giovedì 3 dicembre 2015

La Stampa 3.12.15
Siria, dove è nata la civiltà può tornare la speranza
Da Urkesh a Ugarit, la popolazione si stringe attorno alle testimonianze del passato più remoto
E da lontano gli studiosi continuano a “scavare”
di Maurizio Assalto

Eppure c’è ancora un’altra Siria. Oltre la guerra, oltre gli orrori, oltre Assad che combatte i ribelli che combattono l’Isis che combatte Assad. Un paese che si sforza di continuare a vivere nonostante tutto, che perfino si stringe in difesa del suo passato, mentre altrove i fanatici ne fanno scempio. Non solo la tragedia di Palmira: c’è anche, per esempio, Urkesh, zona curda, nel montagnoso lembo settentrionale dell’antica Mezzaluna fertile. L’ha riportata alla luce nel 1984, insieme con la moglie Marilyn Kelly, l’archeologo italiano (ma una vita di insegnamento all’Università della California, dove ora è professore emerito) Giorgio Buccellati, che per celebrare il trentennale dello scavo ha curato una piccola stimolante mostra a Domodossola (aperta fino all’8 dicembre presso la Sala esposizioni «Antoni Gaudí»). Si intitola «Dal profondo del tempo», sottotitolo «All’origine della comunicazione e della comunità nell’antica Siria»: e fa un effetto spiazzante constatare come la civiltà cominciasse, seimila anni fa, là dove oggi si sta sfarinando.
Le prime città della storia
Già rilevata nel 1934 dall’inglese Max Mallowan con la moglie Agatha Christie, che in un paio di giorni la liquidarono come un insignificante sito di età romana, al lavoro certosino della missione guidata da Buccellati la collinetta di Mozan ha rivelato le tracce di uno sconosciuto regno hurrita, coevo ma di cultura differente rispetto al confinante impero accadico, e fatto risuonare dopo più di tre millenni il nome mai più pronunciato della sua capitale: Urkesh, una delle prime città della storia, risalente al 4000 a.C. e vissuta per 2700 anni (gli ultimi nella sfera d’influenza di Mari), ossia lo stesso tempo che separa la Roma di oggi da quella delle origini. Rappresentava un modello territoriale alternativo rispetto ai pianeggianti centri mesopotamici, che si astennero dal conquistarla in quanto utile al controllo di quelle risorse minerarie delle montagne che neppure la potenza di Akkad avrebbe potuto garantire.
L’antico nome hurrita del sito è stato rivelato dalle innumerevoli impronte di sigilli reali, come quelle di «Tupkish, re di Urkesh» a cui si deve, intorno al 2250 a.C., il grande palazzo di pietra e mattoni crudi, che nel clima locale consentivano una migliore coibentazione. Gli altri resti monumentali sono quelli relativi al tempio del dio padre Kumarbi (costruito nel 2400 circa dal re Tish-atal), con una imponente scalinata e 400 metri di muri lineari, e la grande fossa necromantica (abi), il luogo più sacro della cultura hurrita, canale di comunicazione tra il mondo dei vivi e quello dei trapassati, che doveva esistere fin dagli inizi della città. Ma sono soprattutto i frammenti di tavolette e di sigillature, ancorché meno appariscenti, a raccontarci il luogo e i suoi abitanti - la regina Uqnitum, sposa di Tupkish, la nutrice dei suoi figli Zamena, la responsabile della cucina reale Tuli (le donne sembrano avere avuto un ruolo importante nell’organizzazione sociale), il funzionario di corte il cui nome cominciava per Utap- (il resto è andato perduto). E i matrimoni dinastici con i vicini di Akkad, le relazioni diplomatiche, gli scambi commerciali...
Con l’Isis a 70 chilometri
Un tesoro in gran parte inesplorato. «Abbiamo due-trecentomila cocci ancora da studiare», dice Buccellati. «Sono depositati presso la casa della nostra missione di Tell Mozan, che oggi è occupata dalla milizia locale». Dal 2010 gli scavi sono fermi. «L’Isis è a 70 chilometri, la nostra zona è tranquilla ma sulle strade fuori dei centri abitati c’è il rischio dei sequestri di persona». Il lavoro però prosegue, anche a distanza: «Un operaio locale, che abbiamo addestrato a riconoscere e descrivere le ceramiche, invia tutte le settimane i tabulati su fogli excel con una trentina di attributi per ogni coccio. Questa documentazione arriva via email a un esperto in Danimarca che la suddivide per materia e la smista ai nostri colleghi sparsi per il mondo».
Il puzzle dell’antica Urkesh magicamente si ricompone in rete. Sul sito, invece, uno dei problemi è quello della manutenzione. Per prevenire i danni delle piogge e degli arbusti, i resti monumentali sono protetti con gabbie di ferro non invasive, appoggiate al terreno e ricoperte con teloni. L’altro rischio è quello dei vandalismi. E a scongiurarli interviene attivamente la popolazione, a cominciare dagli operai. «Abbiamo organizzato diverse conferenze per educarli alla conservazione», racconta Buccellati. «Abbiano cercato di far capire il nostro lavoro e spiegare il valore della storia. Il risultato è che si sono pienamente identificati nel sito, molti addirittura sono in grado di datare i reperti».
«Non lo fanno solo per guadagnarsi da vivere, ma proprio per passione, per un senso di orgoglio locale», testimonia Yasmine Mahmoud, una giovane archeologa venuta da Damasco, che con il collega Samer Abdel Ghafour funge da tramite con la base del professore in California. La scoperta del proprio lontano passato ha galvanizzato tutta l’area. «Nel dicembre 2014», aggiunge Buccellati, «abbiamo organizzato una mostra con grandi pannelli a Kameshli, una città a venti chilometri da Urkesh, al confine con la Turchia. Ed era commovente vedere la gente del posto all’inaugurazione, giovani e vecchi, tutti vestiti a festa...».
Il sito protetto dalle donne
Un’aria non dissimile si respira intorno al sito di Ugarit, l’odierna Ras Shamra, nei pressi di Latakia. Khozama al Bahloul, che dirige gli scavi dell’antica capitale canaanita, un’altra delle città più antiche del mondo, spiega che la vita continua «normalmente», anche se l’Isis è a una sessantina di chilometri e ogni tanto arriva una bomba, come quella che due settimane fa ha centrato un edificio davanti a casa sua, uccidendo 22 persone. «Il sito è protetto, se ne occupano le donne, tra mille difficoltà, perché gli uomini sono tutti impegnati in guerra. I reperti sono stati messi al sicuro, noi facciamo soprattutto attività di documentazione, per poter aiutare la polizia internazionale in caso di furti. Ma gli scavi continuano, per il tirocinio degli studenti, e a volte arrivano anche dei turisti, qualche volta perfino dall’estero: come la scorsa primavera, due comitive dalla Francia e dal Canada».
Qualcuno, ma solo dalla Siria, arriva anche a Urkesh. Buccellati manca da cinque anni, ma è come se fosse sempre lì: «Riceviamo costantemente foto che documentano lo stato del sito, ne abbiamo più di diecimila. Il nostro obiettivo è ripartire, quando sarà possibile, senza dover ricominciare da zero. Se dovessimo riprendere i lavori oggi, troveremmo gli scavi come li abbiamo lasciati nel 2010». Anche questo è un segno di speranza, come dice Yasmine: piercing al naso, occhi bistrati e lunghi capelli neri, lei non ha nessuna voglia di finire sotto il velo.