Corriere 29.12.15
il neoliberismo è in crisi di risultati e di idee
Il diffuso senso di abbandono e di insicurezza nella società dei consumi pesa più delle diseguaglianze
Così le emergenze internazionali generano tensioni che possono venire strumentalizzate da una destra alla deriva
di Mauro Magatti
G li assetti sociali, politici e istituzionali dei Paesi avanzati sono sotto pressione. È evidente che siamo entrati in un nuovo secolo: ne saremo all’altezza?
In una società sommersa dai beni materiali e avvolta dal flusso continuo della comunicazione non è più la disuguaglianza a strutturare il conflitto sociale. Almeno apparentemente, a prevalere è piuttosto la questione della sicurezza e persino della integrità fisica: i singoli individui, inseriti in reti sociali sempre più piccole e fragili, si sentono esposti a tutto: alla violenza — dal terrorismo alla delinquenza spicciola — all’inquinamento, alle sofisticazioni alimentari, alle scorribande finanziarie. Vulnerabili e soli in una situazione di grande instabilità: come si fa a non essere arrabbiati?
In realtà, l’intensità di questo sentimento di abbandono ricalca in modo piuttosto preciso la curva delle disuguaglianze sociali. I ceti più abbienti e più istruiti avvertono solo debolmente questi rischi. Sia perché ne sono obiettivamente protetti; sia perché hanno più strumenti culturali a disposizione per leggere quanto sta avvenendo.
Sono invece soprattutto i ceti popolari — verso cui convergono quote sempre più ampie del ceto medio impoverito — a esserne interessati.
Le conseguenze sui sistemi politici, già evidenti da molti anni, esplodono oggi di fronte alle bombe dei terroristi e ai rischi di guerra. Con il risultato che in questa fase storica (e non è la prima volta!) la protesta sociale viene monopolizzata da partiti di una nuova destra.
Si guardi lo stato delle principali democrazie: dappertutto si vedranno partiti istituzionali — indifferentemente di centrodestra o di centrosinistra a seconda di contingenti situazioni nazionali — il cui obiettivo è cercare di salvare il salvabile. Sempre più spesso con un’alleanza di governo che mette insieme quello che rimane dei partiti tradizionali per mantenere la governabilità (scenario nel quale da tempo si trovano Germania e Italia e verso cui tendono le recenti elezioni in Francia e Spagna).
Tutto attorno — quasi fisicamente — ai palazzi del potere si organizzano i gruppi che crescono sfruttando il malcontento. Tra i quali prevale un immaginario legato all’idea di ordine e di pulizia. Non solo in Ungheria e in Polonia, ma persino in Svezia, a crescere sono i partiti che si richiamano a questi principi. Di fatto, dal Front national alla Lega fino all’America di Trump: nessun Paese, in questo momento, ne è immune.
Sono ormai anni che tale dinamica si è innescata. E per quanto si possa dire che gli anticorpi democratici sono forti, il cerchio sembra stringersi sempre di più. Anche perché, a causa delle persistenti instabilità, la base sociale che sostiene l’ordine sociale neoliberale tende a restringersi. Stretti come siamo tra le difficoltà interne e gli attacchi esterni.
La protesta va nella direzione di una società che vuole chiudersi. Quasi il ritorno di un pendolo: dopo la stagione dell’individualismo spinto, l’apertura viene vista come il fattore che radicalizza i problemi sociali. Nei fatti, la capacità di attrazione del pensiero neoliberista si è enormemente ridotta rispetto ai tempi di Reagan e della Thatcher. Anche perché, da molti punti di vista, è proprio il liberismo selvaggio una delle cause della situazione nella quale ci troviamo.
A difendere i resti di quella dottrina rimane solo un establishment — economico, istituzionale, culturale — tendenzialmente impaurito e privo di idee, che fatica a capire quello che sta accadendo: e cioè che il progetto dell’ultima parte del secolo — che si immaginava un individualismo sempre più spinto associato a un cosmopolitismo astratto — non funziona più.
Ancora dominate dall’etica individualistica e consumistica (che ovviamente rimane prevalente anche negli stessi ceti che protestano), le élite ostinatamente sembrano non saper riconoscere — e ancor meno interpretare — il bisogno diffuso di più legame sociale.
Letta con i parametri di chi è più forte e che trae dalla apertura numerosi vantaggi, la protesta è stata negata per anni in nome di un modello che ha fatto della mobilità, dell’innovazione, dell’efficienza, dell’eccellenza i soli punti di riferimento. Senza considerare che esso riguarda e avvantaggia, in realtà, solo una minoranza.
In questo gioco, l’acuirsi delle tensioni internazionali, con i conseguenti flussi migratori, rischia di innescare una spirale pericolosa. In mancanza di un’idea di futuro — e di risposte adeguate all’oggi — dilaga la paura di perdere quel poco che si ha. Tanto più per i tanti per i quali non sembra più possibile darsi un positivo orizzonte di vita. Un’ombra che avvolge tanto la popolazione anziana quanto quella giovanile. Attenzione però: a essere regressive sono le risposte prospettate, non la domanda che sale dalla società. Forse qui sta il punto, che continua a essere rimosso: una volta che la storia ci ha costretti a lasciare alle spalle il neoliberismo, quale modello di crescita capace di combinare la proiezione al cambiamento con il bisogno di radicamento è possibile immaginare?
È nella difficoltà a rispondere a questa domanda che si misura l’inadeguatezza dell’offerta politica di questi anni. Per colmare il divario che si è accumulato tra la vita delle persone e i modelli teorici di riferimento, occorre aggiornare al più presto le nostre mappe cognitive e concettuali. Reintegrando il bisogno di sicurezza nella cornice della nostra vita sociale. Nell’idea stessa di crescita. Abbiamo poco tempo. Ma la risposta giusta può nascere solo se si ascolta e si risponde alla domanda che sale dal profondo delle nostre società.