venerdì 18 dicembre 2015

Corriere 18.12.15
La laicità francese ha fallito serve un nuovo modello
Errori Il terrorismo ha sfruttato una globalizzazione che elude il controllo degli Stati nazione
Pesca nello scontento cronico di una situazione economica e sociale non più sostenibile L’unica soluzione è coordinarsi a livello europeo sui migranti
Coltivare un’identità esterna a quella del Paese di residenza crea problemi
di Mauro Magatti


Le vicende di questi ultimi tempi mettono a nudo le gravi difficoltà nelle quali si ritrova il modello della laicità francese. Ci sono infatti almeno tre aspetti che appaiono oggi problematici. Il primo riguarda la possibilità di coltivare un’identità esterna a quella del Paese di residenza. È uno degli effetti della globalizzazione: a prescindere da dove ci si trovi a vivere è molto facile oggi comunicare, fare affari, raggiungere il proprio Paese d’origine. I terroristi di Parigi sono stati probabilmente addestrati in Siria e hanno comunque sfruttato una rete organizzativa sovranazionale. Ciò costituisce un evidente problema per il modello della laicità che presuppone invece uno Stato nazionale in grado di esercitare il monopolio identitario. Specie in Europa dove le frontiere sono state aperte con estrema disinvoltura.
Il secondo aspetto problematico ha a che fare con i cronici fallimenti nei processi di integrazione sociale e economica. La laicità alla francese fallisce poiché non ha più le risorse né le capacità per sostenersi. Oltre alle inefficienze, sono le risorse che in un contesto di economia aperta vengono a mancare. Come dimostrano chiaramente le tante banlieue dove la promessa di cittadinanza viene nei fatti sistematicamente negata. Non ci vuole molto per capire, come si è peraltro ripetuto mille volte, che i ragazzi abbandonati dallo Stato, dall’economia e dalla società sono le prede ideali dei gruppi estremisti.
Il terzo aspetto ha a che fare con il deterioramento, nella sfera pubblica, dei canoni di rispetto reciproco. In nome di una male interpretata idea di libertà di espressione, il positivo superamento di ogni censura è stato inteso come licenza di ingiuria e offesa. Formando una spirale che finisce per alimentare risentimento e odio sociale. In un mondo in cui tutto può essere detto e fatto, l’onere della sopportazione non viene abolito: semplicemente si sposta sulle spalle di chi è reso bersaglio.
La situazione storica nella quale ci troviamo a vivere — con interi Paesi islamici in pieno subbuglio politico e religioso e la contemporanea presenza di una consistente minoranza di cittadini di quella stessa religione nelle nostre città — pone il problema (non solo alla Francia) di quale modello di integrazione si possa e si debba seguire.
Tornare indietro, cioè ricreare le condizioni di plausibilità per il modello della laicità, comporta superare i tre aspetti sopra ricordati. Cosa molto difficile. Soprattutto per Paesi come la Francia, la Germania e l’Italia che oggi avrebbero difficoltà a invertire il processo di integrazione europea.
Si tratta allora di ridiscutere, con maggiore adeguatezza, alcuni capisaldi comuni di un modello sostenibile di integrazione. Muoversi per questa via, che allo stato in cui siamo sarebbe quella più ragionevole, comporta affrontare almeno due temi.
Il primo è quello di cui si sta parlando da mesi: una politica europea seria e coordinata per i profughi e un controllo più accurato delle frontiere. Facile a dirsi, difficile, pare, a farsi.
Una tale questione, per quanto urgente, non è però la più importante. La società europea nel suo insieme — e le diverse società nazionali al suo interno — ha bisogno di chiarirsi le idee attorno al rapporto da tenersi con la popolazione islamica.
Anche su questo punto il modello della laicità francese ha mostrato limiti evidenti: negare persino la visibilità della fede religiosa nella sfera pubblica, nelle condizioni sopra ricordate, non è una buona idea. Ciò che va piuttosto chiarito, come ha scritto Claudio Magris sul Corriere della Sera , sono i diritti e i doveri delle comunità di fede musulmana. Sia dentro i confini europei che fuori. A questo proposito si possono avanzare due considerazioni. La prima riguarda l’urgenza di rilanciare, con le dovute chiarificazioni, il principio della libertà religiosa, affermato da tutte le istituzioni internazionali. In un’epoca di migrazioni, la libertà religiosa va resa una priorità sul piano concreto dei rapporti internazionali, vincolandola al principio di reciprocità. Una linea d’azione che deve arrivare a responsabilizzare le stesse comunità religiose qui residenti, che di norma mantengono stretti legami etnici o nazionali: il riconoscimento in Europa non può essere indipendente da quello che accade nei Paesi di origine.
La seconda considerazione nasce dalla riflessione sul modello italiano, specialmente sullo strumento del concordato. Trattandosi di soggetti che hanno un importante ruolo sociale, le chiese devono essere disposte ad assumere una esplicita riconoscibilità pubblica, con precisi diritti e doveri, che le renda responsabili e leali nei confronti delle istituzioni. L’idea che i gruppi religiosi costituiscano un affare esclusivamente privato finisce per creare enclave semiclandestine. Cosa oggi del tutto inaccettabile.