giovedì 7 gennaio 2016

Corriere 7.1.16
L’intervista «Aspetto il Papa in sinagoga. Con lui parlo anche di storia»
Di Segni, Rabbino Capo di Roma, e il rapporto con Francesco
di Daria Gorodisky


Roma Il 17 gennaio Papa Francesco renderà visita alla sinagoga di Roma. Dopo Wojtyla e Ratzinger, Bergoglio sarà il terzo pontefice a entrare nel Tempio Maggiore di Lungotevere de’ Cenci. E il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, racconta come si è arrivati a questo nuovo appuntamento, «che rappresenta una continuità nel dialogo ebraico-cristiano», ma che ha anche una peculiarità «per il momento che viviamo sulla scena mondiale e per la figura specifica di Bergoglio». Dunque, presenze ufficiali italiane limitate alla politica locale e ai vertici delle forze di sicurezza, ma molta «gente».
«Da quando è stato eletto Papa, abbiamo avuto diversi contatti e incontri, ed è subito entrata in agenda la possibilità di una sua visita: non c’era alcun elemento di urgenza, ma il desiderio era condiviso».
Diceva «diversi contatti»: che cosa si dicono un Rabbino Capo e un Papa quando si incontrano? La teologia è al centro dei colloqui?
«Gli incontri nascono sempre da un’occasione o un motivo particolare. La teologia è l’ultimo dei temi. Si parla soprattutto di questioni pratiche, di visioni del mondo, di argomenti storici».
Per esempio?
«Bergoglio è gesuita. Così una volta ho accennato al diretto successore di Ignazio di Loyola, Diego Laynez, che era di famiglia marrana, di ebrei convertiti. Ho ricordato come invece, dopo di lui, fu proibito l’accesso alla Compagnia di Gesù a chiunque avesse anche lontane origini ebraiche. Il Papa conosceva l’argomento. In un’altra occasione gli ho parlato di Francesco d’Assisi...».
Anche lì origini ebraiche?
«Presunte. Credo che sia soltanto un mito. Infatti ne abbiamo parlato con ironia».
Avete telefonate frequenti?
«Abbiamo rapporti cordiali. Ma non mi permetto di disturbare se non per questioni importanti. L’estate del 2014, per esempio, le famiglie dei tre ragazzi israeliani rapiti vicino a Hebron da terroristi palestinesi avevano chiesto di incontrare il Papa. Bergoglio aveva dato la sua disponibilità. Poi, appena ho ricevuto la notizia che i tre giovani erano stati uccisi, ho avvertito il Vaticano. Ne è seguita una conversazione telefonica privata con il Pontefice».
Lo ha anche chiamato per fargli notare il pericolo di usare con connotazione negativa il termine «farisei».
«Volevo rappresentargli la diversa sensibilità del pubblico italiano e quindi il rischio che questo comporta qui rispetto ad altre parti del mondo. Ho trovato disponibilità all’ascolto, il Papa ha recepito».
In che modo la visita di papa Francesco si differenzia da quelle dei suoi predecessori?
«La visita di Wojtyla, 30 anni fa, fu la rivoluzione, lo spartiacque. La seconda, è stata fatta da un Papa, Ratzinger, che aveva un particolare rapporto con l’ebraismo e che ha voluto sottolineare la continuità. Il suo stile era dottrinale, teologico, sapienziale, anche formale. Adesso credo che gli elementi principali siano la continuità, il particolare momento storico, ma anche il rapporto diverso, pastorale, che Francesco ha con il pubblico. Capiamo bene la richiesta di ritagliare l’evento sulla sua personalità. Bergoglio vorrà salutare direttamente il numero più alto possibile di persone. E molti ebrei avranno piacere di stringergli la mano, sarà un’ulteriore tappa nella Storia».
Citava Ratzinger: siete ancora in contatto?
«Sì. Ci scambiamo delle lettere, messaggi augurali e altro. Sempre tutto scritto a mano. Non ci siamo più visti, ma abbiamo mantenuto buone relazioni».
La visita del 17 ha un legame con il Giubileo? O vuole rappresentare un messaggio di unione contro il terrorismo islamico?
«Sono due discorsi separati. Il Giubileo è un evento cristiano, per quanto il suo nome derivi da un istituto biblico. Noi lo rispettiamo. Invece, riguardo la fase che viviamo, oggi il mondo è insanguinato da conflitti che si alimentano con la religione vissuta come generatrice di odio, violenza, distruzione. Il nostro incontro vuole lanciare un messaggio opposto: la diversità religiosa come dimostrazione di convivenza, di gara di collaborazione per il bene di tutti».
Come accadde con Ratzinger, anche adesso nel mondo ebraico c’è chi è scettico sulla visita proprio per alcune affermazioni del Papa.
«Chi crede che il mondo ebraico sia un blocco omogeneo commette un grave errore. Ci sono tante sensibilità. Io bado alla sostanza dei fatti: ogni volta che ho riscontrato un problema, non ho esitato a segnalarlo. Conta il bilancio complessivo. Che, a oggi, è positivo».