Il Sole 9.12.15
Una guerra al contrario
Una guerra del petrolio al contrario: più il conflitto in Medio Oriente si fa distruttivo e complicato e più il prezzo del petrolio scende.
di Alberto Negri
Un tempo bastava l’accenno di un conflitto per alzare le quotazioni e rimpinguare le casse dei Paesi produttori. Ma è un paradosso apparente. Oggi l’arma del petrolio si è rovesciata: l’Arabia Saudita ha fatto saltare l’Opec e le quote del tetto produttivo per mettere al tappeto l’Iran, la Russia e fronteggiare l’ascesa dello shale oil americano.
I sauditi hanno sbriciolato il Cartello dell’oro nero come l’Isis ha simbolicamente abbattuto con un bulldozer un altro cartello, di cartapesta, con la scritta Sykes-Picot ai confini tra Iraq e Siria, per significare l’affondamento dei confini coloniali.
Riad, forte di 700 miliardi di dollari in riserve ma pronta anche a emettere bond per finanziare le sue guerre, è disposta a giocarsi il tutto per tutto. Soltanto nella prima metà del 2015 ha perso 150 miliardi per il calo dei prezzi. La monarchia saudita, guida del fronte sunnita, è in difficoltà come non mai e ha trovato il suo Vietnam arabico in Yemen. Le cose vanno così male che si ritirano investimenti dai fondi sovrani, il sacro Graal della liquidità mondiale.
Gli americani pur di tenere in piedi la casa reale, divorata da lotte interne e generazionali tra i principi del sangue, hanno persino bombardato le truppe di Assad in Siria: un segnale di solidarietà a quel fronte sunnita che ha sbagliato clamorosamente i calcoli di un’altra guerra dopo quella condotta, sempre per procura, da Saddam Hussein contro l’Iran di Khomeini. Ma allora il petrolio era schizzato e gli sceicchi versarono 50 miliardi di dollari sonanti nella tasche del raìs iracheno per abbattere la repubblica islamica. La guerra sullo Shatt el Arab non modificò il confine di un centimetro ma ora le cose stanno diversamente: i sunniti si trovano la Russia nel Levante che tiene sotto tiro con i missili l’improvvido Tayyp Erdogan, una sorta di piazzista della jihad che buttando a mare Assad voleva mettersi in proprio come Sultano del Levante tra Aleppo, Mosul, intascando anche qualche pozzo di greggio. I prezzi bassi dell’energia aiutano anche lui, in difficoltà con il boom economico che si affloscia e ai ferri corti con Putin, il suo maggiore fornitore di gas.
Cambiano i tempi, cambia pure la tattica. Ora si fa destabilizzazione al contrario. Pur di sgretolare l’asse sciita Teheran-Baghdad-Damasco-Hezbollah le monarchie del petrolio sono disposte a bruciare le loro ricchezze, una mossa azzardata perché è proprio con la loro potenza finanziaria che hanno pagato i gruppi radicali islamici per tenerli lontani da casa propria. Ma non riescono a digerire l’accordo sul nucleare con l’Iran e la prossima fine delle sanzioni che porterà sul mercato altri 500mila barili di petrolio al giorno, con i tank persiani che galleggiano già come cetacei nelle acque del Golfo. Non solo: i nuovi contratti petroliferi iraniani presentati dal ministro Bijan Zanganeh, più appetibili per la major di quanto non si pensasse, sono un altro motivo di acuta irritazione. Per punire il ritorno di Teheran sui mercati i sauditi hanno sgretolato il Cartello.
Per questo la guerra del petrolio alla rovescia non annuncia rosei orizzonti. Per quanto vituperata dai consumatori, con l’Opec svanisce un’altra forma di organizzazione dei mercati: il caos del greggio a basso costo si può pagare molto caro in certi Paesi. Se a questo aggiungiamo altri fattori di incertezza, valutari e finanziari, ci rendiamo conto che sta venendo meno un sistema di regolamentazione con mezzo secolo di storia. E non è secondario che le quotazioni in discesa ridurranno ancora utili e investimenti: forse qualche major sparirà. I sauditi e i loro fiancheggiatori arabi, gli esempi peggiori di un Islam conservatore e retrogrado, ballano sul ponte di una petroliera inclinata come il Titanic. Se non fosse per le basi Usa nel Golfo e il patto leonino che lega Riad a Washington ci sarebbe da temere davvero. Ma è noto che gli Stati Uniti sono pronti a correre in soccorso dei prìncipi arabi più di quanto non siano disposti a fare per i traballanti leader europei: in cinque anni i sauditi hanno acquistato sistemi d’arma da Washington per 100 miliardi di dollari. Del resto gli americani ci possono chiedere: «Non volevate il petrolio a buon mercato? Eccovi serviti».
E quanto alla guerra nel Levante, alle sue centinaia di migliaia di morti, ai milioni di profughi e al terrorismo, il punto di svolta potrebbe essere economico. Se gli Usa e l’Europa firmeranno il Trattato transatlantico su commercio e investimenti (Ttip), gli americani torneranno ad avere un forte interesse per il mercato europeo e forse decideranno di sistemare i conflitti intorno all’Unione e con la Russia. Così quando la polvere si depositerà sui campi di battaglia si conteranno gli utili in bilancio, non i morti.