giovedì 10 dicembre 2015

Corriere 10.12.15
Iraq: chi volle la guerra. Le poche voci diverse
risponde Sergio Romano


Ora tutti scrivono che la guerra in Iraq per deporre Saddam Hussein è stata una grossa, e non unica, sciocchezza degli Stati Uniti.
Viene da chiedersi: perché non sia stato detto subito? Si credeva davvero che si trattasse
di esportare la democrazia in un Paese islamico?
Domenico Spedale

Caro Spedale,
Come ha scritto Francesco Verderami sul Corriere del 26 novembre, Silvio Berlusconi sostiene ora che nel 2003, quando era presidente del Consiglio, aveva «implorato George W. Bush, in tutti i modi, per non muovere guerra all’Iraq». È possibile, ma a me sembrò che in quella circostanza il leader di Forza Italia volesse soprattutto conquistare a Washington i galloni del partner fedele e affidabile. Credo che se l’Italia non si fosse tappezzata di bandiere arcobaleno e Giovanni Paolo II non avesse condannato la guerra, il governo avrebbe mandato in Iraq un contingente di truppe combattenti. Il compromesso fu l’invio di un corpo che avrebbe dovuto contribuire alla ricostruzione dell’Iraq: missione impossibile là dove, dalla «vittoria» americana a oggi, non si è mai smesso di combattere.
Berlusconi non fu il solo leader europeo che rispose all’appello degli Stati Uniti. Tony Blair credette che la partecipazione del suo Paese all’intervento avrebbe consolidato i legami privilegiati fra Londra e Washington. Il Premier spagnolo Aznar aveva mire non diverse da quelle di Berlusconi. I polacchi volevano dare una dimostrazione del loro stile coraggioso e cavalleresco. Altri ritennero che non sarebbe stato prudente negare agli americani una presenza, sia pure simbolica.
Vi furono, tuttavia, fra gli Alleati degli Stati Uniti, le voci «stonate» del Belgio, della Francia e della Germania. La più esplicita fu quella della Francia. In un discorso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il ministro degli Esteri francese, Dominique de Villepin, sostenne che gli ispettori dell’Aiea (Agenzia internazionale per la energia atomica) a cui era stato dato il compito di accertare la presenza in Iraq di installazioni nucleari, non avevano ancora completato la loro missione. E aggiunse: «La guerra può sembrare la scelta più spedita. Ma occorre ricordare che dopo avere vinto una guerra occorre costruire la pace. Non lasciamoci ingannare dalle nostre illusioni. La costruzione della pace sarà lunga e difficile perché occorrerà salvaguardare l’unità dell’Iraq e ricreare una durevole stabilità in un Paese e in una regione duramente soggette all’intrusione della forza».
Villepin parlò anche dei rapporti del regime iracheno con Al Qaeda, spesso invocati dalla diplomazia americana in quei giorni, e aggiunse che «niente, allo stato delle cose, dimostrava l’esistenza di questi legami. Siamo certi che questo intervento non abbia l’effetto di esacerbare le divisioni — fra società, culture e popoli — quelle divisioni che favoriscono il terrorismo?».
Fu chiaro, dopo quel profetico discorso, che la Francia, se vi fosse stato un voto, avrebbe opposto il suo veto. La reazione americana fu adirata e in qualche momento isterica. Il serio ammonimento di Villepin fu considerato una manifestazione di smemorata ingratitudine per il ruolo degli Stati Uniti nella Prima e nella Seconda guerra mondiale. Dovettero passare alcuni mesi e scoppiare parecchie bombe nelle vie di Bagdad perché gli Stati Uniti cominciassero a riflettere sulla saggezza della loro scelta.