Repubblica 12.12.15
I demoni del terrore dalla P38 al Califfo
Quel filo insanguinato che lega i kamikaze ai populisti russi dell’800
di Benedetta Tobagi
AL TERRORISMO si adatta quanto sant’Agostino diceva del tempo: se non mi chiedi cos’è lo so, se devo spiegarlo cominciano i problemi. Ne parliamo di continuo, ma non esiste, ad oggi, una definizione condivisa del fenomeno. A complicare le cose, il terrorismo è sempre negli occhi di chi guarda (o, meglio, subisce): chi lo pratica si definisce piuttosto giustiziere, combattente per la libertà, martire, guerriero. I terroristi si ritengono più puri degli altri (che siano i corrotti “socialdemocratici” o i musulmani moderati) e, per contro, sovente bollano come “terroristi” i propri obiettivi (lo facevano, per esempio, le Brigate Rosse).
La sparatoria di San Bernardino, esempio inquietante di azione ibrida, mostra che il terrorismo è come un’ombra, per la società contemporanea: segue l’evoluzione delle sue forme, ne rivela le contraddizioni, cavalca i suoi virus endemici (nel 2015 le “semplici” sparatorie negli Usa sono state più di 300), strumentalizza l’immaginario cine-televisivo globalizzato, perverte gli strumenti più seducenti e comuni, come internet, Twitter, i videogiochi. È il ritratto deforme che, come Dorian Gray, abbiamo cercato di nascondere in soffitta. I terroristi non sono pazzi né diabolici: sono giovani, escono anche dalle nostre periferie, talvolta dalle università.
IN PAESI come il nostro, poi, con una lunga storia di terrorismo autoctono, si riaffacciano fantasmi ingombranti. Il terrorismo islamista e internazionale di oggi ha qualcosa in comune con quelli del passato? Cosa accomuna i ragazzi con la P38 ai populisti russi di fine Ottocento, ai militanti dell’Eta, agli uomini-bomba che si fanno esplodere in Israele, in Cecenia, fuori dallo Stade de France? I confini sfumano e si mescolano di continuo; tuttavia è possibile tracciare alcune distinzioni e linee di continuità, per provare a comprendere (e affrontare) meglio i fenomeni.
Mi limito al “terrorismo dal basso”, ossia praticato da soggetti non statuali, com’è anche lo Stato Islamico a dispetto delle proprie ambizioni. Sono i mezzi, non i fini, a fare il terrorista: entro la definizione accademica diffusa, “uso illegale della forza e della violenza, minacciato o attuale, per conseguire scopi politici, economici, sociali o religiosi attraverso paura, coercizione o intimidazione” (così nel Global terrorism database), distinguiamo, da una parte, i terrorismi che portano avanti rivendicazioni nazionali, politiche o identitarie frustrate, comunque obiettivi circoscritti, definiti. Olp, Ira, Eta, il terrorismo in Sudafrica durante l’Apartheid, quello anticoloniale in Algeria, appartengono a questa famiglia. Traggono forza dal radicamento popolare, dalla lunga catena di violenza che chiama vendetta e rende inaccettabili per molti gli “sporchi compromessi”, come li chiama il filosofo Margalit, che sono l’essenza della democrazia. La via d’uscità, la storia insegna, è pervenire, prima o poi, a una tregua e al negoziato.
Dall’altra, terrorismi “totalitari”, con obiettivi “smisurati”: l’annientamento del nemico, l’abbattimento dell’ordine (politico, economico, sociale) esistente, l’affermazione dell’unica verità o della vera fede (politica o religiosa che sia). Questo tipo di terrorismo è figlio dello sradicamento tipico dell’età moderna, che rende più tanto attraenti le fedi assolute. Laddove l’impeto verso la distruzione catartica prevale sulla visione utopica (dei terroristi), sconfina nel nichilismo: uccido per esistere, per affermarmi. In questi casi, quale base c’è per negoziare? Nell’Is, forse chi è orfano dei gradi dell’esercito di Saddam potrebbe “trattare”, per ricollocarsi in uno stato sunnita — e converrebbe far emergere simili spaccature. Ma il Califfato ha ben altre ambizioni ed è la jihad totale a sedurre i foreign fighters.
Si può riconoscere una linea di continuità tra le prime manifestazioni di terrorismo nella Russia zarista dalla seconda metà del XIX secolo (fucina dell’estremismo tristemente anticipatore di Necaev, col Catechismo del rivoluzionario) e i terroristi islamisti, passando attraverso gruppi come le Brigate Rosse e la Raf. I terroristi si considerano una “avanguardia armata” che attraverso azioni provocatorie ed esemplari trascinerà le masse in una rivoluzione o una guerra santa totale. Questa visione si trova anche negli scritti (1988) di Abdallah Azzam, ideologo islamista padre di Al Qaeda. La repressione, la reazione militare, i bombardamenti in risposta agli attentati da parte del nemico colpito, hanno un ruolo centrale nella loro strategia: esasperando la popolazione civile, la portano a simpatizzare per i terroristi: il “tanto peggio, tanto meglio” è una costante.
Quanto ai meccanismi di radicalizzazione, molti elementi accomunano i terrorismi degli ultimi 150 anni. Le dinamiche di condizionamento reciproco tipiche dei “gruppi chiusi” sono indispensabili per spiegare come tanti ragazzi “normali” siano arrivati a uccidere, o uccidersi, per una “causa”. Il terrorismo suicida (affermatosi in Libano negli anni Ottanta, poi mutuato dai palestinesi) porta all’estremo tendenze già presenti: la vocazione al sacrificio; la ricerca di mezzi d’attacco sempre più economici ed efficaci, sia in termini materiali che psicologici; la deumanizzazione che, insieme alla vittima, qui lambisce del tutto anche il carnefice: si riduce a “cosa”, arma, per dare un senso alla vita, per diventare eroe agli occhi degli altri militanti (dunque anche strumento di propaganda). Cruciale, da sempre il peso delle figure carismatiche di ex combattenti, spesso “ricollocati” come reclutatori e addestratori: di volta in volta reduci di Salò o della Legione Straniera, fedayn palestinesi, ex partigiani, mujaheddin vittoriosi dall’Afghanistan. Ricorrente la fascinazione “machista” per le armi e l’ostentazione di forza e coraggio fisco: evidente nei video di propaganda dell’Is, era diffusa anche tra i militanti del terrorismo politico nostrano, amanti di film come Mucchio selvaggio.
Sconcerta, ieri come oggi, scoprire che tanti terroristi non vengono dalla miseria, dai campi profughi o dai territori bombardati: figli di immigrati benestanti che si radicalizzano; studenti universitari nella Russia zarista; figli di notabili e ricchi ragazzi-bene nel terrorismo italiano. Il terrorismo contemporaneo è anche figlio del narcisismo, del deserto di speranze nel benessere, di ambizioni che cozzano con volontà o talento limitati, della smania di affermarsi in modo veloce e clamoroso. Per sondare questi abissi, resta insostituibile il microcosmo rappresentato da Dostoevskij nei Demoni (ripreso e arricchito da Camus): le meschine ambizioni di dominio del manipolatore Verchovenski, la violenza come fuga da un angoscioso vuoto interiore di Stavrogin, la purezza fanatica di Kirillov, pronto a uccidersi per fare l’uomo uguale a Dio, i meccanismi di ricatto e di seduzione psicologica. Il romanzo di Dostoevskij non è solo un grande affresco storico: l’analisi psicologica dei giovani terroristi resta, dopo 142 anni, ancora attuale. Ripartiamo da lui, e dai pochi altri artisti che hanno osato affrontare il tema (penso, ad esempio, al drammaturgo libanese Wajdi Mouawad in Incendi, del 2003), per pensare il nostro impensabile terrore quotidiano.