giovedì 7 gennaio 2016

Il monito del Papa: «L’antisemitismo è un peccato. Il cristianesimo è fiorito dall’ebraismo, un vero cristiano deve riconoscere le radici»
 

Il Sole 7.1.16
Ebrei e cristiani, unica famiglia
Il 17 Bergoglio entrerà nella Sinagoga di Roma, terzo pontefice nella storia
di Marco Roncalli


Preceduto da colloqui nel segno di un dialogo sempre più aperto con i rappresentanti dell’ebraismo, nella consapevolezza della persistenza di diversi nodi teologici, ma pure di condizioni reciproche di buona volontà, preparato alla vigilia dell’apertura del Giubileo della misericordia (quella «misericordia» che «ci relaziona all’Ebraismo...», non dimenticando che «Israele per primo ha ricevuto questa rivelazione», come afferma la Bolla d’indizione), il viaggio apparentemente meno scomodo di Francesco in questo inizio d’anno – alla Sinagoga sul Lungotevere il 17 gennaio – va già caricandosi di attese, anche alla luce di recentissimi documenti dai contorni di “banchi di prova” per quelle «nuove idee e nuove iniziative» destinate a favorire l’avvicinamento tra ebrei e cattolici al centro delle proposte avanzate al papa dai leader delle Comunità Ebraiche dopo l’elezione. Se, infatti, ampio risalto è stato dato al fatto che (senza contare quell’insolita benedizione all’aperto di Giovanni XXIII sabato 17 marzo 1962) per la terza volta nella storia un pontefice varcherà la soglia del Tempio Maggiore di Roma (a sei anni dal giorno in cui vi fu accolto Benedetto XVI, e a trenta dall’abbraccio – il 13 aprile 1986 – tra Giovanni Paolo II e il rav Elio Toaff), la nuova visita «caratterizzata dall’incontro personale del papa con i rappresentanti dell’ebraismo e i membri della Comunità», non pare possa essere rubricata come il mero rinnovarsi di un’attenzione nel segno della continuità. Certo, s’inserirà nel solco dei predecessori e tuttavia, almeno alcuni elementi indicano possibilità di sviluppi dentro un dialogo che solo per analogia può essere chiamato “interreligioso”, dovendosi piuttosto definirlo “intra-religioso”, e che pur caratterizzato da una cifra intra-familiare, dovrà portare all’assunzione di obiettivi comuni dove le religioni, senza esclusioni, sono chiamate a risolvere insieme i problemi, soprattutto innanzi ai drammatici eventi degli ultimi tempi (difficile ignorare il primo anniversario dell’attentato a «Charlie Hebdo» o quanto appena accaduto a Tel Aviv).
Tra questi elementi innanzitutto va richiamata la storia personale di Jorge Bergoglio, non meno interessante di quella dei suoi immediati predecessori quanto a rapporti con l’ebraismo. Perché il papa che senza mezzi termini ha detto «l’antisemitismo è un peccato. Il cristianesimo è fiorito dall’ebraismo: non puoi essere un vero cristiano se non riconosci le tue radici ebraiche» (così in un’intervista su «Yediot Ahronot») o che nel messaggio lasciato al Muro del Pianto ha fatto sue le invocazioni del Salmo 121 («Chiedete pace per Gerusalemme…»), meno di ventiquattr’ore dopo la fumata bianca aveva già fatto arrivare sul tavolo del Rabbino capo di Roma l’invito per la messa di inizio pontificato accompagnato da queste righe: «Spero vivamente di poter contribuire al progresso che le relazioni tra ebrei e cattolici hanno conosciuto a partire dal Concilio Vaticano II, in uno spirito di rinnovata collaborazione». Qui la tentazione sarebbe quella di lasciar spazio alle parole di autorevoli testimoni delle relazioni dell’allora arcivescovo di Buenos Aires e la comunità ebraica locale, la più grande del Sudamerica. Una per tutte, ad esempio, quella di Baruch Tenembaum, fondatore dell’International Raoul Wallenberg Foundation, pronto a ricordarci al momento dell’elezione di Bergoglio, che sino a pochi giorni prima era «l’arcivescovo di una cattedrale – unico caso al mondo – che ospita al suo interno un Memoriale dedicato alle vittime della Shoah, ma anche a quanti persero la vita nei sanguinosi attentati contro l’ambasciata d’Israele nel 1992, e contro la sede dell’Associacion mutual israelita argentina, nel 1994,dove morirono 85 persone». Potremmo aggiungere le voci di quanti più volte hanno ricordato cerimonie insieme agli ebrei presiedute in questa cattedrale da Bergoglio o la sua visita alla sinagoga Emanuel di Buenos Aires, nel dicembre 2012, quando accese il quinto lume di Hanukkah. E tuttavia meglio sottolineare come, in questa nuova occasione, la visita papale alla Sinagoga sia preceduta da almeno tre testi che preludono ad un rilancio del dialogo, a cinquant’anni dalla «Nostra Aetate» (il cui iter durante il pontificato di Giovanni XXIII e di Paolo VI è ora sintetizzato – insieme a tutti i documenti del Vaticano II – nel volume di Ettore Malnati L’avventura del Concilio edito da Studium).
Il primo è quello della Dichiarazione di rabbini ortodossi sul cristianesimo, del 3 dicembre scorso, sotto il titolo Fare la volontà del Padre Nostro in cielo: Verso un partenariato tra ebrei e cristiani. Un testo eloquente sin dall’incipit: «Dopo quasi due millenni di reciproca ostilità e alienazione, noi rabbini ortodossi che conduciamo comunità, istituzioni e seminari in Israele, negli Stati Uniti e in Europa riconosciamo l’opportunità storica che si presenta ora davanti a noi. Noi cerchiamo di fare la volontà del nostro Padre celeste accettando la mano che ci viene offerta dai nostri fratelli e sorelle cristiani. Ebrei e cristiani devono lavorare insieme come partner per affrontare le sfide morali della nostra epoca». E ancora: «Apprezziamo l’affermazione della Chiesa del posto unico di Israele nella storia sacra e nella redenzione finale del mondo […]. Come Maimonide e Yehudah Halevi , riconosciamo che il cristianesimo non è né un incidente né un errore, bensì l’esito voluto dalla volontà di Dio e dono alle nazioni....».
Il secondo documento, del 10 dicembre scorso, è quello della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo guidata dal cardinale Kurt Koch: un testo che affronta questioni teologiche (come la relazione tra l’universalità della salvezza in Gesù Cristo e la convinzione che l’alleanza di Dio con Israele non è mai stata revocata), ribadendo non solo il rifiuto di ogni forma di antisemitismo (non ancora sradicato), ma anche di ogni forma di proselitismo («la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei…»), prerequisiti di ogni traguardo di pace: in Terra Santa e altrove.
Il terzo documento, appena divulgato è relativo alla XX Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra Cattolici ed Ebrei, simbolicamente datato 17 gennaio. Qui, l’arcivescovo Bruno Forte, presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei, e rav Giuseppe Momigliano, presidente dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, presentando il tema di quest’anno (Esodo 20, 17, «Non desidererai...»: con i precetti rivolti ai rapporti fra gli uomini e richiami alla responsabilità) ribadiscono la necessità di proseguire un cammino ormai ventennale, non ignorando gli eventi del presente («assistiamo sgomenti a gesti orrendi che profanano il Nome dell’Eterno, perpetrati con l’ignobile pretesa di adempiere alla Sua volontà»), rinnovando «fedeltà ai principi e ai precetti che, con distinte peculiarità, caratterizzano le nostre fedi».
Mediaticamente più efficace di documenti meritevoli di maggior conoscenza, la visita di Francesco alla Sinagoga, esprimerà con la forza dei suoi gesti, il significato affidato a tante parole: nella speranza, di una trasformazione nei rapporti tra cattolici ed ebrei ancora più rapida dei documenti, più forte dei nodi teologici e di questioni ritenute interne al cattolicesimo come all’ebraismo.