Il Sole 12.1.16
Borse cinesi, non si arresta la caduta
Shanghai perde il 5,3% mentre Shenzhen arretra di oltre il 6% e Hong Kong cede il 2,3%
di Stefano Carrer
Tokyo
Un’altra giornata di passione sui mercati azionari asiatici ha avuto
come epicentro negativo, ancora una volta, i mercati cinesi, che da
inizio anno sono arrivati a perdere oltre il 15% tornando vicino ai
livelli minimi della scorsa estate. L’indice composito di Shanghai ha
chiuso in calo del 5,3% e quello di Shenzhen di oltre il 6%,
contribuendo a deprimere l’indice MSCI Asia-Pacific ex Japan ai minimi
dal 2011. A Hong Kong l’indice guida ha ceduto il 2,6% scendendo sotto
quota 20mila per la prima volta dal giugno del 2013. Chiusa la Borsa di
Tokyo per la festività dei giovani che entrano nell’età adulta, le altre
piazze regionali hanno chiuso generalmente con arretramenti tra l’1% e
il 3 per cento.
Se pure questa volta le piazze europee hanno
aperto l’ottava mostrando di non seguire il “lead” di Shanghai, il
proseguimento del trend negativo dei mercati cinesi sembra destinato a
contribuire alla volatilità delle principali piazze internazionali: il
focus degli investitori sembra orientarsi non più tanto sui timori
relativi alla crescita economica e ai fattori valutari, ma sui dubbi
sempre più forti in merito alla coerenza e l’efficacia e delle politiche
governative di intervento sui mercati; senza contare poi che le Borse
cinesi appaiono ancora relativamente sopravvalutate.
Molti
osservatori evidenziano che le forti turbolenze sono in fondo il
risultato dei tentativi delle autorità di Pechino di esercitare un
controllo senza trasparenza, ovvero senza preoccuparsi di un dialogo con
il mercato, il che getta nella confusione gli investitori. Del resto,
gli strascichi negativi dell’interventismo pubblico della scorsa estate
sono emersi all’inizio del nuovo anno: ha fatto più male che bene
l’introduzione dei “circuit breakers” in vista della scadenza dei
divieti alle vendite di azioni da parte dei grandi azionisti delle
società quotate. Scattati ben due volte settimana scorsa, i meccanismi
per la sospensione degli scambi quando il mercato cala del 7% sono stati
eliminati, in contemporanea a un prolungamento modificato di
limitazioni di vendita per alcuni soggetti.
Un enigma e’ poi la
politica valutaria. Ieri la banca centrale ha fissato la parità di
riferimento dello yuan in rialzo per la seconda sessione consecutiva,
dopo che per otto giornate consecutive aveva pilotato il cambio in
accelerato ribasso. Ma è da tempo che si alternano segnali secondo cui
Pechino intende favorire un deprezzamento competitivo del cambio e altri
(come acquisti di yuan e vendite di dollari sul mercato, o istruzioni
alle banche di non condurre transazioni che contribuiscano a indebolire
la divisa) indirizzati in senso contrario. Con l’aumento delle
transazioni offshore su uno yuan i cui meccanismi di fissazione del
cambio sono stati resi meno rigidi e con la possibilità per gli
investitori stranieri di trattare azioni cinesi su Hong Kong, i mercati
cinesi diventano più esposti ai venti dell’internazionalizzazione senza
che le autorità abbiano modificato un approccio di policy management
privo di trasparenza.
«Interventi erratici sul breve termine non
riescono a invertire il trend discendente del mercato, i cui umori
restano depressi – osserva Zhou Hao, economista alla Commerzbank di
Singapore. Altri fanno notare che, al di là di vari fattori tecnici,
l’impasse è determinata dall’esistenza di “bolle”, risalenti in ultima
analisi alla rapidità con cui il mercato è passato da 2mila ai 5mila
punti della scorsa estate. «Ci attendiamo la continuazione delle
pressioni sui mercati azionari e valutari cinesi – afffermano
nell’ultimo report gli analisti di BankAmerica Merrill Lynch –. Tuttavia
molti dei timori correnti sono eccessivi e abbiamo fatto solo lievi
cambiamenti alle nostre previsioni di crescita, Cina compresa».
Nel
weekend, è stato reso noto che a dicembre l’inflazione cinese è salita
dell’1,6% (in linea con le modeste attese): nel 2015 l’aumento dei
prezzi si attesta all’1,5%, il passo più basso dal 2009, ben sotto il 2%
del 2014 e il target governativo appena inferiore al 3 per cento. I
prezzi alla produzione sono calati del 5,9%, confermando il trend
ampiamente negativo di novembre (-5,2% nell’intero 2015, contro il -1,9%
del 2014).
A Tokyo la “sindrome cinese” desta più preoccupazione
che in altri Paesi avanzati, in quanto con la volatilità aumenta
l’avversione al rischio che genera pressioni rialziste sulle yen ( e
quindi rafforza le spinte al ribasso in Borsa). Mai dalla riapertura del
mercato nel 1949 il Tokyo Stock Exchange aveva iniziato l’anno con 5
sessioni consecutive di ribassi: dopo una performance tra le più
positive nel 2015 (+9% circa), il Nikkei ha perso il 7% nell’ultima
ottava.