La Stampa 1.12.15
Resistenza e Shoah, le memorie che si elidono a vicenda
Così la narrazione dello sterminio degli ebrei ha finito col prevalere sul paradigma antifascista: un saggio di Manuela Consonni
di Marco Belpoliti
Tra i primi giornali a riportare le notizie sulle deportazioni e lo sterminio operato dai nazisti nel febbraio del 1945, quando ancora il Nord è occupato e Mussolini vivo, è il periodico Israel. Il 4 febbraio un articolo apparso sul foglio ebraico ricorda tre ebrei uccisi definendoli «combattenti per la libertà». Il tema della deportazione degli ebrei italiani è in quel momento compreso dentro l’identità scaturita dalla Resistenza. La narrazione antifascista ha assorbito il tema dello sterminio del popolo ebraico.
Settant’anni dopo di antifascismo e Resistenza non si parla quasi più, o almeno non in quei termini, mentre il paradigma «vittimologico» della Shoah è dominante, come scrive Anna Foa nella introduzione al volume di Manuela Consonni L’eclisse dell’antifascismo (Laterza). L’antifascismo non è più il cemento dell’identità delle forze cattoliche, socialiste, azioniste e comuniste, per altro oggi dissolte, le stesse che alimentarono la lotta alla Repubblica di Salò e agli occupanti tedeschi; la lotta di Resistenza appare come un valore lontano, remoto, messo in discussione in libri e dibattiti, affidato alla celebrazione sempre più stanca del 25 Aprile. Al contrario, nel corso degli Anni 70 la Shoah è andata costruendo un suo modello memoriale, separandosi dalla Resistenza e definendo il tema della sua unicità, culminato nel Giorno della Memoria. Secondo la studiosa, che insegna nell’Università di Gerusalemme, la caduta del paradigma resistenziale sarebbe anche il risultato di questa nuova visione.
Tra storiografia e politica
Manuela Consonni ricostruisce questa storia attraverso l’asse fondamentale delle memorie scritte degli ex deportati, sia nel periodo immediatamente seguente la fine della guerra, dal 1945 al 1948, sia negli Anni 70 e 80, quando tre diverse ondate di testimonianze furono rese pubbliche. Si tratta di un lavoro importante che mette in campo problemi complessi di ordine sia storiografico sia politico, e che ha nella divaricazione tra memoria della Resistenza e memoria della deportazione ebraica il suo punto focale.
Fino alla metà degli Anni 70 il modello del deportato era quello eroico del politico rinchiuso a Mauthausen e Buchenwald, oppositore del fascismo, combattente della Resistenza contro il mostro nazista. Un posto minore, in una visione dominata dalla figura maschile, avevano le stesse figure femminili, nonostante tra le prime testimonianze scritte vi fossero diverse donne. Dello sterminio ebraico si parlava in modo ridotto, come di una specie di sottoprodotto del nazismo; il paradigma antifascista era fondamentale dopo la rottura della unità di governo tra democristiani e comunisti negli Anni 40; la lotta ideologica che ne seguì nei due decenni successivi fece sostenere ai comunisti che la Resistenza era stato il Secondo Risorgimento d’Italia; i campi di concentramento nazisti occultavano agli occhi dei militanti di quel partito l’esistenza dei Gulag sovietici. Manuela Consonni s’inoltra in questo terreno storiografico e arriva sino alla data del 1989, alla fine dei regimi comunisti all’Est, per quanto la successiva dissoluzione del Msi, la sua mutazione e cooptazione nei governi Berlusconi, abbia modificato ulteriormente il quadro d’insieme.
La posizione di Primo Levi
La crisi del paradigma resistenziale, tema che lo stesso Pasolini sulla scorta di Franco Fortini proporrà negli Anni 60 negli Scritti corsari in modo provocatorio (l’equivalenza fisica dei giovani fascisti e antifascisti), verrà affrontato in modo originale da Primo Levi, autore centrale nel libro di Manuela Consonni. Lo scrittore e testimone torinese è davvero una figura emblematica. La sua posizione diverge da quelle dominanti in ogni decennio, sia riguardo il tema generale della deportazione, sia rispetto alla questione dello sterminio ebraico.
Nel 1947 Levi titola il suo libro Se questo è un uomo, e non «Se questo è un ebreo», eppure descrive la deportazione degli ebrei ad Auschwitz; il libro inizia parlando del campo di Fossoli e degli ebrei internati senza fare menzione della sua cattura come partigiano, cosa che invece accade nella edizione uscita nel 1958, quella che oggi leggiamo. In un successivo articolo del 1955, «Anniversario. Deportazione», Levi mette in discussione la retorica della deportazione politica antifascista e parla delle vittime del nazismo (uomini, donne, bambini) rifiutando il facile paradigma «vittimario». In un’epoca in cui tutto appariva bianco o nero, scrive dei carnefici definendoli uomini alla pari delle loro vittime. Sono temi che non troveranno spazio nella lettura successiva della Shoah e dell’Olocausto diventate canoniche nel corso degli Anni 80. E nel 1986, pubblicando I sommersi e i salvati, metterà in dubbio la stessa memoria quale fondamento della testimonianza, aprendo la discussione sulla corresponsabilità delle vittime con il tema della «zona grigia».
Primo Levi appare controcorrente tanto rispetto alla vulgata antifascista dell’eroe resistente quanto al successivo martirologio delle vittime della Shoah. Il libro di Manuela Consonni ci aiuta a definire meglio le forme e i limiti delle diverse letture della deportazione, un contributo essenziale per comprendere quella che resta di una delle più grandi tragedie del XX secolo, che continua a gettare la sua lunga ombra anche sul XXI.