martedì 1 dicembre 2015

Il Sole 1.12.15
Gli amici-nemici dell’Occidente al fronte
di Claudio Gatti


Nel Medio Oriente, si dice, non ci sono amici o nemici permanenti. Dipende dal momento. Ma la categoria più pericolosa è una terza: gli amici-nemici. Il dubbio è che Turchia e Qatar appartengano a quest’ultima categoria. La certezza è che i loro interessi, sia tattici sia strategici, non coincidono con quelli degli Stati Uniti e dell’Europa. In Libia e in Siria in particolare, anziché sulle forze moderate turchi e qatarini hanno scelto di puntare sulle formazioni islamiste.
«Per il Qatar i motivi non sono ideologici, ma geopolitici. Doha riteneva che dalla Primavera araba sarebbero usciti vincenti movimenti islamici come i Fratelli musulmani. E ha deciso di appoggiarli non perché ne condividesse i programmi ma perché erano convinti fossero i cavalli vincenti e speravano di trarre beneficio dal loro successo», spiega Giorgio Cafiero, co-fondatore della società di consulenza Gulf State Analytics. «In più era un modo per innervosire i loro vicini/rivali sauditi, che vedono i Fratelli musulmani come il fumo negli occhi».
«La strategia politica dei qatarini è difficilissima da capire, anche perché a Doha non c’è pubblico dibattito e tutto viene deciso da un numero ristrettissimo di persone. Ma a mio parere il finanziamento a formazioni islamiste estere è una sorta di pizzo: il Qatar paga per non avere problemi con terroristi che potrebbero sceglierlo come bersaglio per via della base anglo-americana al Udeid», azzarda Daniel Serwer, ex vice ambasciatore americano a Roma oggi professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies di Washington.
La stessa logica, dei finanziamenti in cambio della non-belligeranza, potrebbe valere per la Turchia, che assieme al Qatar è l’unico altro Stato musulmano ad aver aperto il proprio suolo a basi americane o europee. Alcuni pensano che anche per questo Ankara abbia per lungo tempo lasciato che Isis si servisse pressoché liberamente della cosiddetta “Autostrada della Jihad”, e cioè la rotta dalla Turchia alla Siria attraverso la quale il Califfato di al-Baghdadi si è rifornito di armi e combattenti stranieri.
Ma se persino dopo che Isis ha scatenato una serie di attentati in terra turca Ankara non ha scatenato le proprie forze armate contro il Califfato limitandosi ad arginare i flussi delle sue linee di rifornimento e a concedere l’uso delle proprie basi agli americani, è perché in Siria la priorità non è quella di ridimensionare al-Baghdadi bensì i curdi.
«Nonostante gli annunci di rito, Ankara non ha mai assunto un atteggiamento veramente belligerante nei confronti dell’Isis. A parte controlli serrati al confine, ha fatto ben poco», conferma Wolfango Piccoli, direttore della ricerca della società di consulenza strategica Teneo International. «Per i turchi la priorità è combattere gruppi curdi ed evitare che creino una fascia da loro controllata lungo il confine che dalla Siria porti all’Iraq. E comunque Ankara non è disposta ad assumere un ruolo attivo contro Isis se non si risolve prima la questione di Assad. In termini di importanza, per i turchi l’ordine è: curdi, Assad, Isis. E questo significa che con l’Occidente c’è un problema di interessi chiaramente contrastanti».
Non è un contrasto da niente. Perché, come si legge in un recente rapporto del Servizio di ricerca del Congresso americano, «i curdi delle Unità di protezione popolare, o Ypg, sono ritenuti l’unica forza militare in grado di contrastare l’Isis sul campo». E poiché, dopo l’esperienza in Iraq, a Washington c’è scarso appetito per un intervento che preveda l’invio di militari, i curdi offrono l’unica possibile alternativa.
«L’Ypg è legato agli indipendisti del Pkk, il Partito dei lavoratori di Abdullah Öcalan, nemico storico dei turchi. E Ankara teme che se all’Ypg fosse consentito di creare un proto-Stato curdo in Siria, non solo potrebbe dare supporto tattico e strategico alle operazioni del Pkk in Turchia ma anche alimentare indirettamente gli aneliti indipendistici dei curdi della Turchia», osserva Cafiero, secondo il quale neppure dopo Parigi ci si deve aspettare che Ankara o Doha facciano scelte differenti: «A noi la loro strategia può sembrare paradossale, ma dal loro punto di vista non lo è affatto. Anzi, finora è risultata vincente. Perché entrambi i Paesi sono riusciti a promuovere interessi nazionali in diretto contrasto con quelli occidentali senza in alcun modo inimicarsi l’Occidente e pagarne il prezzo».
Basti pensare alla reazione di Usa ed Europa dopo l’abbattimento del Sukhoi-24 russo in volo lungo il confine turco-siriano: nessuno si è azzardato a criticare Erdogan. O alla vendita di elicotteri Apache al Qatar per 11 miliardi di dollari siglata il 14 luglio dell’anno scorso a Washington dal Segretario alla Difesa Chuck Hagel. In quell’occasione Hagel definì «di importanza critica» la relazione tra Usa e Qatar e dichiarò di essere «felice che continui a diventare sempre più stretta».
Insomma, la realtà è che gli Stati Uniti non ritengono di avere alternative nel teatro mediorientale. E quindi si tengono stretti amici-nemici come Turchia e Qatar.