venerdì 4 dicembre 2015

Corriere 4.12.15
L’inchiesta Olivier e gli altri predicatori della jihad che le leggi non riescono a fermare
L’«emiro bianco» in Francia e Zerkani in Belgio: il filo che unisce i terroristi da Charlie al Bataclan


PARIGI Google non basta. Ci vogliono ancora uomini in carne e ossa, per convincere un ragazzo a partire per la Siria, a diventare assassino degli altri e di se stesso. Alla fine tutto si tiene, come se ci fosse un solo filo che unisce la strage di Charlie Hebdo a quella di venerdì 13 novembre. Lunedì mattina l’aula numero 16 del tribunale di Parigi era quasi deserta. Eppure si celebrava la prima udienza del processo in contumacia a Salim Benghalem, il francese più celebre ai vertici del Califfato. Nel raccontare la parabola di un delinquente comune cresciuto nella banlieue di Bourg la Reine e diventato uno dei terroristi più ricercati al mondo, oggetto anche di bombardamenti ad personam, il giudice istruttore ha citato come spartiacque un suo «lungo soggiorno» ad Artigat, piccolo villaggio nella regione dell’Ariège, «presso un noto personaggio». Non c’era bisogno di aggiungere altro.
Nel febbraio del 2007 Abdulilah Qorel, nato in Siria, ha ottenuto anche la cittadinanza francese e un nuovo nome, Olivier Corel. Ma già a quei tempi era così noto da essersi guadagnato anche un nomignolo, «l’emiro bianco». Un anziano signore che da almeno vent’anni ospita nella sua fattoria chiunque sia desideroso di ricevere i suoi insegnamenti. «Ogni musulmano ha il dovere della jihad», questo è il messaggio. Il suo discepolo Benghalem si radicalizza in prigione. Ma una volta fuori è lui che riunisce i reduci della filiera del parco di Buttes Chaumont, una organizzazione che inviava aspiranti martiri in Iraq. Diventa amico e mentore di due personaggi che diverranno purtroppo famosi. Chèrif Kouachi, uno dei fratelli responsabili dell’attacco a Charlie Hebdo , e Amedy Koulibaly, l’autore del massacro all’Hypercacher dello scorso gennaio. Poi sparisce, in Siria.
L’ormai settantenne Corel invece non si è mai mosso dal suo villaggio. Sono gli altri che vanno a trovarlo. Nel dicembre del 2011 è lui a celebrare il matrimonio di Mohamed Merah, che da lì a pochi mesi farà strage a Tolosa, uccidendo nel nome dell’antisemitismo sette persone, tra le quali tre bambini. «Non sta a me giudicare quello che ha fatto» disse in una delle sue periodiche interviste. Un altro dei suoi clienti fedeli è Fabien Clain, l’uomo che dalla Siria ha rivendicato per conto dell’Isis gli attacchi di venerdì 13. Nel 2009 era stato coinvolto nell’inchiesta sulle minacce giunte al Bataclan, colpevole di aver organizzato un concerto di sostegno a favore del Magav, la polizia di frontiera israeliana.
I tre classici indizi non sempre fanno una prova. Non per l’emiro bianco, almeno. Non scrive, non è sui social network. La sua opera di proselitismo si riduce ai sermoni privati distribuiti a gentile richiesta di adepti pronti a partire per le terre dell’Isis. L’ex procuratore antiterrorismo Marc Trévidic ha parlato spesso dei limiti della democrazia. «Non esiste una legge che possa impedire a un uomo di dire quel che vuole a casa sua». Sarà anche vero che l’indottrinamento avviene sempre più spesso su Internet, ma il fattore umano ha ancora la sua importanza.
Bernard Godard, uno dei più grandi studiosi dell’Islam europeo, sostiene che la chiusura delle moschee radicali come quella di Lagny, decisa mercoledì dal governo, arriva fuori tempo massimo. «Ormai i luoghi di culto sono controllati dalla stessa comunità musulmana. L’indottrinamento alla jihad avviene in luoghi privati, dove la responsabilità morale risulta quasi impossibile da sanzionare».
I collegamenti che uniscono gli ultimi vent’anni di jihad franco-belga sono evidenti ma risultano eterei per il codice penale. Partendo dalla fattoria di Artigat si arriva fino alla strage di venerdì 13. Insieme a Benghalem, Fabian Clain accoglie in Siria Abdellahmid Abbaoud, la mente degli attentati parigini, ucciso nel blitz di Saint Denis, ed è anche il mentore di Sid Ahmed
Ghlam, il giovane algerino che lo scorso 19 aprile diede l’assalto a una chiesa di Villejuif. Uno dei quattro attentati che sarebbero stati ideati proprio da Abbaoud. Fallisce solo perché prima di dare l’assalto Ghlam riesce nell’impresa di spararsi a un piede.
Nelle 245 pagine del dossier giudiziario su Abbaoud spunta spesso il nome di Khalid Zerkani, una delle figure più note degli ambienti islamisti del Belgio. Lo chiamano il Babbo Natale della jihad, per la sua opera indefessa di propaganda fatta nelle strade di Molenbeek. Nel 2013, dopo il suo primo rientro in patria, Abbaoud si rivolge a lui, divulgatore di libretti come «Le 16 cose da sapere quando si parte per la Siria». Dopo molti tentativi a vuoto, lo condannano nel luglio 2015 a causa di un video girato di nascosto da una madre preoccupata per le sorti del figlio, nel quale arringa giovani jihadisti. Ma il danno ormai è fatto. Nell’ultimo mese anche l’emiro bianco è stato interrogato più volte. Gli è stato contestato il possesso di un fucile da caccia. Ha già pagato la multa. I kamikaze passano, i cattivi maestri restano.