mercoledì 6 gennaio 2016

Corriere 6.1.16
L’ultimo anno di Obama un calvario diplomatico
di Massimo Gaggi


D a sempre i presidenti Usa arrivano a fine mandato indeboliti e immalinconiti. Obama ci arriva addirittura con le mani legate sul fronte interno, disperato fino alle lacrime di ieri per le stragi di bimbi, figlie di un’America armata fino ai denti, che non è riuscito ad evitare. Ma il vero incubo, per lui, ora viene dall’esterno: l’esplosione di un Medio Oriente nel quale l’ordine geopolitico Usa non tiene più. L’ultimo anno alla Casa Bianca sarà un calvario per il presidente. E il prezzo più alto lo pagherà l’Europa.
Si discuterà a lungo del peso che l’invasione dell’Iraq decisa da Bush e gli errori di sottovalutazione commessi da Obama soprattutto in Siria e nella chiusura frettolosa degli interventi militari in Iraq e Afghanistan hanno avuto nella degenerazione di un quadro politico nel quale un grappolo di Stati falliti — dalla Libia all’Afghanistan passando per Siria e Yemen — sta producendo terrorismo in quantità industriale e ondate bibliche di profughi in fuga verso l’Europa. Non c’è dubbio che la rinuncia dell’America di Obama a continuare a svolgere il ruolo di gendarme del mondo ha creato un vuoto che ha contribuito all’ulteriore destabilizzazione dell’area più turbolenta del mondo.
Ma Washington aveva avvertito da anni che l’epoca dell’unilateralismo americano era ormai tramontata. Per il mutamento delle priorità strategiche degli Usa (più interessati all’Asia e al Pacifico che a un Golfo non più essenziale per gli approvvigionamenti energetici) ma anche perché tutto il mondo sembrava ansioso di entrare in una nuova era multipolare. Che, però, avrebbe richiesto un ruolo più attivo dell’Europa e un comportamento responsabile delle nuove potenze regionali, dall’Arabia Saudita all’Iran.
Purtroppo l’Europa non si è mai mossa per colmare il vuoto lasciato dagli Usa, mentre i regimi autoritari che dominano il Medio Oriente non hanno mai provato a cercare la cooperazione necessaria per vivere in un mondo interconnesso come il nostro, preferendo alimentare conflitti, sommosse e organizzazioni terroriste di ogni tipo.
Il sogno di Obama di cambiare per il meglio il mondo è in realtà morto già nel 2011. Col sostegno alle «primavere arabe» e l’abbandono da parte americana di Mubarak, dittatore «morbido» dell’Egitto, fidatissimo alleato dell’America ed elemento di stabilizzazione nei rapporti tra Israele e il mondo arabo. La democratizzazione dei Paesi musulmani non si è mai materializzata e quella stagione si è lasciata dietro due frutti avvelenati: la perdita di fiducia negli Usa da parte dei regimi arabi del Golfo (e anche di Gerusalemme) e la deriva terrorista lungo la quale sono scivolati i gruppi più radicali di quella primavera come è ben visibile, ad esempio, nel fenomeno dei «foreign fighters» reclutati dall’Isis in Tunisia.
Gli storici si chiederanno anche se sia stato velleitario il disegno obamiano di cercare di recuperare l’Iran sciita nel gioco diplomatico come fattore di stabilità capace di compensare la crescente instabilità di un mondo sunnita tormentato e diviso. Probabilmente l’implosione del regime saudita, con la famiglia reale spaccata da lotte intestine senza precedenti, si sarebbe verificata anche senza il ritorno di Teheran sulla scena politica internazionale. Ma l’accordo sul nucleare iraniano ha funzionato probabilmente da detonatore. E ora gli Usa devono correre ai ripari: sono furiosi per le mosse di Riad che interpretano come un sabotaggio della loro politica estera, ma non possono permettersi di perdere il bastione saudita che, indebolito dal crollo del petrolio e dalle dispute interne, rischia di diventare preda non dell’Iran sciita, ma del regime terrorista dello Stato islamico.