giovedì 3 dicembre 2015

La Stampa 3.12.15
Tasse, immobili e contrabbando
Ecco l’economia “di Stato” del Califfo
Il sistema di prelievi e affitti crea un Pil da un miliardo l’anno
di Francesco Semprini


Non di solo petrolio vivono il Califfo e il suo Stato islamico che, sebbene metta a bilancio centinaia di milioni all’anno in ricavi derivanti da oro nero e derivati, oggi può contare su una vera e propria economia di Stato.
Il Pil dell’Isis si aggira su circa 1 miliardo di dollari l’anno, a fronte dei quasi 3 milioni l’anno della sua fase embrionale, nel 2008-2009. Un’economia con diversi settori produttivi, creata per diversificare il commercio di petrolio, armi ed esseri umani. Sono le «sanzioni» la prima garanzia di guadagno, perché chi non paga con i soldo paga con la vita. Si tratta di un sistema con cui Al Baghdadi ha dato inizio alla fase 2 del Califfato, proclamando l’Islamic Real State, cioè uno stato «reale», effettivo.
Il giro di «zakat»
«L’Isis di giorno combatte, di sera riscuote», spiega al «New York Times» Louise Shelley esperta di crimine e terrorismo alla George Mason University. Gli sgherri del Califfo sono dei perfetti gabellieri. Guai a dire tasse però, si parla di «zakat», atti caritatevoli del buon musulmano. Per la legge islamica sono il 2,5% della ricchezza di un individuo, ma nel Califfato l’aliquota sale al 10%: «Siamo un Paese in guerra», è la «sacrosanta» spiegazione. Ci sono poi le immatricolazioni, i libri di testo per gli studenti, i pedaggi, i dazi sull’import. Non mancano le utenze, acqua e luce (1,20 e 2,50 dollari al mese), i prelievi sulle colture e gli allevamenti, le multe (salatissima quella per le luci posteriori rotte per chi guida nel deserto).
Case, uffici e negozi
Capitolo a parte merita l’«Islamic Real Estate», il mercato immobiliare del Califfato con una quantità di edifici pubblici di cui l’Isis si è riappropriata dall’«usurpazione» dei governi. Un patrimonio enorme divenuto assai prestigioso con la presa di Mosul. Prezzi popolari per abitazioni, uffici e negozi: a Bab al-Tob, quartiere della città irachena, un mercato di epoca ottomana con 60 negozi ha un affitto di 2500 dollari al mese. Il Diwan al-Khadamat è l’ufficio che si occupa della gestione delle pulizie (da 7 a 14 dollari al mese, a seconda della grandezza del negozio). Poi c’è il Diwan al-Rikaz, l’ufficio che gestisce gli introiti delle attività illecite (non per loro), contrabbando di petrolio, traffico di antichità ed esseri umani, e riscatti. Ma sotto la sua competenza ci sono anche attività tessili, imbottigliamento, cementifici e telefonia mobile.
Ogni movimento è iscritto a bilancio secondo un sistema di «reporting» che arriva ai vertici di Raqqa in quella cabina di regia che gli 007 hanno individuato nello stadio comunale, con quelle politiche e militari. A gestirle sono jihadisti di peso come Tirad al-Jarba, il signore dei confini, colui che tutto decide dei traffici da e per il califfato. In particolari quelli con il Sud della Turchia, il punto di partenza su cui le intelligence occidentali sono concentrate per individuare i punti nevralgici dell’«Islamic Real State».