziano, nella sfida forse più difficile delle amministrative nelle grandi città. Lo stesso governatore De Luca, fin qui assorbito dal governo della macchina regionale oltreché dalle proprie (non meno complesse) vicende giudiziarie, ha avuto con i vertici romani più incontri. Senza riuscire a trovare la sintesi, che pure l’altro giorno sembrava centrata sul nome di Monti: manager stimato, imprenditore della Napoli-bene, forse di scarso appeal popolare ma aderente all’idea renziana di una Napoli attrattiva per gli investitori esteri.
La paralisi degli ultimi mesi, infatti, viene solo in parte assorbita dalla strategia del premier sul Sud: in meno di un mese, Renzi ha annunciato l’investimento di Apple e Cisco a Napoli, promosso la cabina di regia per riqualificare (finalmente) Bagnoli, visitato e rilanciato i grandi siti di Pompei e Caserta. Persino attaccato il primo cittadino in carica, come fosse lui il candidato in pectore per Napoli contro de Magistris: «Ci sono alcuni amministratori che preferiscono lo scontro con il governo. Il sindaco di Napoli faccia pure le manifestazioni in piazza, noi non ci fermiamo - aveva sottolineano il premier - . Lui faccia pure, noi intanto togliamo le schifezze da Bagnoli. È il solito meccanismo, c’è chi si lamenta e chi fa le cose». Renzi ieri prende ancora un po’ di tempo: «Tanta discussione nel percorso che sta portando Milano a scegliere il candidato Pd. A breve anche la partenza di un percorso analogo a Roma, a Napoli ». Ma il leader Pd sa quanto la partita si stia complicando. A Napoli più che altrove. Per la risalita verso Palazzo San Giacomo, dove il sindaco de Magistris comincia a sparare ad alzo zero su Bassolino («È il re della monnezza»), il Pd registra da mesi sondaggi definiti «avvilenti », e l’estenuante braccio di ferro tra le intuizioni del “giglio magico” e i veti posti dal partito campano.
I due fronti romano e napoletano apparivano fino all’altra notte ancora divisi tra l’opzione Monti e la scelta di un politico, che vede nella rosa i nomi di Gennaro Migliore e Valeria Valente. Contro i quali si è messo però il consigliere regionale Gianluca Daniele, pupillo dell’ex segretario del Pd Gugliemo Epifani. Così Monti resta l’unica chance. Ma il groviglio da queste parti non sorprende più: è la variabile di Napoli alle primarie. Un cult per gli analisti dell’autolesionismo democrat.

Corriere 26.1.16Allarme Ue: Italia, troppo debito L’ira di Renzi: non sono isolato
«Nel breve termine la questione sofferenze». Il premier: con me 50 milioni di italiani
di Ivo Caizzi

BRUXELLES L’Italia corre «alti rischi» a medio termine per il suo maxi-debito pubblico, mentre nel breve termine il problema più serio è costituito dalla massa di crediti deteriorati del sistema bancario. Appaiono questi i messaggi principali inviati da Bruxelles al governo italiano con il rapporto della Commissione europea sulla sostenibilità delle finanze pubbliche, che individua rischi anche in altri 10 Paesi membri (Francia, Regno Unito, Irlanda, Spagna, Belgio, Finlandia, Portogallo, Romania, Slovenia e Croazia) senza contare Grecia e Cipro (in quanto già sotto programma di salvataggio). Immediata è arrivata la replica del premier Matteo Renzi e del ministero dell’Economia di Pier Carlo Padoan, che hanno ribadito la solidità dei conti pubblici e del sistema bancario italiano. «Non sono solo, sono con 50 milioni di italiani - ha dichiarato Renzi in relazione ai continui contrasti con l’Ue -. Io so che tutta l’Italia dice sì all’Europa ma non ci sta a fare la parte di quella che paga ma non ha nulla indietro».
Secondo il rapporto della Commissione europea, per l’Italia «i rischi sembrano essere alti nel medio termine da una prospettiva di analisi della sostenibilità del debito, in seguito a un elevato livello di debito alla fine delle proiezioni» nel 2026. Le preoccupazioni maggiori scaturiscono davanti a eventuali «shock alla crescita» e aumenti degli attuali bassissimi tassi d’interesse, che appesantirebbero notevolmente il costo (già pari al 4,3% del Pil) per sostenere i circa 2.200 miliardi di indebitamento. A Bruxelles temono che non sarà facile conseguire l’avanzo primario del 2,5% del Pil dal 2017 fino al 2026, che porterebbe il debito a un livello accettabile di circa il 110% del Pil al termine del decennio considerato. Ancora di più si dovrebbe fare (il 3,8% del Pil di avanzo) per rispettare l’impegno del Fiscal compact, che prevede di riportare in venti anni l’indebitamento al 60% del Pil dal tetto massimo del 133% stimato nel 2015.
«La quota di crediti inesigibili nel settore bancario potrebbe rappresentare una fonte importante di rischi di passività a breve termine» segnala il rapporto della Commissione europea, pur senza entrare nello specifico delle «sofferenze» indicate in Italia in circa 200 miliardi. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è atteso oggi a Bruxelles dal commissario Ue per la Concorrenza, la danese Margrethe Vestager, proprio per accelerare il negoziato su una soluzione sui crediti deteriorati in linea con la normativa Ue sugli aiuti di Stato. Nel rapporto di Bruxelles un giudizio positivo riguarda la sostenibilità nel lungo termine del sistema pensionistico, che però è al centro di un dibattito politico per attenuare i tagli attuati dalle ultime riforme.
Il ministero dell’Economia ha replicato al rapporto sulla sostenibilità finanziaria diffuso dalla Commissione europea perché «conferma ancora una volta che i conti pubblici italiani non presentano rischi a breve termine e sono in assoluto i più sostenibili di tutti nel lungo termine». Secondo il dicastero di Padoan «il pesante debito pubblico rende il Paese più esposto in caso di shock esterni, per questo l’indicatore S1 ci classifica ad alto rischio. E per questo motivo il governo ha programmato il debito in discesa nel 2016 per la prima volta dopo 8 anni consecutivi di incremento».
Netta è stata anche la reazione di Palazzo Chigi. «L’Italia è un Paese solido, il sistema bancario anche — ha scritto Renzi sulla sua e-news —. Bisogna tuttavia accelerare sulle misure che sono rinviate da troppo tempo, a cominciare dalle fusioni e aggregazioni di banche, a cominciare dalle Popolari per le quali la riforma del nostro governo nel 2015 — a lungo contestata — è invece decisiva e strategica».

Repubblica 26.1.16
Calabria.
L’odissea dei bulgari schiavi nei campi per un euro all’ora
Lavoravano dalla mattina alla sera senza mangiare. Uno di loro ha avuto il coraggio di raccontare tutto alla Finanza
di Giuliano Foschini

SIBARI. La prima volta che hanno visto Lamerica è stata nell’angolo di questo stanzone della Guardia di finanza di Sibari. Una macchinetta con le luci accese. «L’ho riempita di monetine, tutte quelle che avevo in tasca. Hanno preso acqua, succhi di frutta e cioccolato. Ho dovuto convincerli che era soltanto un regalo, che per la prima volta avevano conosciuto un italiano che non chiedeva loro nulla in cambio. Mi hanno sorriso e hanno conservato tutto nella borsa. Poi, quando li abbiamo convinti a parlare, ho capito perché».
A raccontare, mentre gioca nervosamente con le mani, torturando la fede, è un esperto militare del Comando. È stato lui, insieme ai suoi colleghi, a salvare la vita a tre ragazzi bulgari arrivati in Italia convinti di trovare fortuna. E invece hanno conosciuto questa cosa qui: «Ho 24 anni, sono bulgaro, mi chiamo D.N.», e le iniziali qui sono un genere di sopravvivenza. «Sono arrivato grazie a un mio connazionale che viveva a Corigliano e mi aveva detto che potevo trovare lavoro. Conoscevo già l’Italia e anche qualche parola della vostra lingua, perché ci vive mia madre». Corigliano, Cassano: la piana di Sibari è la più grande cassetta di clementini di Italia. «Ero venuto per raccogliere agrumi – continua – Avevamo pattuito, verbalmente, una paga da 25 euro al giorno che mi doveva essere corrisposta ogni settimana. Erano bei soldi». Settecento euro al mese per questi ragazzi sono molto più che Lamerica anche quando sono il corrispettivo di dieci ore di lavoro al giorno. Senza soste. Senza cibo.
In realtà da quello stipendio vanno detratte una serie di spese: 80 euro per il viaggio dalla Bulgaria all’Italia, 100 euro per l’iscrizione nell’elenco dei lavoratori con tanto di rilascio del codice fiscale, 100 euro per l’alloggio, 100 per il vitto e 100 per il trasporto. Si parte con un debito di 500 euro almeno. E non fa niente che l’alloggio è una stalla, che l’acqua è fogna, il mangiare rifiuto, perché questi uomini vengono trattati molto peggio degli animali. «In questa maniera – spiegano gli uomini del tenente colonnello Sergio Rocco che hanno in piedi le indagini – i braccianti vengono messi nell’impossibilità di scappare». E infatti: «Ho lavorato per un mese – ha raccontato sempre D. – senza essere pagato. Mi dicevano che dovevo io dei soldi a loro. Ma non potevo mangiare. Ho chiesto quello che mi spettava. Mi hanno minacciato di morte, hanno sempre i bastoni per le mani. Poi mi hanno dato 20 euro per due giorni, ordinandomi di stare zitto e tornare a lavorare». Venti euro per venti ore di lavoro. Fa un euro all’ora.
Poi è arrivata la Finanza. E, incredibilmente, D. non è scappato. E soprattutto non è stato zitto. Grazie al suo racconto, ieri, i suoi aguzzini sono stati denunciati: il bulgaro che gli ha trovato il lavoro ma anche i due italiani che lo hanno sfruttato e minacciato. Uno ha un precedente con la criminalità organizzata. Sostanzialmente, è uno ‘ndranghetista, non a caso i controlli rientravano proprio in un piano della Prefettura contro la criminalità organizzata. Dunque: schiavo straniero. Schiavista: italiano, mafioso. «Non è una cosa che ci sconvolge» ammette Giuseppe De Lorenzo, il responsabile della Camera del lavoro di Corigliano. «I rapporti tra i caporali e la criminalità organizzata sono strettissimi. Per questo, oggi, per noi è una giornata bellissima». Prego? «Finalmente qualcuno ha detto che il caporale è uno sfruttatore e commette un reato. Anche qui nella piana di Sibari dove invece questo fenomeno non è tollerato ma considerato assolutamente normale». I numeri sono incredibili: «Il 90% della forza lavoro lavora con i caporali. Parliamo di più di 20mila persone. Si guadagna 1 euro a cassa, 25 euro a giornata, da cui vanno sottratti i 5 per il trasporto. E se la legge dice che ne servono almeno il doppio, chissenefrega. Anzi». Anzi: a chi non lavora vengono versati contributi fittizi, in modo tale che possano poi usufruire dell’indennità di disoccupazione. Chi lavora, invece, riceve il pagamento in nero. Oppure comunque per metà del compito effettivamente svolto. «In questi anni denunciano, denunciamo, ma siamo sempre soli» continua De Lorenzo. In realtà una voce forte è quella della Chiesa. Quella del vescovo, don Ciccio Savino, che viene dalla Puglia e non ha mai paura delle parole. Da poco arrivato chiarì subito qual era il suo pensiero sul punto: «L’accoglienza non è mai un problema. Ma una risorsa. Ed è sull’accoglienza che si gioca la democrazia. Quando un fratello immigrato muore in un cantiere o perché è vittima di caporalato io non vedo che le voci si alzano per difendere chi è stato schiavizzato. Allora non al buonismo, non all’ingenuità”.
«Sente questo rumore?» dice un finanziere. È sera da un pezzo, i trattori hanno smesso di trafficare, la piana è affascinante. «C’è molto silenzio».

Corriere 26.1.16Gli affari Italia primo interlocutore
E Teheran farà da ponte verso i mercati dell’Asia

ROMA Minerali, macchine per produrre acciaio e alluminio, navi, binari e vagoni. Ma anche elettronica, un gasdotto lungo quanto l’Italia, gli Atr di Finmeccanica, metropolitane, alcune migliaia di chilometri di rete ferroviaria, strade, porti, 70 locomotori, 600 propulsori marini, tre ospedali, la ristrutturazione di alcune raffinerie.
E la lista potrebbe continuare a lungo, soprattutto è destinata a diventare più ampia, ad arricchirsi di nuovi contratti. Per ora il valore complessivo si aggira sui 17 miliardi di euro, ma già a febbraio ci sarà un’altra missione governativa in Iran, con i ministri Martina e Delrio: altre collaborazioni commerciali, altri contratti e il settore dell’agroalimentare, che nelle previsioni delle relazioni bilaterali registra moltiplicatori a due zeri, da qui a dieci anni. Poi prima della fine del 2016 la quarta missione italiana in due anni, con altre centinaia di imprenditori a caccia di affari.
Matteo Renzi, con i suoi, ne prende atto con soddisfazione: «È solo l’inizio, stiamo gettando le basi per una collaborazione bilaterale con l’Iran che ha carattere strategico e che posizione l’Italia in un ruolo privilegiato».
A Palazzo Chigi, come al Quirinale, a fine giornata, registrano in primo luogo il dato politico: «Scegliere l’Italia come primo Paese dell’Occidente, da parte di Rouhani, per la sua prima missione all’estero dopo la chiusura delle sanzioni, è una scelta di geopolitica che è stata vagliata a lungo dalle autorità di Teheran e che pone l’Italia in una posizione di interlocutore prioritario rispetto a tanti altri Stati», è la riflessione comune delle due istituzioni.
Ma non solo, al dato politico, si affiancano, sino a superarlo, la densità e la portata degli accordi economici e commerciali siglati ieri sera in Campidoglio, alla presenza del presidente del Consiglio e del presidente iraniano, prima della cena con vista sui Fori, sulla Terrazza Caffarelli, luogo fra i più suggestivi di Roma, dove Renzi invita gli ospiti che vuole più coccolare.
È possibile che già prima della fine dell’anno Matteo Renzi ricambi la visita di Rouhani, con un viaggio in Iran: ovviamente ieri è arrivato l’invito, accettato con piacere da Palazzo Chigi.
Ma sono soprattutto le parole che Rouhani ha pronunciato a porte chiuse che hanno colpito le delegazioni, sia al Colle, che nel governo: «Considerateci come un ponte per l’Asia per il vostro made in Italy, i nostri porti, la nostra rete ferroviaria, sono a vostra disposizione, possiamo diventare una base commerciale della vostra produzione per molte destinazioni internazionali. E vi assicuro che l’Iran si aprirà anche dal punto di vista finanziario, un’occasione per molte vostre banche e assicurazioni, che speriamo venga accolta con favore».
Insomma le coccole, almeno diplomatiche e commerciali, sono state reciproche. E la voglia di «recuperare il tempo perduto con le sanzioni», per usare sempre uno dei concetti ripetuti da Rouhani nel corso della giornata, si accompagna alla scelta di un interlocutori commerciale, economico e politico considerato migliori di altri.
L’Italia, che sino a dieci anni fa era il primo partner commerciale di Teheran, almeno fra i Paesi europei, è fra questi. Del resto anche Roma deve recuperare, solo negli ultimi 4 anni l’interscambio è calato del 60%. La Germania, come accaduto in altre occasioni, ha preso meno, tenuto meglio e guadagnato la prima posizione fra i partner della Ue. Rouhani domani sarà a Parigi, vigilerà sulla conclusione dei contratti di acquisto di 114 Airbus (dato che i nostri diplomatici snobbano così: «I francesi ormai vendono solo quello»). Poi rientrerà in Iran. Il fatto che non passi da Berlino non significa che i tedeschi stiano con le mani in mano: il settore veicoli industriali della Daimler ha siglato contratti con le autorità di Teheran praticamente un minuto dopo la fine delle sanzioni economiche. Mentre l’americana Boeing si è già messa in lista per rinnovare, anche lei, l’obsoleta flotta iraniana.

La Stampa 26.1.16
Se la politica dimentica le condanne in Iran
di Mattia Feltri

Soltanto tre giorni fa qualche centinaio di migliaia di italiani era in piazza per manifestare a favore dei diritti omosessuali, non ancora riconosciuti in Italia, non a sufficienza. Si parla con agio di medioevo, si definiscono trogloditi gli oppositori, ci si infiamma di sdegno perché sul Pirellone a Milano compare la scritta «Family Day». Poi arriva in visita ufficiale il presidente iraniano Hassan Rohani (è arrivato ieri) e tutto questo fermento è già indolenzito nel torpore dei giorni feriali.
I rutilanti caroselli di sabato sono spenti, la riprovazione per l’arretratezza culturale italiana è evaporata, non importa che Rohani sia presidente di una Repubblica islamica nella quale gli omosessuali vengono impiccati in piazza, appesi alle gru. Ieri abbiamo aspettato da mattina a sera che qualcuno dicesse qualcosa, in fondo sono i giorni perfetti, di mobilitazione, di preparativi alla battaglia parlamentare che forse introdurrà le unioni civili. Ecco il resoconto: Fabrizio Cicchitto ha espresso soddisfazione per gli sviluppi dei rapporti economici con l’Iran purché non prevedano «reticenza sulle libertà»; Maurizio Gasparri si è chiesto dove siano gli inorriditi dalla tenda di Muhammar Gheddafi piantata a Villa Pamphili; il senatore Lucio Malan vorrebbe sapere se Matteo Renzi approvi il regime di Teheran; il più franco è stato Daniele Capezzone: «L’Iran di Rohani è uno Stato campione mondiale di pena di morte, è uno Stato che tuttora vuole cancellare Israele dalla faccia della terra, è uno Stato che (al di là dei recenti accordi) lavora a minacciosi obiettivi nucleari. Che quasi tutti tacciano su queste realtà la dice lunga sul triste stato del dibattito politico e civile in Italia. E dopodomani, 27 gennaio, è il Giorno della memoria...». Quattro voci da destra e fine, mentre la questione non è parsa interessante a sinistra, né fra le associazioni più specificamente combattive a favore dei gay. Molte notizie, invece, sui primi vantaggiosi affari, di un giro totale che è stato stimato in 17 miliardi di euro.
Sono tanti soldi, ce rendiamo conto, ma bisognerà pur ricordare che pochi anni fa, alla domanda di un ragazzo americano, l’allora presidente Mahmud Ahmadinejad rispose che la malattia era debellata, «in Iran non esistono gli omosessuali». Il che è anche vero, perché appena ne viene scoperto uno si prende cento frustate (se il rapporto era casto e si pente) oppure viene messo a morte (se il rapporto era completo). Purtroppo non ci sono statistiche sulle esecuzioni, perché è capitato che i gay, anche minorenni, venissero condannati sotto voci più generiche. Gli amanti del dettaglio troveranno soddisfazione nell’ultimo report di Nessuno tocchi Caino, associazione della galassia radicale: 980 condanne capitali soltanto nel 2015, soprattutto per traffico di droga e omicidio ma anche per reati politici e - come detto - di natura sessuale. E poi lapidazioni, torture, mutilazioni cioè l’intera casistica delle pene inflitte per dare soddisfazione a Dio. Le ragioni di una così straordinaria indifferenza sono difficili da comprendere. C’entrerà il rilievo economico dei patti che si vanno definendo con Teheran; c’entrerà una certa deferenza verso l’Islam, e il timore di cedere al «noi e loro»; c’entrerà un incrollabile provincialismo per cui si pensa che quello che succede nell’altra pagina dell’atlante continui a non riguardarci. Comunque: stamattina al Pantheon, a Roma, è prevista una manifestazione della comunità islamica ostile al regime teocratico. In perfetta intesa, non ci saranno né i partiti (tranne i radicali) né la sempre più mitica società civile.

Corriere 26.1.16
Le scrittrici iraniane «La scure del censore è più severa che mai»

«La fine delle sanzioni ha portato un’apertura diplomatica ed economica ma, al tempo stesso, la scure del censore è più severa che mai: le autorità si sentono forti e quindi il ministero della Cultura e della Guida Islamica ha bloccato numerose pubblicazioni. Lì per lì non ce ne accorgiamo perché le case editrici mandano in stampa parecchi titoli neutrali per dare l’impressione ci sia una qualche libertà», commenta Mahsa Mohebali, residente a Teheran e autrice del romanzo «Non ti preoccupare» (Ponte33, pp. 122, €14). Un libro «la cui ristampa viene ostacolata pur avendo ricevuto, in passato, il permesso di pubblicazione. Un fenomeno che ha colpito anche il bestseller “Armonia notturna” di Reza Ghassemi». Gli escamotage per pubblicare si trovano: «Gli editori aggirano il divieto riproponendo lo stesso titolo con l’etichetta dell’ultima edizione permessa».
Di fatto, con la fine delle sanzioni internazionali, la diplomazia e il business ripartono mentre la cultura subisce una battuta d’arresto, scrittori e intellettuali indipendenti, non disposti a scendere a compromessi, subiscono pressioni affinché la loro voce, adesso che il Paese si sta aprendo, non raggiunga l’esterno. Autrice del romanzo «Sole a Tehran» (editpress, pp. 200, €15), Fereshte Sari osserva da vicino la situazione, ma non vuole tirare conclusioni affrettate perché «si fa molto rumore per nulla, per giudicare l’effetto della fine delle sanzioni serve tempo».
Anche lui residente nella capitale iraniana, il traduttore Giacomo Longhi è ottimista: «In ambito culturale non vi sono aperture significative, ma per gli iraniani è importante non essere più esclusi. Le sanzioni hanno avuto effetti pesanti, anche psicologicamente, perché l’isolamento ha portato a credere che il Paese fosse un inferno e fuori fosse tutto rose e fiori». Di pari passo, Longhi ritiene importante che gli italiani si avvicinino alla storia e alla cultura persiana per poter conoscere il Paese, sfuggendo agli stereotipi mediatici.
Dello stesso parere l’iranista Anna Vanzan, che ha tradotto e curato la raccolta «Le rose di Persia: nove racconti di donne iraniane» (Edizioni lavoro, pp. 128, € 15). «Nella Repubblica islamica i giovani studiano italiano nelle università pubbliche e private, si traduce molta più letteratura italiana a Teheran — e penso a classici come Dante, Calvino, Moravia, Buzzati — di quanto noi non traduciamo letteratura persiana». La colpa è soprattutto delle grandi case editrici italiane: «Culturalmente, l’Italia è provinciale, nel senso che i grandi editori offrono al lettore italiano gli autori extraeuropei solo dopo il successo consolidato sui mercati anglofoni e francofoni».

La Stampa 26.1.16Shoah, l’incredulità dei bambini è più forte del male
di Gavriel Levi
Professore emerito Sapienza Università di Roma

La memoria è un motore della individualità umana. Finché posso giocare con i miei ricordi, scomponendoli e ricomponendoli, sento di essere una persona.
La memoria condivisa è il collante di ogni relazione umana. Finché so che tu ti ricordi di me e finché tu sai che io mi ricordo di te, noi siamo noi. Siamo qualcosa in più.
La memoria è il contenitore collettivo di ogni gruppo, piccolo o grande. Finché scambiamo e confrontiamo ricordi comuni, possiamo pensare ad una storia che sa usare i ricordi del passato per costruire un futuro comunque migliore.
La potenza di tutte queste memorie sta nel riuscire ad essere memorie aperte. Sempre innovative e mai celebrative.
Possiamo identificarci con le nostre foto di quando eravamo bambini, se sappiamo che stiamo guardando con gli occhi di adesso. Possiamo comprenderci meglio, se possiamo immaginare di guardarci adesso con gli occhi che avevamo allora. Questo doppio confronto è emozionante, perché in fondo in fondo è il confronto tra ricordare e progettare.
L’emozione del ricordo che si rinnova e si confronta con altri ricordi è la stessa emozione del sogno, che cerca sempre la strada per trasformare il passato in una nuova realtà.
In sintesi: la memoria può essere maestra di libertà soltanto se non è una memoria prigioniera, perché dolorosamente ripetitiva.
Questo discorso è particolarmente valido quando lavoriamo con la memoria traumatica, con la memoria etica e con la memoria educativa.
Siamo davanti alla scommessa e alle domande che ci pone ogni anno la Giornata della Memoria.
Dopo la catastrofe universale della Shoah, causata volontariamente dalla mano dell’uomo, è possibile guardare dentro la malvagità umana? E cioè, senza fuggire dichiarandoci subito buoni?
Dopo un trauma subito quasi passivamente, è possibile usare la memoria attivamente? Per documentare il trauma e non per fissarlo, per combattere il trauma oggettivamente e non per riprodurlo soggettivamente.
Nel conflitto quotidiano che ogni persona ha, quando deve scegliere tra bene e male, è possibile costruire un patto educativo fra una generazione e l’altra?
Non penso che queste domande debbano e possano avere una risposta. Credo che queste domande debbano rimanere domande tanto inquietanti quanto fiduciose. I superstiti della Shoah tuttora viventi hanno guardato in faccia il male, allora, quando erano bambini. Con occhi di bambino. Adesso i superstiti della Shoah ragionano e soffrono con la forza e con lo sfinimento di una vita combattuta, per capire e contrastare l’esistenza del male assoluto.
Allora guardavano e capivano il male come i bambini guardano il dolore e l’ingiustizia: con lo stupore assoluto e con il rifiuto più totale. Non è così, non può essere così, non sarà cosi… un giorno sarò grande, non farò e non farò fare così…
Se vogliamo comprendere e sgretolare il male della Shoah, forse possiamo immaginare e introiettare quegli sguardi di bambini. Quell’incredulità totale è veramente più forte del male, perché nasce dalla speranza e dalla certezza che il male può non esistere. Non deve esistere.

Corriere 26.1.16
Shoah, memoria di ieri e impegno per il futuro
di Giovanni Maria Ficà

Il «Giorno della Memoria», a quindici anni di distanza dalla legge del 2000 che lo ha istituito, è l’occasione per un bilancio. È certamente positivo, con alcune perplessità in parte originarie e in parte dovute al passare del tempo. Non si tratta di cambiare la legge, ma di interpretarla perché possa cercare di rispondere agli interrogativi per i quali è nata: che cosa, come e perché ricordiamo.
Ricordiamo «l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz il 27 gennaio 1945», quando ad essi giunsero i primi soldati russi che — racconta Primo Levi all’inizio de La Tregua — incontrarono il nulla, gli spettri, la vergogna, la fine dell’umanità. Ricordare la fine di Auschwitz è una scelta: ma è altrettanto se non più giusto — anche se più difficile — ricordarne le cause, le premesse e l’inizio. La legge richiama in effetti «le leggi razziali» e «la persecuzione italiana dei cittadini ebrei»: questa può e deve essere l’occasione per sfatare la leggenda degli «italiani brava gente» che troppo spesso falsa la prospettiva storica e dimentica le nostre responsabilità di italiani, individuali e collettive. È doveroso ricordare i tantissimi che hanno subito la deportazione e la morte e i pochi giusti che si sono battuti per la loro salvezza: a patto però di non dimenticare i troppi carnefici e i complici nelle deportazioni, ancor più numerosi per indifferenza, paura, coinvolgimento burocratico, scopo di profitto o rancore nelle deportazioni.
Come ricordiamo? Organizzando secondo la legge, cerimonie, incontri nelle scuole, iniziative (come i viaggi degli studenti ad Auschwitz). È necessario per tenere viva la memoria nel cuore e nell’emozione; per evitare che la Shoah diventi soltanto astratta nozione per la mente nei libri di storia. Ma occorre evitare anche che con il passare del tempo e la ripetitività quel giorno si trasformi soltanto in un’occa- sione rituale, retorica e celebrativa; in una memoria burocratica e imposta, come la toponomastica stradale; o — più ancora — che diventi soltanto un’occasione per operazioni editoriali. È difficile distin-guere in concreto fra il fine della conoscenza e quello del portafoglio: ogni contributo (libri, film) alla prima è prezioso, per passare dalla conoscenza alla coscienza e per non delegare soltanto alla legge e al giudice la risposta al negazionismo; ma può rischiare l’assuefazione e quindi il rifiuto.
Perché ricordiamo? La legge guarda al passato e al futuro: «conservare la memoria di un tragico e oscuro periodo … affinché simili eventi non possano mai più accadere». Non un risarcimento tardivo e insufficiente al popolo ebraico, per la tragedia di cui è stato vittima; tanto meno — come pretende il negazionismo, sia quello più becero che quello più pretenzioso — una assurda connivenza con la bestemmia della «menzogna ebraica» sulla Shoah o sulla sua enfatizzazione, una cambiale oscena per la fondazione dello Stato di Israele; né un’inammissibile pretesto per equiparare gli ebrei vittime del nazismo e i palestinesi, nonostante le legittime riserve su taluni aspetti della politica repressiva israeliana. Ma la consapevolezza che la Shoah è ammonimento per tutti noi, più che memoria per gli ebrei; è un delitto incommensurabile contro la dignità e l’umanità.
Il decorso del tempo e la cancellazione delle tracce dello sterminio rischiano di far trascurare i sintomi premonitori di altri stermini; se Auschwitz è stata il cimitero dell’Europa di ieri, il Mediterraneo sta diventando il cimitero dell’Europa di oggi e di domani. Per questo il Giorno della Memoria del passato deve restare; ma deve diventare — effettivamente, non soltanto a parole — anche il giorno dell’impegno per il presente e per il futuro.

Corriere 26.1.16
Chi decide per noi? Questo è il dilemma

Scena 1: il nostro Sé cosciente decide tra due o più opzioni, pratiche o affettive (un’auto o un partner). Scena 2: il nostro Sé cosciente è solo lo spettatore «in differita» di quelle decisioni, prese in precedenza dall’inconscio. Pur propendendo per la prima, il filosofo Alfred R. Mele cerca da tempo, tra queste due posizioni estreme (il libero arbitrio assoluto e la sua assoluta assenza) tinte più sfumate: ricerca che si affina ora nel libro (Liberi!, Carocci, traduzione di Tommaso Piazza, pp. 112, e 10). È uno sguardo acuto ma a sua volta opinabile: se da un lato Mele ha molte buone ragioni contro il determinismo hard di certe neuroscienze (che liquiderebbe, col libero arbitrio, ogni responsabilità morale o penale), dall’altro sembra spaventato, come molti filosofi, proprio dalle acquisizioni neuroscientifiche circa il ridimensionarsi del controllo cosciente sul comportamento (con conferme e correzioni di Freud). Del resto, che il «lavoro sporco» venga svolto dal brulichio neurale silente (fondato su consolidati schemi adattativi ma tanto più efficace quanto più nutrito di «cultura») è un’insperata protezione: come ricordava Giovanni Jervis, siamo «meno liberi» ma anche «meno stupidi» di quanto crediamo.

Corriere 26.1.16
Brodskij, inviso al regime Ma non fu un dissidente
risponde Sergio Romano

Non saprei se Josif Brodskij, poeta e drammaturgo russo, possa essere definito un dissidente. Non sono in grado di valutare se il premio Nobel per la letteratura assegnatogli nel 1987 sia assimilabile a quello di cui fu insignito Pasternak e se abbia provocato altrettanti malumori nell’Urss ormai prossima al crollo. Certamente da noi è del tutto sconosciuto. So solo che era nelle grazie della poetessa Achmatova e che subì un processo con la condanna di cinque anni ai lavori forzati, che paradossalmente giudicava i più belli della sua vita. Potrebbe illustrarci la sua attività?
Giampaolo Grulli

Caro Grulli,
Nel suo discorso di Stoccolma, quando ricevette il premio Nobel per la letteratura l’8 dicembre 1987, Brodskij disse tra l’altro: «Se l’arte insegna qualcosa (all’artista, anzitutto), è il carattere privato della condizione umana. L’arte è la più antica delle imprese private e ha l’effetto di sviluppare nell’uomo, consapevolmente o inconsapevolmente, il senso della sua unicità, individualità, separatezza, di tutto ciò che lo trasforma da essere sociale in essere autonomo». E più in là, verso la fine del discorso, Brodskij disse: «La scelta estetica è una scelta eminentemente individuale, e l’esperienza estetica è sempre una esperienza privata».
Considerate in una prospettiva sovietica, queste parole sono il efficace degli atti d’accusa che il regime avrebbe formulato contro la sua persona. Brodskij non fu mai un dissidente. Quando i censori del ministero della Cultura dell’Urss e i guardiani del realismo socialista constatarono che i samizdat delle sue poesie cominciavano ad attrarre grande attenzione in patria e all’estero, le parole utilizzate dalla stampa per definire l’autore furono «pornografico, antisovietico e parassita sociale». Un processo, nel 1964, lo condannò a cinque anni di lavori forzati e lo confinò in un villaggio dell’Artico, nella regione di Arcangelo.
Per il regime quella condanna ebbe l’effetto di un boomerang. Cacciato da Leningrado, Brodskij divenne il protagonista di uno scandalo internazionale e la sua opera, pubblicata all’estero in russo o tradotta in altre lingue, lo rese molto più famoso di quanto fosse stato precedentemente. Fu questa la ragione per cui, dopo un anno e mezzo di lavori forzati, il regime lo rimandò a casa. Ma anche questa seconda decisione produsse l’opposto degli effetti desiderati. Il mondo della cultura voleva essere informato sulla sua vita e la sua opera; gli scrittori stranieri che visitavano l’Urss chiedevano di vederlo; le università e le istituzioni culturali europee e americane organizzavano incontri in suo onore. Per tagliare corto e ridurre i danni, il regime, nel 1972, lo mise su un aereo per Vienna. Il segretario generale del partito comunista sovietico, allora, era Leonid Breznev. Nel 1987, l’anno del premio Nobel, il segretario generale era Michail Gorbaciov e il clima era alquanto diverso. Ne avemmo una prova quando scoprimmo che la Literaturnaja Gazeta , autorevole organo della Unione degli scrittori, era stata autorizzata a pubblicare il testo della conferenza di Stoccolma.

Repubblica 26.1.16
Il saggio di Zagrebelsky sul nostro rifiuto di diventare adulti
Né diritti né futuro la vita ai tempi degli Immortali
Nel nuovo saggio Gustavo Zagrebelsky analizza come medicina, genetica e stili di vita ci regalino l’illusione di un’esistenza eterna
Rompendo il patto con le generazioni che verranno
di Ezio Mauro

VIVENDO come fossimo immortali noi modifichiamo la vita stessa, il significato e il profilo del suo corso, trasformando per la prima volta nella storia dell’umanità la curva dell’esistenza — com’è stata chiamata sempre — in una lunghissima linea retta che non siamo mai stati abituati a risalire: e che crolla di colpo quando cede l’inganno dell’eterna fittizia gioventù, precipitando nella vecchiaia improvvisa.
Non è un autoinganno, perché tutto quel che ci siamo creati per dominare la vita ci autorizza a pretendere l’immortalità. La medicina naturalmente, la genetica e la biologia con i loro progressi al servizio dell’uomo. Ma anche il maquillage sociale e culturale al servizio delle mode, dei trattamenti, degli stili di vita, con la promessa di ingannare la realtà, camuffandone l’estetica. Se la tecnica, con la sua autorità che la rende signora dell’epoca, dice che si può fare, allora si deve: e infatti padri e madri lo fanno, mimando i consumi e la cultura dei figli, cercando di uniformarsi dentro l’età dominante, dunque senza più fine.
Così non viviamo la nostra vita, o almeno non nel suo naturale percorso, che è ciò che la rende appunto “vita” con un suo inizio, un culmine e una fine, e non soltanto esperienza di una fase illusoriamente fissata per sempre.
Al suo posto viviamo un’esperienza mimetica, spostata abusivamente nel territorio dell’età altrui, alterando il senso dell’una e dell’altra. Ciò che si indebolisce è il fluire del tempo, il passaggio delle fasi e il loro trascorrere, la fine di una stagione e la sua mutazione nell’inizio di un’altra, con i diversi colori, i toni e i modi propri di ogni epoca. Quel che si disimpara è la preparazione
alla vecchiaia, il modo di accoglierla dai primi segnali fino alle prove evidenti e la sua accettazione. Scegliamo di rimanere uguali a quel che ci immaginiamo di essere. Pur di non declinare, decidiamo di non evolvere, imprigionandoci nell’oggi.
Ma il vero risultato di tutto questo è la scomparsa dell’età di mezzo, la fase di transizione, il passaggio di maturità, l’età adulta.
Senza adulti. È il titolo del saggio di Gustavo Zagrebelsky pubblicato da Einaudi, che indaga la mutazione inquietante del sentimento delle generazioni, legandolo alla de-generazione e alla ri-generazione in quanto l’esistenza in sé non è vita, perché la vita è tensione al mutamento, in un perpetuo divenire. Esiste chiara, tuttavia, la distinzione tra giovani e vecchi che spacca la vita in due. Agli anziani gli antichi attribuivano autorità, governo e custodia del gregge, ma era la cautela di una società conservatrice, da Platone a Cicerone, che temeva i giovani “impetuosi” e “feroci” come li chiama Machiavelli assegnando però loro il compito di afferrare la “fortuna”.
Oggi poi questa riserva di credito dei “saggi” è messa a dura prova dalla nuova scienza tecnologica e informatica che fornendo ogni possibile risposta rende superflue le domande e svaluta i vecchi saperi, con una vera e propria inversione di conoscenza tra le generazioni: rompendo così il vincolo di convenienza e di riguardo che derivava naturalmente dalla trasmissione di un’esperienza necessaria e rispettata, perché utile.
Poiché la società, come l’umanità, non è più capace di considerare e apprezzare una sua propria maturità nel senso di una pienezza stabilmente acquisita, e dunque tra crescita e recessione non c’è via di mezzo, la produttività diventa il nuovo criterio distintivo tra i giovani e i vecchi. Con la spesa sociale che serve prevalentemente agli anziani ma grava pesantemente sui loro nipoti, e un modello sociale che entra in crisi nel momento in cui l’autonomia della politica è risucchiata dall’ultima metafisica, quella dello stato di necessità, figlio della crisi quindi di nessuno, tecnicamente irresponsabile quanto indiscutibile. Si spezza sotto i nostri occhi un altro vincolo societario, quello tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, perché oggi i forti possono fare a meno dei deboli fino ad accettare non la disuguaglianza che c’è sempre stata, ma l’esclusione. Con una bizzarria evidente: ci viene detto che la giovinezza dura a lungo, anzi è eterna, quando siamo consumatori, mentre scopriamo che dura meno dell’anagrafe e si restringe quando siamo produttori.
Zagrebelsky porta alle estreme conseguenze questo allarme. Cita l’esempio dell’isola di Pasqua con migliaia di abitanti all’inizio del Settecento, ridotti a 111 individui un secolo dopo perché la deforestazione aveva fatto venir meno gli uccelli da cacciare, il legno per le canoe della pesca e per gli argini degli orti. La voracità della generazione vivente aveva letteralmente mangiato il territorio alle generazioni future, restavano le teste giganti di pietra, una pietra nuda, totem di volontà di potenza che si autodistrugge. Anche oggi la generazione dominante si comporta come fosse l’ultima, nell’egoismo del consumo illimitato delle risorse naturali e delle fonti energetiche e nel consumo distorto delle risorse genetiche manipolate, delle risorse finanziarie che scaricano l’indebitamento di oggi sui cittadini di domani. Quando Thomas Jefferson annunciò che «la Terra appartiene alla generazione vivente» intendeva affermare la piena sovranità e la piena libertà dei viventi rispetto al passato, anche davanti ai legami normativi e costituzionali, che possono essere modificati. Oggi l’uso proprietario delle risorse naturali rovescia quell’intenzione: la Terra sembra appartenere ai viventi per sempre, nel senso che non si sentono responsabili davanti al futuro.
È come se le generazioni di oggi fossero disinteressate alla loro successione, cieche di domani. E infatti, si domanda Zagrebelsky, il calo demografico non è forse un rifiuto di ogni responsabilità per il futuro, una chiusura esclusiva nell’oggi, un rimpicciolimento dell’orizzonte? Torniamo agli immortali: il disimpegno dalla discendenza trasforma il ciclo in un punto, ferma la storia. C’è un rapporto psicologico, morale, addirittura politico tra la negazione della morte e il rifiuto della procreazione, perché per l’immortale l’attività generativa esce dall’eterno presente, addirittura lo mette in discussione fino a rivelarne l’inganno, dunque è un contro-senso. D’altra parte — Zagrebelsky ricorda Canetti — quante persone scoprirebbero che non vale la pena di vivere una volta che non dovessimo più morire? L’esorcismo tecnico della morte sconta questa conseguenza, l’affievolimento della vita, il disinteresse a crearla per limitarsi a consumarla.
L’ultimo nesso che si rompe, tra giovani e vecchi, è dunque tra padri e figli, il più sacro, quello che trasforma in generazioni le classi di età che si succedono. Siamo davanti all’inedito. E qui, lo Zagrebelsky giurista non può non porre il tema più audace e ormai indispensabile, quello dei diritti delle generazioni future. All’egoismo storico dei viventi, bisogna opporre il diritto di coloro che verranno, il diritto di succedere a noi. Siamo evidentemente davanti alla prefigurazione di diritti pre-civili e pre-politici: semplicemente umani, anzi dovremmo dire pre-umani, perché riguardano i futuri abitanti della Terra. Il diritto di esistere, prima ancora del diritto del vivente. Il punto zero del diritto.
Zagrebelsky sa che in realtà le generazioni future non hanno alcun diritto soggettivo, quando vivranno non potranno chiedere i danni ai loro predecessori, tutt’al più potranno maledirli. Ma sa anche che la società non può reggere a lungo questo rovesciamento del debito storico: come se i figli avessero pagato definitivamente ciò che dovevano ai padri, e i padri non fossero in grado di regolare davvero i conti dei loro obblighi con la discendenza. Ci salva solo, dice l’autore, la categoria del dovere, senza un diritto giuridico corrispondente. Il dovere da solo. Aggiungo che si chiama responsabilità. Il contrario della moderna fuga nell’illusione di una vita infinita, sempre uguale a se stessa, dunque tecnicamente irresponsabile. Gli immortali si fermino in tempo, riportino gli adulti nel mondo per tenerlo insieme, come diceva Eliot: «Non sei né giovane né vecchio / ma è come se dormissi dopo pranzo / sognando di entrambe queste età».
IL LIBRO Senza adulti, di Gustavo Zagrebelsky ( Einaudi pagg. XIII -106 euro 12)