mercoledì 6 gennaio 2016

Corriere 6.1.16
La vita eterna mette d’accordo le fedi
«Dov’è, o morte, la tua vittoria?». Le parole dell’apostolo Paolo valide anche per islam e buddhismo
di Emanuele Severino


Sta in cima ai sentimenti e ai pensieri dell’uomo. La morte. La vita minacciata sin dall’inizio e infine strappata via dalla morte. La religione è tra le più antiche difese contro di essa. A questi temi si rivolge un libro per molti aspetti fuori del comune: Vedere oltre. La spiritualità dinanzi al morire nelle diverse religioni . Appena pubblicato da Lindau, a cura di Ines Testoni, Guidalberto Bormolini, Enzo Pace, Luigi Vero Tarca. I collaboratori, di grande levatura, sono una ventina. Messi a fuoco l’ebraismo, il cristianesimo, l’islam, le religioni dell’Oriente più presenti nella cultura occidentale. «Laddove è stato possibile — scrivono i curatori nell’Introduzione — si è cercato di proporre il tema ad autori che appartengono a queste diverse confessioni religiose» (e già questo impianto costituisce una delle maggiori novità del volume). Ad esempio, ad Amos Luzzatto per l’ebraismo, al cardinale Gianfranco Ravasi per il cristianesimo, e a Farhad Khosrokhavar per l’islam e a C. Namkhai Norbu per la mistica tibetana. Ma la prima parte del libro contiene i contributi della psicologia (Ines Testoni), della sociologia (Enzo Pace), della filosofia (Luigi Vero Tarca). Un intreccio complesso, dunque, che ha la sua origine nel congresso internazionale Seeing beyond in facing death. Vedere oltre dinanzi al morire , organizzato all’Università di Padova nel 2014 dal Master « Death Studies & The End of Life », di cui la stessa Testoni è direttrice.
Emerge dalla lettura il grande spazio comune delle religioni — la lotta contro la morte — ma anche il loro contrapporsi per il modo specifico in cui ognuna interpreta la morte e la combatte. Nella Prima lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo scrive le celebri parole che anche l’islam o il buddhismo potrebbero far proprie: «La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». E l’islam parla di «estinzione in Dio» e di «estinzione dell’estinzione», dove ciò che è estinto è la tendenza dell’uomo a identificarsi alla propria natura mortale, lasciandosi così andare nelle braccia della morte e godendo quanto è possibile della propria effimera vita. Ma per Paolo è la morte di Cristo a inghiottire la morte; per il buddhismo è invece il nirvana (il «non bruciar più» dei desideri che producono il dolore e la morte); per l’islam e l’ebraismo a inghiottirla è la pura misericordia di Dio per coloro che hanno condotto una vita buona.
Anche nelle pagine di questo libro serpeggia dunque il concetto di «annientamento della morte». Un abisso, questo concetto. Affascinante ma anche profondamente enigmatico. Se infatti la morte è intesa come annientamento (e ormai ovunque è intesa in questo modo), come è possibile che l’annientamento della morte riesca ad essere la «vittoria» su di essa? E se si precisa che la morte è il venire a esser nulla (la morte, dico: non l’agonia, il morire, che invece sono tragicamente esistenti), che senso ha annientare il nulla? Ma poi, come è possibile esser nulla?
Anche queste domande emergono, in Vedere oltre . Emergono altresì a proposito della straordinaria pagina di Eckhart, che Marco Vannini riporta al termine della sua Postfazione al volume. «Il mio essere essenziale - scrive il grande mistico cristiano nel sermone Beati pauperes spiritu — è al di sopra di Dio come inizio delle creature»; «perciò io sono causa di me stesso secondo la mia essenza che è eterna»; ma «quello che sono secondo la nascita deve perire ed essere annientato, giacché è mortale». Anche lui (perfino lui, forse si potrebbe dire) afferma l’annientamento.
Particolarmente interessante, in relazione al problema del terrorismo, il contributo di Khosrokhavar, direttore della Scuola di Alti Studi in Scienze Sociali alla Sorbona di Parigi. È intitolato La visione della morte nei giovani jihadisti europei . Dopo aver messo in luce le tipologie principali di questa visione, nella Conclusione: la morte come categoria fondamentale del jihadismo sottolinea il carattere «paradossale» di questo movimento. In esso infatti, da un lato, «la ricerca di una nuova utopia e il sentimento d’ingiustizia che domina il mondo si combina con la domanda di benessere individuale che il jihadismo sembra in grado di intercettare fra tutte le classi sociali».
È, questa, una situazione in grado di unificare «almeno tre strati sociali»: quello dei giovani delle banlieue , dei giovani e delle donne della classe media. Ma, dall’altro lato — e qui sta il paradosso, la contraddizione — «la categoria mentale dominante della psiche tormentata di tali individui è la morte».
Khosrokhavar interpreta il costituirsi di questo paradosso mostrando che per i giovani delle banlieue , convinti di essere emarginati dalla società in cui vivono, il sentirsi disposti a morire li fa sentire invulnerabili rispetto ai loro coetanei che temono la morte; e attribuiscono questo sentimento alla fede in Allah: un sentimento di rivincita, verso un mondo giudicato indegno e ingiusto, che si unisce alla convinzione di ricevere per il loro eventuale martirio una felicità eterna nell’al di là. Nei giovani della classe media, oltre al senso di superiorità per saper morire, oltre al sentirsi «eroi», il senso di emarginazione è sostituito dalla convinzione di superare una vita divenuta priva di senso, povera di emozioni e dove «le differenze tra uomo e donna sono state quasi annullate». Per le donne (e questo termine include anche le adulte e, mi par di capire, sia delle banlieue sia della classe media) gioca la loro adesione al modello di virilità maschile incarnato dal combattente per la fede, il sentirsi fiere dei loro uomini capaci di guardare la morte negli occhi.
Alla tipologia tracciata da Khosrokhavar vanno però aggiunti i fattori che ne rendono possibile l’esistenza. Come è noto, c’è la capacità dell’Isis di dialogare con quella gioventù e di convincerla a combattere e predisporsi alla morte gloriosa e salvifica. C’è l’organizzazione con cui l’Isis si finanzia vendendo petrolio; e c’è chi lo vende per sostenere la fede in Allah e chi lo vende per tornaconto personale, subordinando a esso tale fede. Sono fattori tra loro in contrasto, dove ognuno intende realizzare uno scopo che subordini a sé gli scopi di tutti gli altri fattori, riducendoli a mezzi. Ad esempio chi utilizza il petrolio per rafforzare la fede in Allah è oggettivamente in contrasto con chi utilizza questa fede per vendere petrolio a proprio vantaggio; chi muore per i motivi indicati da Khosrokhavar è oggettivamente in contrasto con chi va incontro alla morte, ad esempio, per anomalie psichiche.
Intendo dire che anche qui — come vado sostenendo anche su queste colonne — prevale il fattore più forte e che anche per l’Isis è destinato a venire il tempo in cui si renderà conto che il fattore più forte è lo strumento di cui tutti gli altri fattori si servono per realizzare i loro scopi (mostrando tutti, peraltro, di volere la vittoria dell’islam). Si tratta dello strumento in cui consiste la potenza resa possibile dalla tecnica guidata dalla scienza moderna: lo strumento che ognuno di quei fattori è interessato a potenziare, sino a che il suo potenziamento, e non la fede in Dio (o nel Dio denaro) diventerà lo scopo supremo che sottomette a sé tutti gli altri.