La Stampa 28.12.15
Pinocchio bolscevico e la Volpe Palmira
Da Cappuccetto Rosso a Cenerentola, la reinvenzione delle favole in chiave politica nello scontro tra Dc e Pci all’inizio della Repubblica: uno studio di Stefano Pivato
di Massimiliano Panarari
Niente politica senza storytelling, ormai si sa. Ma queste benedette narrazioni, grosso modo, ci sono sempre state, sotto forma di ideologia e, talvolta, perfino di fiabe vere e proprie. Già, perché la narrazione favolistica si sposa benissimo con quella politica. Se ne avvalgono i comici (si pensi a Roberto Benigni con Berlusconi o a Maurizio Crozza con tutti, nessuno escluso) e, naturalmente, i politici stessi, come Pier Luigi Bersani con le sue metafore colorite (diciamo così…) che stando ad alcuni linguisti affonderebbero le radici nel mondo contadino (e nel suo senso del fiabesco).
La reinvenzione della favola in chiave politica l’ha letteralmente fatta da padrona in una fase di durissimo scontro ideologico quale quello della Guerra fredda, come racconta il nuovo libro dello storico Stefano Pivato. Un’epoca di ferro e fuoco, al cui inizio il mondo cattolico paventava che le orde di cosacchi (avanguardie dell’Armata Rossa) calassero su Roma e conducessero i loro cavalli ad abbeverarsi alla fontana di San Pietro, un’immagine «montata ad arte e propaganda» e riconducibile a una delle visioni di don Bosco.
In Favole e politica (il Mulino, pp. 188, € 19), accanto a questa e altre mitografie, vediamo sfilare Cappuccetto Rosso e Pinocchio, la trasfigurazione socio-ideologica del duello tra i ciclisti Fausto Coppi e Gino Bartali (con il comprimario Fausto Magni, adottato dal Msi), e una serie di leggende nere che adattavano al furibondo scontro tra i partiti gli archetipi dell’orco e del cannibale (quintessenza della minaccia verso quanto di più sacro e intoccabile possa avere una famiglia: i figli piccoli). Un repertorio spesso grottesco, che mixava agli elementi di derivazione favolistica altri di tipo fisiognomico, zoologico, satirico, e poi shakerava il tutto subordinandolo alla finalità essenziale, che era quella della propaganda nell’età della politica di massa, in cui il messaggio andava semplificato e reso appetibile a grandi numeri di elettori.
Dunque, come evidenzia Pivato, nella sua funzione ancillare rispetto alla costruzione del consenso la «favola politica» trasfigura l’impianto classico della fiaba e la concatenazione narrativa della storia. E, avendo un fine strumentale, vale in maniera molto bipartisan per l’arruolamento presso una parte politica come per quella rivale.
Dai fascisti ai comunisti
Così Pinocchio - protagonista di un romanzo reputato centrale per la formazione dell’identità nazionale - venne adottato da tutti gli orientamenti ideologici. Il fascismo lo convertì in una specie di superuomo dannunziano (un salto non male rispetto al modello originario dell’ingenuo «burattino»). Nel dopoguerra, si appuntarono su di lui le attenzioni interessate del rigidissimo (stile pezzo di legno, per l’appunto) pedagogismo comunista che lanciò sul settimanale a fumetti Il Pioniere le avventure di Chiodino, una rivisitazione del personaggio collodiano in lotta per la giustizia sociale e contro la discriminazione razziale «di matrice americana», immerso in un universo di operai e disoccupati, e che arrivò a farsi cosmonauta nel nome dell’internazionalismo «interplanetario» e sullo sfondo della battaglia per il primato spaziale ingaggiata da Usa e Urss.
Di fronte al fuoco di fila della stampa democristiana che lo descriveva alla stregua di un «Pinocchio bolscevico», lo stesso scrittore per l’infanzia engagé Gianni Rodari ammetteva apertamente il debito e la fonte di ispirazione. Il Pci aveva impugnato la laicità di Pinocchio come una delle bandiere della sua propaganda destinata ai più piccini, ma nel 1961 si interruppe l’embargo cattolico nei confronti della marionetta (accusata fino ad allora di assenza di senso religioso). Alla vigilia delle elezioni di quell’anno, la Dc pubblicò difatti l’opuscolo Le disavventure di Pinocchio, dove la sua via crucis tra kolkhoz, prigionie reiterate e inganni del «Gatto Pietruccio» (Nenni) e della «Volpe Palmira» (Togliatti) si concludeva miracolosamente bene grazie all’intervento di Geppetto, e con l’ammonimento alla «Fatina dai capelli tricolori» (la Repubblica italiana) di stare attenta all’imminente pericolo (elettorale) rosso.
L’Orco baffone Stalin
Gli eredi dell’Orco baffone (Stalin) erano in agguato, e la satira anticomunista era riuscita a far penetrare negativamente nell’immaginario collettivo la sua figura anche grazie all’assimilazione con i supercattivi - estremisti sotto il profilo politico oltre che pilifero - delle fiabe (da Mangiafuoco a Barbablù), oppure fumettizzandola, come nella versione comic della Fattoria degli animali di Orwell realizzata dal Psdi, nella quale Napoleone (che ne era l’allegoria) veniva trasformato in un più italico «Mustacchione».
Secondo il campaigning (come diremmo adesso) clericale e dc, i social-comunisti - che «mangiavano i bambini» - erano cannibali e draghi, mentre, per contro, quello delle sinistre annetteva Cappuccetto Rosso (nelle cui vesti si trovava un’Italia prossima a essere divorata dal Lupo-Stati Uniti) e Cenerentola (simbolo del Paese vittima dell’avidità dei governi complici dell’«imperialismo a stelle e strisce»). Insomma, favolisticamente di tutto di più, perché, a parte Babbo Natale, le opposte propagande reclutarono proprio tutti quanti.