domenica 8 novembre 2015

MISCELLANEA
SUL DOMENICALE DEL SOLE 24ORE 8.11.15
QUI DI SEGUITO SEGNALIAMO ALCUNI ARTICOLI DAL GIORNALE DI OGGI

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Filosofia politica
La prospettiva è araba
di Sebastiano Maffettone


Assai di rado capita di leggere un libro assieme così affascinante come I Canoni dello sguardo di Hans Belting. La lettura del testo di Belting non è sempre semplice e il titolo italiano ahimé non riproduce quello originario (che è !Firenze e Bagdad…), ma poco importa. Il tesoro è nelle pieghe di una prosa asciutta e rigorosa e sta all’incirca in quanto dice il sottotitolo (anche questa modificato dal tedesco che recita l’equivalente di “una storia mondiale dello sguardo”). Lo studio in questione verte sulla natura e la funzione della prospettiva lineare vista come forma simbolica generale ed esaminata interculturalmente. La prospettiva di cui si parla è quella la cui invenzione noi attribuiamo al Rinascimento fiorentino, e naturalmente non abbiamo torto nel farlo. Quello che però, nella maggior parte dei casi, ignoriamo è che dal punto di vista logico e storico la prospettiva lineare è un’invenzione araba. Alle sue basi c’è il tentativo di risolvere la matematica e la fisica della visione di quel grande scienziato irakeno che fu Alhazen (vissuto intorno all’anno mille). Ci si chiede a questo punto come mai una scoperta tanto creativa abbia avuto bisogno di secoli e di tanti chilometri (per l’appunto quelli da Bagdad a Firenze) per realizzare le sue premesse in maniera completa. La risposta sta nel divieto di immagine che caratterizza la cultura arabo-islamica. L’Occidente è in grado di trasformare la scienza in immagine, ma il mondo arabo non può seguirlo su questa linea. Se ne possono tratte due conclusioni direi sconcertanti. Da un lato, il nostro modo di vedere abituale che divide le “due culture”, quella scientifica e quella artistica, ha poco senso se pensiamo alla prospettiva lineare e alla sua centralità estetica. Si tratta infatti di un oggetto scientifico che diventa struttura fondante del discorso estetico. Dall’altro lato, la distinzione tra Occidente e Oriente e ne esce enormemente ridimensionata.
La prospettiva nasce in Irak, trionfa in Italia, e soprattutto – come dice Belting in pagine intellettualmente appassionanti- ritorna come strumento di imposizione coloniale. In India, in Cina, In Giappone e persino nel mondo musulmano –come ci ha fatto scoprire, tra gli altri, Pahmuk in un famoso romanzo - la prospettiva ritorna sull’onda del potere politico ed economico occidentale addirittura come metodo di conversione. Accettare la prospettiva diventa così un modo per partecipare al clima della modernità. Non senza ironia implicita, Belting mostra come lo strumento analitico originalmente (medio)-orientale viene impiegato dall’Occidente per catechizzare gli orientali…Le conseguenze politico-culturali della tesi di Belting sono tanto evidenti quanto scioccanti: il mito dell’Occidente imperialistico fondato sulla razionalità matematizzante della prospettiva lineare non è Occidentale! È invece una filiazione della avanzata cultura scientifica del Middle East. Il tutto si complica se seguiamo le avventure della “camera oscura”, sempre sulla scia di Alhazen e i percorsi del Rinascimento fiorentino tra Brunelleschi e Piero della Francesca. Di certo, si evince dal libro la necessità di uno sguardo meno provinciale e più globale sull’arte visuale in specie e sulla storia della cultura in genere.
Hans Belting, I canoni dello sguardo: Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente , (trad.it. dal tedesco di Maria Gregorio),Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 302, € 43,00

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Le metropoli bibliche
Da Babilonia a Gerusalemme
di Gianfranco Ravasi s.j.


«Dio fece il primo giardino, Caino la prima città». Questa battuta, apparentemente paradossale, del saggista e poeta inglese del Seicento Abraham Cowley in un suo scritto dedicato al Giardino, ha un’indubbia verità letteraria e sociologica. Infatti nel libro biblico della Genesi si legge che «il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (2,8). Poco dopo, però, si afferma che «Caino divenne costruttore di una città alla quale impose il nome di Enoch, suo figlio» (4,17). Sappiamo effettivamente che gli immensi agglomerati urbani delle metropoli recano un’impronta “cainita” perché diventano la sede di grovigli sociali oscuri, come già sottolineava nel 1965 il sociologo-teologo Harvey Cox in un saggio divenuto presto popolare, La città secolare: «Urbanizzazione significa una struttura di vita in comune nella quale dominano la diversità e la disintegrazione delle tradizioni, un tipo di impersonalità, un certo grado di tolleranza e di anonimità che sostituiscono le sanzioni morali tradizionali e le conoscenze codificate».
E da questa rilevazione sono sorte tante altre analisi sugli effetti dirompenti di una convivenza in spazi artificiosi e ristretti, veri e propri “non luoghi” ove è assente il clima di dialogo proprio dei villaggi e delle prime città-grembo. Con un’altra battuta sintetica, questa volta di uno scrittore americano, Erskine Caldwell, e del suo famoso romanzo La via del tabacco, si sarebbe tentati di dire che «la vita della città non è stata creata da Dio». Non per nulla, sempre nelle prime pagine della Genesi, a incombere è Babilonia, la capitale imperialistica, che vuole sfidare sia Dio con «una torre la cui cima tocchi il cielo», sia l’intera umanità imponendo un’unica lingua e un’unica nazionalità col risultato di dar origine a un antitetico pluralismo dispersivo e confusionario, generando in tal modo il passaggio da una globalizzazione forzata a una “glocalizzazione” devastante (si legga Genesi 11,1-9).
Detto questo, bisogna subito aggiungere che una simile verità è indubbiamente parziale perché è altrettanto vera la definizione presente in un frammento del poeta greco Simonide (VI-V sec. a.C.) che celebrava «la città come maestra dell’uomo». La stessa Bibbia nella pagina citata, che vede Caino come primo artefice di città, nota però che fu proprio nella discendenza di quei primi “cittadini” che apparvero le arti e le scienze. Infatti ci fu un certo Iubal (un nome che potremmo liberamente tradurre come “tromba”) che «fu il primo di tutti i suonatori di cetra e di flauto», mentre un altro abitante di nome Tubal-Kain, «il fabbro, fu il padre di quanti lavorano il bronzo e il ferro» (Genesi 4,21-22). E tutti sanno quanto sia imponente e gloriosa nella Bibbia e nella successiva tradizione storica e artistica la città di Gerusalemme, il cui nome viene allusivamente associato per assonanza al termine shalom, “pace”, anche se la matrice filologica originaria (shlm) già evoca una realtà positiva, «compiuta, perfetta, circolare».
Non per nulla le ultime pagine della Bibbia, i capitoli 21-22 dell’Apocalisse, sono occupati dalla mappa luminosa della nuova Gerusalemme, una città-sposa, eretta con gemme, popolata di abitanti felici, attraversata da fiumi fecondi, priva di tempio perché è Dio stesso che si è insediato tra quei cittadini, così che da essa sono espulsi quei tenebrosi figuri che imperversano negli attuali agglomerati urbani, cioè «la Morte, il Lutto, il Lamento, l’Affanno». Si riesce, da questo abbozzo minimale, che abbiamo finora fatto, a comprendere quanto sia decisivo il simbolo città per rappresentare gli antipodi che raccolgono l’arco intero dell’essere e dell’esistere, cioè il caos e l’ordine, la morte e la vita, il male e il bene. A questa grandiosa metafora, che è anche teologica, un biblista fiorentino, Luca Mazzinghi, ha dedicato una serie di riflessioni, partendo proprio da quella Babilonia che è spesso la cifra negativa destinata a classificare le sterminate metropoli che ora stanno costellando molte regioni del nostro pianeta, ove impera la “confusione” (secondo la libera etimologia biblica il nome “Babel” è associato a balal, “confondere”, mentre in realtà esso rimanda alla “porta di Dio” e, quindi, alla “città santa”).
Ma l’itinerario testuale-spirituale proposto dall’autore va oltre Babilonia e sosta necessariamente a Gerusalemme, la vera “città di Dio”, secondo le Scritture ebraiche, sede della presenza divina nel tempio e nella discendenza davidico-messianica nel palazzo reale di Sion. Una città madre di tutti i popoli (Salmo 87), che può sanare la dispersione di Babilonia attraverso l’esperienza “pentecostale” descritta negli Atti egli Apostoli: «Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo... La folla rimase turbata perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (2,5-6). Eppure anche dalla Gerusalemme storica non è del tutto esorcizzato il male, anzi, come denuncia in apertura al suo libro il profeta Isaia: «Come mai la città fedele è diventata una prostituta? Era piena di rettitudine, vi dimorava la giustizia, ora è piena di assassini!» (1,21).
Mazzinghi fa una puntata anche in un’altra città tradizionalmente segnata nella Bibbia dal timbro negativo dell’essere principio di oppressione: Ninive, capitale dell’Assiria, nemica giurata di Israele. Là non vuole recarsi Giona, il profeta renitente alla chiamata divina: il suo nome in ebraico significa “colomba” (jonah), ma in realtà il suo è un cuore da falco nazionalista. Allo straordinario libretto-parabola che reca il suo nome e che narra la sua vicenda di obiettore permanente alla volontà divina considerata troppo generosa e aperta alla misericordia, viene riservato un capitoletto molto intenso che sfocia nell’evocazione di una lettera che nel 1991 il card. Martini indirizzò alla città di Milano intitolandola appunto con le parole che il Signore aveva rivolto a Giona: Alzati, va’ a Ninive, la grande città.
Effettivamente è più arduo – eppure sarebbe esaltante – percorrere il groviglio delle strade delle nostre città secolarizzate, ascoltarne le voci, incontrandone le miserie, sollevando i feriti dal loro sangue, infrangendo le solitudini, condividendo le attese, le speranze, le gioie. Le pagine dell’esegeta toscano mirano un po’ a questa meta. Non sono, infatti, un’analisi di taglio storico-critico, bensì sono frutto di un corso di incontri spirituali. Il testo biblico fiorisce, perciò, in percorsi esistenziali, il dettato è limpido e talora fervido, il respiro è ampio e si affida anche a testimonianze contemporanee. Non può, perciò, mancare un tópos caro a papa Francesco, quello delle “periferie”, sulle quali tra l’altro si sta esercitando “laicamente” anche Renzo Piano: «La Chiesa in uscita è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane».
Luca Mazzinghi, Abitare la città , Qiqajon, Bose (Biella), pagg. 152, € 15,00

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Elzeviro
Platone è meglio dell’«Italian Theory»
Roberta De Monticelli si scaglia contro lo scetticismo morale che pervade i costumi degli italiani e che non risparmia i filosofi
di Mario Ricciardi


Per chi ha conosciuto Roberta De Monticelli leggendo i suoi scritti teoretici, e in particolare L’ascesi filosofica (Feltrinelli, 1995), i lavori più recenti di questa filosofa sono stati, se non una rivelazione, una sorpresa. Da qualche anno, infatti, De Monticelli ha intrapreso un percorso di riflessione che l’ha portata a confrontarsi con una questione centrale del dibattito pubblico: il rapporto tra moralità e politica. L’ha fatto scegliendo una forma letteraria che ha precedenti illustri nella nostra tradizione: il sermone civile, un discorso che aspira a essere al contempo argomentazione ed esercizio pedagogico. A questa evoluzione ha fatto seguito un parziale mutamento delle letture di riferimento e dello stile, di qui la sorpresa di cui dicevo. Senza abbandonare del tutto i suoi autori, da Husserl a Jeanne Hersch, De Monticelli si è aperta nei suoi scritti recenti a orizzonti intellettuali diversi – come quello della teoria della giustizia e dell’etica pubblica post-rawlsiana – entrando in dialogo anche con interlocutori che non appartengono al mondo della filosofia: giuristi, studiosi di scienze sociali, intellettuali pubblici. La novità si avverte nella scrittura: che diventa tesa, procede a scatti, più vicina ai ritmi del parlato che a quelli del saggio accademico. Si ha quasi l’impressione che, presa dall'urgenza di fare i conti con i temi della vita pubblica, Roberta De Monticelli abbia ingaggiato un corpo a corpo con un avversario temibile, cui non riesce ancora a dare un nome. L’ultima testimonianza di questo scontro è Al di qua del bene e del male. Per una teoria dei valori. Un libro che segna probabilmente un cambio di passo rispetto ai precedenti, perché abbandona la forma del sermone civile e ritorna a modalità argomentative più prossime a quelle tipiche della filosofia.
La spiegazione di questo cambiamento si trova verosimilmente nel fatto che l’autrice abbia avvertito il bisogno di fare un bilancio delle sue esplorazioni «nello stato presente dei costumi degli italiani» (per riprendere il titolo di uno scritto di Leopardi di cui si avverte spesso l’eco nei lavori recenti della De Monticelli). In effetti, nelle pagine di Al di qua del bene e del male ci viene offerta una diagnosi di ciò che è andato storto nei nostri costumi, ovvero nel modo in cui agiamo, parliamo e pensiamo, e una proposta relativa alla cura di cui avremmo bisogno per tornare in salute. La ricostruzione dei sintomi da cui saremmo affetti è una delle parti più appassionanti e persuasive del libro: la cecità rispetto alla dimensione normativa del mondo sociale, ridotto a fatto bruto, l’indifferenza alle diverse dimensioni del valore, il rattrappirsi della sensibilità morale, l’apatia civile.
Più complessa è la parte terapeutica, che consiste essenzialmente in una serie di argomenti per confutare lo scetticismo morale. Qui la De Monticelli si impegna in una battaglia su diversi fronti: contro lo storicismo, contro il nichilismo, contro una certa lettura del pluralismo dei valori, e contro il relativismo. Devo dire che la parte sul pluralismo è quella che mi ha convinto meno. L’interlocutore principale con cui si confronta l’autrice, Isaiah Berlin, non è mai arrivato a una formulazione soddisfacente delle proprie tesi sul pluralismo. D’altro canto mi pare che la De Monticelli trascuri le tensioni concettuali della tesi dell’unità del valore di Ronald Dworkin, che viene presentato nel libro come il più illustre rappresentante di una tendenza antipluralista nel dibattito contemporaneo. Per menzionare l’esempio della libertà, ci sono buone ragioni per resistere alla normativizzazione di questo concetto. Distinguere la libertà dalla licenza è un’abile mossa che Dworkin si concede per eludere le obiezioni dei critici, ma il rispetto che dobbiamo alla verità ci impedisce di accettarla.
L’aspetto centrale di questo libro è costituito comunque dalla critica serrata alle tendenze intellettuali che, secondo la De Monticelli, avrebbero abdicato alla missione del Socrate dei dialoghi di Platone per abbracciare invece uno scetticismo morale che crea l’ambiente adatto per la corruzione dei costumi. Le pagine sul «pensiero della disperanza che si lamenta invano» sono vigorose e non prive di una certa perfidia. L’autrice non si lascia incantare dai fumi dell’Italian Theory, l’eredità che l’operaismo degli anni settanta ha lasciato al mondo. Giustamente la De Monticelli respinge l’idea che si possa criticare il capitalismo finanziario o la globalizzazione senza tener conto degli sviluppi che l’economia politica ha avuto dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Incapaci di fare i conti con gli argomenti libertari che, a partire dagli anni ottanta, hanno preso il sopravvento sul “consenso socialdemocratico”, gli Italian Theorists parlano d’altro. Chiudendosi nella riserva di dipartimenti in cui è improbabile imbattersi in una Roberta De Monticelli che rivolga loro domande imbarazzanti come quelle poste in questo libro sull’appropriazione di Heidegger e Schmitt da sinistra. Anche sui due tristi figuri recuperati dall’Italian Theory ci sono pagine sferzanti. Del primo ci offre un breve ritratto intellettuale che chiude la questione del rapporto tra la sua filosofia e l’adesione al nazismo: sì, la sua filosofia era nazista. Altrettanto spietata è con lo scritto sulla “tirannia dei valori” di Schmitt. L’autrice fa a pezzi “questo mediocre saggio” – che ha tanti estimatori nel nostro paese – lasciando il lettore liberale in uno stato di esultante simpatia, un po’ come il ragionier Filini quando Fantozzi urla cosa pensa della Corazzata Potëmkin. In questa dimensione critica, in cui si nota più forte la continuità con i sermoni civili pubblicati negli ultimi anni, c’è un richiamo vigoroso che l’autrice rivolge ai propri colleghi: agli educatori, ai filosofi, agli intellettuali. Non abdicare alla missione di Socrate, la ricerca della verità, anche se questo comporta andare contro la corrente.
Roberta De Monticelli, Al di qua del bene e del male , Einaudi, Torino,
pagg. 272, € 13,00

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Attualità del tomismo
Le ragioni di Tommaso
di Armando Torno


Il più razionale dei teologi vive oggi una nuova fortuna, come mostrano numerosi nuovi libri su di lui. Fu un attento cacciatore di «errori» del pensiero, prezioso per la storia delle idee
Il Novecento ha posto in evidenza, oltre l’ambito degli studi teologici, l’attualità di Tommaso d’Aquino. L’uso coraggioso della ragione, che per la fede è pur sempre un dono di Dio, la notevolissima capacità di analisi e la stringente logica (quest’ultima non è una caratteristica della teologia contemporanea) hanno riportato il pensatore al centro di molti dibattiti, nati anche in correnti laiche. Se, per esempio, qualche economista ha ripreso le sue idee riguardanti il diritto di proprietà o il commercio, Tommaso continua a restare pur sempre il riferimento indiscutibile per Dante: nella Commedia l’impianto dottrinale e astronomico è basato quasi interamente sulla sua opera. E questo senza contare che figure eminenti quali Jacques Maritain o Étienne Gilson, accanto a numerosi neoscolastici, ne hanno meditato attentamente il lascito, evidenziando pregi e utilità. Resta uno dei punti di riferimento dell’Occidente, noto anche come il “Dottor Angelico”. Sofia Vanni Rovighi sosteneva nel 1973 scrivendo un’introduzione: «Una storia della critica intorno a Tommaso d’Aquino dovrebbe abbracciare tutto o quasi tutto il pensiero dei filosofi e dei teologi cattolici dalla fine del XIII secolo a oggi».
Un simile discorso, comunque, non vuole essere di circostanza, giacché l’interesse per Tommaso continua e lo dimostrano le numerose iniziative editoriali che si moltiplicano, proponendo libri non effimeri. Le Edizioni Studio Domenicano stanno pubblicando la traduzione di tutta la sua immensa opera. Dopo la Summa Theologiae, riproposta in quattro tomi con il testo a fronte su doppia colonna, escono ora due volumi della “Catena Aurea. Glossa continua super Evangelia” nella traduzione di Roberto Coggi. Sono il quarto e il quinto (dei sette previsti) e contengono le parti dedicate a Luca. Di che si tratta? Del commento di Tommaso ai Vangeli. È l’analisi versetto per versetto, utilizzando in prevalenza le citazioni ritenute più interessanti dei Padri greci e latini dei primi secoli. Opera considerata dai predicatori per secoli una miniera a cui attingere spunti e interpretazioni, lo Studio Domenicano ne pubblica l’edizione integrale. Non era mai stata tradotta in italiano, anche perché sino a qualche decennio fa il latino era lingua conosciuta e letta da sacerdoti e teologi; oggi, accadendo il contrario, si mette almeno a disposizione qualcosa di prezioso non soltanto per l’esegesi. Mancano, per completarla, i due volumi riguardanti Giovanni (Matteo e Marco sono giù usciti) e va ricordato che questa è la prima edizione con il testo latino e la traduzione in una lingua moderna al mondo.
Innumerevoli gli esempi che si possono trarre. Per farne uno, diremo che Tommaso utilizza un passo di Ambrogio per rispondere al quesito posto dalla parabola del Buon Samaritano (Luca, 10, 29-37): «… Non è la parentela che rende uno prossimo, ma la misericordia, poiché la misericordia è secondo natura: infatti niente è così naturale quanto l’assistere uno che condivide la nostra natura». I termini utilizzati non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni per ricordare quanto sia attuale questa chiosa.
Un altro libro importante esce nella collana “Biblioteca di Cultura Medievale” dell’editrice Jaca Book, nella quale sono già apparse opere fondamentali quali Il Tomismo di Gilson. Ora vede la luce la Storia di san Tommaso d’Aquino di Guglielmo da Tocco, la più antica delle biografie sul celebre dottore domenicano (fu redatta tra il 1318 e il 1323). È curata da Davide Riserbato con un breve scritto di Inos Biffi e un’introduzione di Claire le Brun-Gouanvic. Si tratta dell’opera di un testimone diretto, giacché l’autore conobbe l’Angelico nel 1272-74; anzi, frequentò la sua scuola e ne udì la predicazione, diventando poi priore del convento di Napoli nel 1289, quindi a Benevento. Non pochi documenti parlano di lui come inquisitore.
Una biografia composta «per l’introduzione della causa di canonizzazione» (Brun-Gouanvic) che «impone un certo profilo del santo». «In particolare – nota Inos Biffi – ciò che anzitutto risalta in tale ritratto è l’astrazione dello spirito, che, mentre distrae e allontana san Tommaso dalla vita sensibile, associa la sua preghiera con fenomeni di estasi, di lievitazioni, di visioni, di lacrime, tutte disposizioni felici per la soluzione di ardue questioni di esegesi biblica». La Storia è divisa in due parti ampie: vita e miracoli; questi ultimi sono dettagliatamente raccontati (oltre bambini e adulti guariti da cecità, epilessia o tumori, febbri, fistole o morsi di serpenti, c’è anche il caso di un «somaro salvato da una caduta sulle Alpi»). Insomma, un resoconto che al di là di talune pagine contenenti qualche momento agiografico, elenca gli “errori” combattuti da Tommaso e diventa prezioso per la storia delle idee. Notiamo infine che proprio Inos Biffi, nell’ambito della pubblicazione delle sue opere complete in corso da Jaca Book, fa uscire nella sezione “La costruzione della teologia medievale” il volume I misteri di Cristo in Tommaso d'Aquino. La Summa Theologiae. È il quarto sul “Dottor Angelico” recante la firma del noto teologo e studioso del pensiero medievale. In tal caso Biffi indaga sui misteri di Cristo attraverso i molteplici strumenti che la Summa offre: dalla posizione del Salvatore nelle pagine di questa vastissima opera ai temi della verginità di Maria, dalla natività di Cristo alla teologia del suo battesimo. Potremmo aggiungere che Biffi reca riflessioni per una cristologia concreta, genere oggi raro, e Tommaso rappresenta metodi e modelli che non sono ancora da archiviare. Biffi, man mano escono gli opera omnia, ne offre un esempio. È il caso di prenderne atto. Anche - e soprattutto - nell’ambito della Chiesa.
S. Tommaso d’Aquino, Catena Aurea. Glossa continua super Evangelia , volume 4 e 5, Vangelo secondo Luca, pp. 648 e 696, Edizioni Studio Domenicano, Bologna,
€ 80 al volume
Guglielmo da Tocco, Storia di san Tommaso d'Aquino, Jaca Book, Milano, pagg. 320, € 15,00
Inos Biffi, I misteri di Cristo in Tommaso d’Aquino. La Summa Theologiae , Jaca Book, Milano, pagg. 238, € 25,00

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Storia economica
Siate grati ai Lumi
di Joel Mokyr


Joel Mokyr riceverà il Premio Balzan 2015 per la Storia economica: l’unico premiato in questa disciplina fu, 20 anni fa, Carlo M. Cipolla. La cerimonia si terrà al Palazzo Federale di Berna il 13 novembre, dove saranno premiati anche Hans Belting (per la Storia dell’arte europea 1300-1700), Francis Halzen (Fisica delle astroparticelle), David Michael Karl (Oceanografia)

L’Illuminismo ha fruttato? La domanda sembra sacrilega. Dopo tutto, il secolo dei lumi ci ha insegnato ad essere democratici, a credere nei diritti umani, nella tolleranza e nella libertà di espressione; tutti valori reputati fondamentali nel mondo moderno. Eppure non si può fare a meno di notare come, tra il diciottesimo e il ventesimo secolo, i paesi che hanno abbracciato gli ideali dell’Illuminismo si siano industrializzati ed arricchiti, mentre altri, come Spagna e Russia, siano rimasti indietro. Certo, la correlazione non implica un rapporto causa-effetto, ma questa visione resta suggestiva.
La sconfinata storiografia al riguardo si concentra principalmente sul ruolo che l’Illuminismo ha avuto nella nascita delle costituzioni democratiche e delle istituzioni ispirate agli ideali di uguaglianza, fratellanza e libertà. Questa prospettiva tuttavia mette in ombra alcuni degli effetti più incisivi e irreversibili del fenomeno: attraverso il progresso, esso ci ha resi ricchi e ha migliorato le nostre condizioni di vita.
Questo aspetto è in qualche modo sfuggito alle osservazioni degli storici, specialmente quelli di economia interessati principalmente all’analisi di fattori di mercato come risorse e prezzi. Ricondurre i cambiamenti economici a cause puramente economiche è tipico dell’approccio del materialismo storico, una teoria associata sì al marxismo, ma fatta propria anche da economisti del libero mercato. Sulla scia degli studi di John Maynard Keynes, recentemente si è iniziato a comprendere che anche la cultura può essere utilizzata nei modelli economici, sebbene il concetto non sia facile da definire e formalizzare.
Premio Balzan 2015 per la Storia economica
Un’idea scontata al giorno d’oggi, eppure rivoluzionaria in un periodo in cui la vita, per la maggior parte delle persone, era ancora quell’esperienza breve e difficile di mille anni prima. In questo contesto, una piccola comunità di intellettuali europei pose le basi per un cambiamento storico epocale.
Le radici di questo sviluppo si possono ricondurre a un momento ancora precedente. Il concetto di “conoscenza utile” che sta alla base dei progressi dell’Illuminismo può essere ricondotto alla concezione filosofica di Bacone. Nel suo Novum Organon, egli aveva infatti riconosciuto come la conoscenza dell’ambiente fisico fosse la chiave del progresso materiale: la scienza finiva così di essere una pratica atta a soddisfare bisogni metafisici o a celebrare la saggezza del creatore, ma diventava uno strumento di progresso. Perché questo potesse compiersi, la comunicazione scientifica divenne centrale. La cosiddetta repubblica delle scienze, una comunità transnazionale di scienziati, si adoperò per creare enciclopedie - quella di Diderot è forse l’emblema dell’Illuminismo - compendi e dizionari, che potessero facilitare la condivisione intellettuale nell’ottica del progresso umano. In questo modo prese sempre più campo l’idea che il progresso materiale fosse una conseguenza dell’applicazione della conoscenza utile.
La convinzione di Bacone secondo la quale un’applicazione sistematica della conoscenza utile avrebbe sospinto il progresso in modo irreversibile sembrava ormai divenuta realtà. Nel 1780, in una lettera all’amico Joseph Priestley, Benjamin Franklin, figura di spicco del movimento illuminista, esprimeva il proprio rimpianto per non poter vedere di persona ciò che il progresso, «il potere dell’uomo sulla materia» ormai inarrestabile, avrebbe riservato all’umanità nel futuro, e si augurava che la moralità potesse conoscere uno sviluppo altrettanto significativo.
In realtà il processo non fu rapido: il mondo naturale si dimostrò più complesso di quanto ci si potesse aspettare. Interi settori del sapere risentirono per decenni del lento sviluppo di discipline come la fisica, la chimica e la biologia, non ancora in grado di sostenere la ricerca. In campo medico, la scoperta del vaccino antivaiolo del 1796, rappresentò il maggior successo fino alla seconda metà del secolo successivo. Nel settore industriale, macchine eccezionali e innovative come la filatrice di Hargreaves non avevano elementi così innovativi rispetto alla conoscenza tecnica dei tempi di Archimede; e anche James Watt, nonostante il suo contributo eccezionale allo sviluppo dei macchinari industriali, non comprese fino in fondo la fisica del vapore. In ogni caso, nel XIX secolo si avverò il programma ipotizzato da Bacone: la sinergia tra invenzioni e applicazioni tecniche rese possibile un processo di interscambio continuo e duraturo che avrebbe dato vita a un progresso altrettanto continuo e inarrestabile. Il pieno controllo dell’energia elettrica, la diffusione dell’acciaio, la teoria dei germi della malattia e la chimica organica, eredità dell’Illuminismo, furono alla base della crescita industriale ed economica dell’Occidente. Per comprendere a pieno la portata di questa crescita basata sul continuo sviluppo della conoscenza utile, basta osservare come essa sia uscita indenne dall’esperienza devastante delle due guerre mondiali per continuare a rafforzarsi nella seconda metà del XX secolo.
I critici dell’Illuminismo hanno certamente ragione nell’osservare come questo fenomeno non abbia trasformato gli occidentali in angioletti. Gli ideali della rivoluzione francese si spensero in un bagno di sangue; la rivoluzione americana tollerò la schiavitù per 70 anni a venire; le nuove tecnologie furono messe al servizio dell’oppressione; il trattamento riservato a donne e bambini era spesso terribile. L’Illuminismo non ha posto fine alla barbarie e alla violenza, ma certamente ha segnato la fine della povertà nei Paesi che hanno seguito i suoi principi; non ha migliorato la moralità dell’uomo, ma ne ha migliorato i comfort materiali, l’accesso all’informazione e la salute.
Che lezione politica possiamo trarre da questa storia? Se è vero che alcuni di quei Paesi che hanno resistito alla diffusione degli ideali illuministi, come Iran e Myanmar, hanno pagato un caro prezzo in termini di sviluppo democratico ed economico, non si può non riconoscere come altre realtà, ad esempio quella cinese, siano riuscite a dar vita a un miracolo economico pur in assenza di vera tolleranza ed apertura. Resta da vedere se la Cina sarà in grado di assumere un ruolo guida in campo tecnologico senza adottare istituzioni più “illuminate”. La connessione tra ideologia, cultura e sviluppo economico è tutta da esplorare. In ogni caso, il nostro impegno per la supremazia dell’uomo sulla materia resta inalterato. Ci siamo abituati al concetto di un progresso costante, e abbiamo imparato una nuova lezione: mentre l’era dell’Illuminismo era gioiosamente ignara degli effetti ambientali dello sviluppo, oggi siamo consapevoli della necessità di operare in modo attento e intelligente nell’uso del progresso tecnologico. Benjamin Franklin sarebbe d’accordo.
Quindi, se abbracciamo questa prospettiva, in che modo l’Illuminismo ha condizionato le persone così da avere effetto sullo sviluppo economico? Gli scrittori e i filosofi che hanno dato vita a quello che noi definiamo Illuminismo erano un coacervo di scienziati e intellettuali uniti dalla convinzione che il miglioramento della condizione e della società umana fosse un obiettivo possibile, oltre che auspicabile.

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Vaccinati contro la miseria
di Angus Deaton
Premio Nobel per l’Economia 2015


La grande fuga dalla povertà ha una data di inizio: 1750. L’innesto anti-vaiolo innalzò di 25 anni l’aspettativa di vita. Ma nella salute restano le diseguaglianze
Circondati come siamo da orrori – la crisi dei rifugiati in Europa e in Medioriente, l’instabilità di questa regione, la guerra civile in Siria, la povertà di ancora settecento milioni di persone e l’approfondirsi quasi ovunque delle disuguaglianze –, tendiamo a dimenticare quanto il nostro benessere materiale sia elevato rispetto a quello dei nostri nonni, dei nonni di questi e di altre generazioni ancora precedenti. Intendo, per miseria, l’assenza di risorse materiali essenziali; ma è indigenza anche vivere in condizioni di cattiva salute, morire prima ancora di essere entrati nella vita adulta, o prima di avere sperimentato il piacere di diventare nonni. Anche dal punto di vista politico si sono fatti molti passi avanti; la democrazia si è diffusa e, come ha dimostrato lo psicologo e linguista Steven Pinker, si è straordinariamente ridotta la violenza: quella di singoli contro singoli – liberandoci dal rischio di aggressioni e omicidi – ma anche quella delle guerre e delle carestie, se non altro per la quota di persone coinvolte. Sono in buona misura un ricordo del passato anche le forme di discriminazione tradizionali, contro le donne, i neri, le caste più basse e gli intoccabili, gli omosessuali. Le carestie sono molto meno frequenti che in passato, e a provocarle sono quasi invariabilmente guerre o altri fattori politici.
Dovremmo smetterla dunque di prestare attenzione alle sole notizie relative all’oggi e ai disastri. Se adottiamo una prospettiva appena più ampia vediamo bene che la vita sta in realtà migliorando, e da molto molto tempo. (...)
Gli storici ritengono oggi che, per una parte lunghissima della sua storia, l’umanità non abbia sperimentato alcun progresso materiale. Per migliaia di anni se la sarebbe semplicemente cavata – a volte sì e a volte no. Solo di rado il cibo disponibile superava lo stretto necessario, quasi la metà dei bambini moriva prima di raggiungere l’età adulta, e i sopravvissuti soffrivano di malattie croniche per l’intera durata della loro esistenza. (...)
Intorno al 1750 qualcosa cambiò: siamo agli albori della prosperità di cui godiamo oggi. Di questa svolta sono state proposte molte spiegazioni diverse, ma è chiaro che l’Illuminismo europeo deve avervi avuto parte. Stanca di obbedire ciecamente alla chiesa e al trono, la gente iniziò a perseguire il proprio benessere e la propria felicità a modo suo. Si aprì a nuove idee e a nuovi modi di fare le cose. Partita in Gran Bretagna e di qui diffusasi in Olanda, negli Stati Uniti e quindi nel resto dell’Europa nord-occidentale, la rivoluzione industriale diede inizio, per la prima volta nella storia umana, a una crescita economica continua.
Sono due gli aspetti della rivoluzione industriale sui quali desidero richiamare l’attenzione. Il primo è costituito dalle conquiste nel campo della salute che la accompagnarono, cosicché i passi avanti nelle condizioni di vita si intrecciarono con i passi avanti nella longevità. Non penso che le conquiste in termini di salute siano state causate dalla crescita, bensì che l’una e le altre siano frutto delle stesse forze profonde: l’indagine scientifica applicata e la conoscenza utile. Il secondo aspetto è rappresentato dallo straordinario approfondirsi delle disuguaglianze globali, molte delle quali sono ancora con noi.
Una delle vicende più interessanti, dal punto di vista delle conquiste in campo sanitario, è quella riguardante il vaiolo, una malattia oggi scomparsa ma un grave flagello per buona parte della storia umana. Prima del XVIII secolo, in Inghilterra, pochi sfuggivano al contagio, benché molti riuscissero comunque a sopravvivere. Una dama della corte di Giorgio I, Lady Mary Wortley Montagu, famosa bellezza del suo tempo, si ammalò anch’essa di vaiolo da adulta, nel 1715. In quanto moglie dell’ambasciatore inglese in Turchia, Lady Mary ebbe modo di vedere praticare la tecnica nota come vaiolizzazione o inoculazione. Si prelevava del materiale biologico infetto da una vittima del vaiolo e lo si iniettava sottocute a una persona sana, la quale, se fortunata, diventava immune alla malattia per il resto della vita. Sperimentata questa tecnica su alcuni detenuti e bambini abbandonati, re Giorgio acconsentì alla vaiolizzazione dei suoi nipoti, nessuno dei quali morì. Nel corso del XVIII secolo, questa pratica si diffuse ampiamente tra gli aristocratici inglesi, e grazie ad essa e ad altre innovazioni in campo sanitario – tra le quali l’introduzione, nel 1799, del vaccino di Jenner – tra il 1750 e il 1850 la loro aspettativa di vita aumentò di 25 anni. Molte di queste procedure erano estremamente costose al momento della loro introduzione, e dunque inaccessibili alle persone comuni.
Prima del 1750, gli aristocratici vivevano tanto a lungo quanto il resto della popolazione. Il denaro e il potere non proteggono dalla morte se a mancare sono le stesse conoscenze utili cui il denaro o il potere possono dare accesso, e fu nella produzione di queste conoscenze che l’Illuminismo primeggiò. Ma non appena i nuovi metodi divennero disponibili, le disuguaglianze di potere e ricchezza si trasformarono in disuguaglianze di salute. Assistiamo allo stesso processo anche oggi; in molti casi, sono i più ricchi e i più istruiti ad accedere per primi alle procedure di screening o ai farmaci preventivi di nuova invenzione. Le disuguaglianze di reddito e salute tra i cittadini inglesi al volgere del XVIII secolo possono tuttavia apparire trascurabili rispetto a quelle causate dalle rivoluzioni industriale e sanitaria nel mondo. Non appena la Gran Bretagna, il Nord America e l’Europa nord-occidentale iniziarono a correre avanti, tra essi e i Paesi lasciati indietro si aprirono distanze profonde in termini di Pil e di speranza di vita. In larga misura, i divari tra Paesi che abbiamo oggi di fronte sono il risultato, o almeno la eco, della grande fuga dell’Europa che ha avuto inizio 250 anni fa. Sono le stesse disuguaglianze di salute, standard di vita e stabilità politica che sono oggi all’origine delle forti pressioni migratorie dall’Africa e l’Asia verso l’Europa.

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Le congetture e la storia
Hitler senza bomba
Una ricerca sui cubi di uranio prodotti nel ’43 dagli scienziati tedeschi mostra come fossero ancora lontani dalla fissione nucleare
di Gianni Fochi


I chimici tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann scoprirono la fissione nucleare: bombardato con neutroni, il nucleo dell’atomo d’uranio si rompe, generando due atomi d’elementi più leggeri. Era il dicembre del 1938, e l’articolo scientifico che descriveva il lavoro uscì nel gennaio seguente. In febbraio i fisici austriaci Lise Meitner e suo nipote Otto Robert Frisch, esuli in Svezia perché di razza ebraica, pubblicarono su Nature una prima spiegazione teorica del fenomeno. Nel ’45 Hahn si vide assegnare il premio Nobel per la chimica, ma la sua scoperta aveva suscitato subito un interesse scientifico e tecnologico enorme. A trovar le condizioni giuste per far avvenire in pratica la fissione riuscì per primo Enrico Fermi a Chicago nel ’42, producendo in un reattore la reazione autosostenuta a catena. Le ricerche nucleari divennero prioritarie in buona parte del mondo scientificamente progredito, nella caccia a una nuova e potentissima fonte d’energia: per le applicazioni ordinarie e a maggior ragione - in pieno conflitto mondiale - per quelle belliche. In Germania lavorarono due gruppi di scienziati: uno nell’ambiente accademico civile, al Kaiser Wilhelm Institute per la fisica, sotto la guida di Werner Karl Heisenberg (che nel 1932, a trentun anni, aveva ricevuto il premio Nobel per la fisica), e uno in un centro militare, con a capo Kurt Diebner. Sui dettagli di quei progetti e sul loro effettivo grado d’avanzamento sono stati versati fiumi d’inchiostro, frutto di testimonianze, di veri studi storici, ma anche di congetture o di fantastoria. Nel ’44 il noto giornalista italiano Luigi Romersa era corrispondente in Germania e assistette a un’esplosione sperimentale: forse un prototipo di bomba “sporca”, atta cioè a contaminare territorio e persone con materiale radioattivo. Pare che Romersa avesse ricevuto un incarico segreto dallo stesso Mussolini, da lui conosciuto personalmente l’anno prima: corrispondente reduce dalla Libia dopo la caduta di Tripoli, gli aveva consegnato sulla guerra d’Africa un suo rapporto sincero e non viziato da convenienze o propaganda. Il capo del fascismo cercava informazioni non ufficiali sulla vera consistenza delle armi segrete, le Wunderwaffen (“armi miracolo”) tanto strombazzate dalla macchina propagandistica di Goebbels. Il mistero è durato fino ai giorni nostri, ma ora è stato svelato. Se nel ’59 in un’intervista televisiva la Meitner dichiarò tutto il suo apprezzamento per Hahn e Strassmann, i quali «con la chimica erano stati in grado di dimostrare un processo fisico», nei giorni scorsi la chimica ha segnato un altro punto decisivo.
Sulla rivista tedesca Angewandte Chemie, un gruppo internazionale diretto da Maria Wallenius del Centro di Ricerca Comunitario Europeo di Karlsruhe riferisce i risultati sui cubi d’uranio che gli scienziati tedeschi intendevano usare come materiale fissile. Dopo una serie d’esperimenti, Heisenberg aveva riconosciuto l’efficienza maggiore di quella geometria, su cui lavorava Diebner, abbandonando le lastre che aveva usato all’inizio. Comunque l’ultimo esperimento di tutto il progetto venne fatto nel marzo 1945 a Haigerloch, dove il laboratorio di Heisenberg era stato trasferito da Berlino, ormai prossima a cadere in mano ai russi. Ma già in aprile la missione segreta alleata denominata Alsos in onore del generale Groves, che comandava il progetto Manhattan (in greco alsos significa bosco, come l’inglese grove), s’era impossessata di gran parte degli oltre seicento cubi di Haigerloch: oltre una tonnellata d’uranio. Un altro lotto venne trovato sotto terra un quarto di secolo più tardi. Nel 2000 a Heidelberg venne poi rintracciata una delle lastre iniziali di Heisenberg. Campioni dei diversi tipi sono stati analizzati a Karlsruhe, nella ricerca accurata degl’isotopi e delle impurezze presenti in piccole dosi. I rapporti quantitativi permettono di risalire al momento dell’ultima purificazione chimica, perché è nota la velocità con cui certi nuclei si formano nel decadimento radioattivo naturale dell’uranio. Per i cubi la data di produzione è stata posta alla seconda metà del ’43, la lastra risale invece a tre anni prima. Le dosi d’uranio 235, l’isotopo fissile, sono molto basse (circa 7,25 per mille) e corrispondono a quelle presenti nell’uranio semplicemente estratto dai minerali. In altre parole, l’arricchimento necessario non c’era stato, perché avrebbe richiesto una tecnologia complessa, in cui i tedeschi erano allora soltanto allo stadio sperimentale.
A questo punto ogni tentativo di fissione autosostenuta sarebbe già da escludere, ma a conferma c’è dell’altro. In quei campioni storici, i nuclei spia dell’uranio fissile bombardato con neutroni, cioè l’uranio 236 e il plutonio 239 che si formano quando un neutrone viene inglobato in nuclei d’uranio 235 o 238, sono stati riscontrati a livelli estremamente bassi: una o due parti su centomila miliardi, addirittura sei volte meno rispetto a quanto si trova nei minerali da cui cubi e lastre erano stati tratti. Ciò prova che quei tedeschi d’una settantina d’anni fa erano stati molto bravi nella purificazione chimica; ma prova anche che a ottenere la fissione non ci arrivarono proprio.

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Medicina nazista
Sperimentazioni su cavie umane
di Gianni Fochi


Si è capito da diversi anni, ma stenta a diventare un fatto culturale acquisito, forse perché piace assolvere i valori della cultura umanistica (comunità, identità, dovere, integrità, etc). Il fenomeno storico, politico, sociale e culturale che fu il nazismo, con la sua logica razzista applicata a fini dell’igiene sociale, non traeva ispirazione da malsane ideologie scientifiche o pseudotali, ma da tribali credenze etnico-morali, condite di salse umanistiche. Le virtù naziste furono coltivate dal partito di Hitler e dalle sue gerarchie, così come dalle élite politiche e burocratiche tedesche, ma prima di tutto giustificate ed esaltate da pensatori che non erano certo scienziati, come Martin Heidegger, Carl Schmidt e Gerhard Kittel: cioè un filosofo, un teorico della politica e un teologo protestante. Il nazismo si è tenuto in piedi e ha causato le tragedie che conosciamo, non perché Hitler aveva fatto qualche lettura di biologia o perché la teoria della razza e le dottrine eugeniche avessero qualche forza di convinzione sulla popolazione tedesca.
La pseudoscienza della razza e la medicalizzazione dello sterminio di ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti politici, malati di mente, etc. sono entrate in gioco a valle di un processo di formazione della “coscienza nazista” per usare l’efficace espressione della storica Claudia Koonz, la quale in un insuperabile libro con lo stesso titolo (Harvard Universtity Press 2003) ha implacabilmente dimostrato che lungi dal non avere un’etica, i nazisti ne avevano una molto ma molto potente. Una forma di fondamentalismo secolare ed etnico che cancellava gli ebrei e chiunque non appartenesse al popolo tedesco, inteso come comunità dotata di una vita propria, dall’orizzonte morale. Gli ebrei erano percepiti come materiale infettivo che poteva contaminare e far ammalare la comunità, e quindi era giustificato relegarli ai margini della società tedesca. Via via che l’estraniazione e la disumanizzazione degli ebrei si radicava nella mentalità di ogni singolo tedesco, diventava accettabile o indifferente che la cerchia di sociopatici riunitisi intorno a Hitler potesse pianificare e mettere in atto un’operazione imponente come lo sterminio di ebrei, zingari, malati di mente, etc.
Date queste premesse, cosa si può dire ancora della cosiddetta “medicina nazista”, cioè del fenomeno che colpisce maggiormente l’immaginazione sociale quando si pensa al nazismo. L’ultimo libro di Paul Weindling è un testo quasi definitivo sull’'argomento. Risultato di un lavoro dettagliatissimo basato non solo sugli atti del processo di Norimberga ai medici nazisti, ma anche e in modo efficace sulle richieste postbelliche di risarcimento da parte dei sopravvissuti. In questo modo è riuscito ad accumulare agghiaccianti informazioni da cui emerge un quadro di crudeltà inenarrabile ai danni di 15.744 vittime confermate (12.002 quelle non confermate), di cui gli ebrei sono il 20%. Weidling descrive una serie di raccapriccianti esperimenti mortali, dove cioè i soggetti erano uccisi a fini di ricerca e conta ben 2956 vittime (altre 1200 circa morirono o nel corso degli esperimenti o a causa delle procedure).
Lo storico britannico dimostra che la sperimentazione era un progetto sociale, per nulla confinato ai campi di concentramento, e nemmeno era il passatempo di qualche infame medico delle SS, come Josef Mengele. La sperimentazione su soggetti umani divenne, con l’affermarsi del potere nazista, un’attività diffusa e praticata in larga parte come fine a se stessa e per causare crudeli sofferenze, più che sulla base di razionali protocolli. Del resto gli scienziati della razza tedeschi e poi i medici, che progettavano esperimenti nei campi di concentramento, erano tutt’altro che inquadrati nel perseguimento di obiettivi conoscitivi o applicativi coerenti; ma piuttosto erano tra loro in competizione per mettersi in mostra e sopravanzarsi nello zelo con il quale praticavano atroci e mortali esperimenti.
Il libro non lascia indifferenti perché racconta a ogni pagina orribili e dolorosissime procedure. Il limite è assumere che i lunghi elenchi di nomi e le raggelanti descrizioni possano da sole bastare per spiegare che cosa è accaduto. Ovvero che parlare di «persecuzione scientifica» per imputare a una metodologia la responsabilità, e non piuttosto a quei medici e scienziati che si fecero protagonisti delle crudeltà che vengono descritte, risponda davvero alla domanda: «perché?»
La malvagità nazista, ma anche quella di chi pratica oggigiorno atti crudeli e omicidi senza essere uno psicopatico, è spiegata dalle neuroscienze sociali. Il nazisti che praticavano quegli esperimenti erano individui che traevano piacere dal causare dolore e morte, e riuscivano tranquillamente a rimanere indifferenti perché avevano messo in atto una disumanizzazione delle vittime (cose che gli veniva anche facile dato che erano quasi tutti medici e quindi già psicologicamente predisposti a trattare le persone come oggetti) o peggio vedevano i soggetti degli esperimenti come parassiti o sporcizia sociale. Inoltre, quelle persone mettevano in atto strategie di negazione e autoinganno, formidabili, con le quali giustificavano i crudeli comportamenti.
Un’idea che ha avuto successo nel caratterizzare i nazisti è quella della «banalità del male», cioè l’intuizione di Hanna Arendt mentre assisteva al processo contro Adolf Eichmann in Israele nel 1961. Il male non è mai banale, ha sempre una sua specificità, e non è intelligente banalizzarlo. Eichmann era un feroce e sadico assassino, cioè presentava un profilo psicologico del tutto diverso da quello di una persona normale. Di là dai soggetti più o meno psicopatici, per i quali c’è poco da fare se non eventualmente rinchiuderli, quello che dovrebbero insegnare le atrocità naziste è a capire la combinazione di sentimenti morali che maturando in una comunità umana prepara o rende possibili e accettabili crudeltà disumane.
I valori etnici e fondamentalisti sui quali era basata l’etica nazista non sono per niente scomparsi. Sono presenti, nella psicologia morale umana profonda, pronti a riaffermarsi laddove le condizioni ecologico-politiche li renda nuovamente adattativi, in modi che non avranno i contenuti ideologici del nazismo, ma di cui è facile intravvedere tracce nei movimenti identitari e settari anche in Italia.
Paul Weindling, Vittime e sopravvissuti. Gli esperimenti nazisti su cavie umane , Le Monnier, Firenze, pagg. XII+394, € 12,00
Gilberto Corbellini

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Rebecca West
Il «tradimento» di Norimberga
di Francesco Perfetti


Al culmine della sua notorietà come giornalista e come scrittrice, Rebecca West si recò nel 1946 a Norimberga per assistere all’ultima fase del processo contro i criminali nazisti. Ne fece per la rivista americana «The New Yorker» un resoconto che non ha nulla in comune con gli altri importanti scritti sull’argomento. In quelle pagine c’era, sì, la descrizione delle ultime sedute del processo, ma anche c’erano certi ritratti indimenticabili e fulminanti, quasi da antologia, degli imputati principali, colti con pochi ma efficaci tratti di penna. Rudolf Hess, per esempio, appariva così «evidentemente pazzo che sembrava una vergogna processarlo». Hermann Göring, poi, il cui aspetto era «fortemente ma oscuramente allusivo al sesso» suggeriva l’idea di «una maitresse di un bordello», mentre Baldur von Schirach, che era stato a capo della Hitler-Jugend, «stupiva perché sembrava una donna in un modo non comune tra quegli uomini che assomigliano alle donne».
Il resoconto della West non riguardava tanto lo svolgimento vero e proprio del processo quanto piuttosto l’atmosfera che vi si respirava sia fra gli imputati sia fra i giudici sia ancora fra i giornalisti presenti. Ma, soprattutto, tentava di capire e di far capire i sentimenti più intimi della popolazione tedesca, alle prese con i problemi della vita quotidiana in un Paese ridotto in macerie, mentre nel Palazzo di Giustizia di Norimberga si svolgeva il dibattimento la cui conclusione non poteva che essere scontata: sentimenti confusi che andavano da una ostentata e falsa indifferenza a un segreto senso di colpa collettiva, da manifestazioni di indignazione a timori inespressi. Il tutto, raccontato in pagine coinvolgenti e di eccezionale potenza espressiva.
Quel processo, avrebbe amaramente scritto la West qualche tempo dopo, si rivelò «un tradimento delle speranze che aveva suscitato» perché «condotto da funzionari malati dalla stanchezza lasciata da una grande guerra, frequentato solo da una manciata di spettatori, inadeguatamente coperto dalla stampa, costantemente frainteso» finì per non imprimere un’immagine chiara sull’animo delle persone che avrebbe dovuto raggiungere. Ma, se pure «fu uno di quegli eventi che non diventano un’esperienza», ebbe pur sempre un suo valore di monito.
Qualche anno dopo, nel 1949 e nel 1954, la West tornò in Germania e gli scritti relativi a questi viaggi confluirono, insieme al resoconto del processo di Norimberga, nel bellissimo volume Serra con ciclamini pubblicato ora, per la prima volta, in edizione italiana. Trovò un Paese diverso, che stava metabolizzando le tragedie del passato e, al tempo stesso, stava avviandosi sulla strada della ricostruzione economica in preda a una «spinta verso l’operosità» e a una incredibile «libidine di lavoro». Le imposizioni dei vincitori e i conflitti fra gli alleati, la divisione di Berlino, la Guerra fredda erano tutti elementi che non incidevano sulla volontà di ripresa, morale e politica oltre che economica, di un popolo del quale il «venditore di ciclamini», un anziano giardiniere, privo di una gamba e intento a coltivare le piante nella sua serra senza più pensare al passato, diventava simbolicamente, nell’immagine della West, un simbolo di speranza per il futuro: «Era fuggito da un’altra dimensione, in cui il dolore non aveva potere su di lui. Era fuggito nel suo lavoro». Quel che colpiva l’osservatore era il fatto che, al di là della divisione politico-amministrativa del territorio imposta dalle grandi potenze, tutti i tedeschi guardassero con sospetto a progetti di assistenzialismo e di economia pianificata e credessero, invece, fortemente nella libera iniziativa: «Pensavano che se la gente avesse fatto quello che voleva, mangiato quello che le piaceva, agito come le piaceva, e venduto quello che le piaceva, le leggi di domanda e di offerta avrebbero funzionato in modo così sano che alla fine ogni cittadino avrebbe avuto una sostanziosa fetta di torta e non ci sarebbe stato motivo perché nessuno dividesse alcunché con chicchessia». Era passato qualche anno, all’epoca di questo nuovo viaggio della West, dal processo di Norimberga. La Germania stava voltando pagina.
Rebecca West, Serra con ciclamini. Il processo di Norimberga e la rinascita economica della Germania, Skira, Milano, pagg. 176, € 16,00

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Le due cose da ricordare su René Girard
di Armando Massarenti


René Girard è morto nei giorni scorsi all’età di 91 anni. Le sue opere più importanti sono Menzogna romantica e verità romanzesca (Bompiani), del 1961, e La violenza e il sacro (Adelphi), del 1972. Nella prima Girard teorizza il «contagio delle passioni» e il «desiderio mimetico», di cui il cosiddetto “bovarismo” è l’esempio più chiaro.La giovane Emma Bovary non sa che cos’è l’amore e impara a desiderare solo attraverso le eroine di cui legge. Allo stesso modo Don Chisciotte rinunciava a desiderare in proprio affidandosi interamente al modello della letteratura cavalleresca. Il «desiderio mimetico» è dunque un «desiderio triangolare», presuppone l’esistenza di un mediatore. A partire da questo semplice schema Girard ha analizzato molte opere letterarie e svolto analisi assai sottili su concetti come risentimento, gelosia, invidia. L’unico modo di sottrarsi a questo modo falso di desiderare è la passione, indirizzata direttamente all’oggetto del proprio desiderio. La troviamo teorizzata nel saggio Dell’amore, di Stendhal, i cui romanzi comunque non sfuggono alla regola di Girard. Ma se pure i grandi romanzieri non si sottraggono a quella legge inesorabile, possono avere il pregio di palesarne il meccanismo. La passione potrà realizzarsi dopo aver superato il meccanismo grazie alla consapevolezza del suo funzionamento. E i romanzieri, se vogliono che la loro opera sopravviva alla transitorietà delle mode divenendo dei classici, devono scoprire questa sorgente essenziale del conflitto umano. Girard ci ha anche mostrato quanto essenziale sia, per il senso religioso, la nozione di vittima sacrificale, di «capro espiatorio». Come ha scritto ne Il sacrificio (Cortina), a lungo l’umanità ha consumato sacrifici umani. Aver pensato di sostituirli con animali, o di renderli del tutto simbolici, ha costituito un primo progresso per la religione e la civiltà. Ma il salto più grande, sostiene Girard, l’ha fatto colui che autoimmolandosi, e dichiarandosi l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, ha voluto smascherare per sempre il meccanismo che spinge gli uomini – anche nella vita quotidiana – a sacrificare di quando in quando una vittima, convogliando su di lei una serie di colpe che non ha. La necessità di una vittima sacrificale è profondamente radicata nella psiche umana. Ma il progresso morale, religioso, civile, giuridico, consiste proprio nel saperla neutralizzare. Ce lo ha insegnato niente meno che il fondatore del cristianesimo. Che a non cogliere la centralità, e la carica rivoluzionaria, di questa idea siano spesso proprio i cristiani è stato uno dei crucci del pensatore francese, che avrebbe ben potuto riassumere il suo ideale di civiltà in un semplice slogan: «Mai più vittime innocenti!».

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Abraham B. Yehoshua
Dire addio a Gerusalemme
di Giulio Busi


Protagonista dell’ultimo romanzo di Yehoshua, Noga è un’arpista decisa a lasciarsi alle spalle la patria e un non-figlio. Non sarà facile
Le città degli scrittori hanno mura diverse. Più sottili, forse, oppure sono sghembe, e non te ne accorgi. Anche i mezzi di trasporto sono, come dire, più selettivi.
Non puoi andare alla stazione e prendere il primo bus per Tel Aviv. Nella Gerusalemme vera, ammesso che tu l’abbia trovata, compri il biglietto, lo mostri al controllore, e via, te la lasci alle spalle.
Vuoi andare all’aeroporto, tornare in Europa? Affari tuoi, nessuno te lo impedisce, in Israele si arriva e si parte in un battibaleno.
Ma se Gerusalemme è quella dei ricordi, se è Yehoshua a raccontarla, se hai varcato la soglia di casa dopo un lungo viaggio, allora è tutta un’altra storia.
Innanzitutto, qualche rudimento linguistico. La protagonista si chiama Noga, che è un nome dal bel suono. E non potrebbe essere altrimenti, visto che Noga è una musicista, anzi un’arpista - tienilo a mente, che è importante.
Noga, si diceva, in ebraico significa Venere, nel senso del pianeta. E la dea, allora? Nella lingua ebraica non abitano dee, se vuoi, però, immagina che Noga sia anche un po’ una dea, o perlomeno una donna bella, di una quarantina d’anni.
Le dee non dovrebbero invecchiare, e così Noga è ancora dolce e si stupisce del mondo, ha un suo candore. Ha anche qualche ferita. Pure le dee, che non ci sono a Gerusalemme, perdono gocce di sangue. Sangue in ebraico si dice “dam”, può servire saperlo.
L’arpa è uno strumento strano, difficile. Ha un che di religioso, arcaico. A Noga, da ragazzina, sarebbe piaciuto suonarla nel Tempio, naturalmente appena fosse venuto il messia. Così ne parlò al signor Pomeranz, un vicino di casa molto religioso, che la rassicurò. «Anche le ragazze potranno suonare - aveva risposto l’uomo osservandola intensamente - ma se all’arrivo del messia i sacerdoti non te lo permetteranno, ti trasformeremo in un bel giovanotto».
Non sapeva se sperarci o esserne impaurita, e comunque non successe. Dopo aver provato con tutte le orchestre d’Israele, Noga se n’era andata in Olanda, per via della sua arpa. Si emigra per i motivi più diversi, non c’è poi da stupirsi che da Gerusalemme una se ne vada ad Arnhem per poter suonare, guadagnarsi una vita, sentirsi realizzata.
Vogliamo fare il punto, tanto per non perderci, in questa città da scrittore in cui ci siamo infilati? Yehoshua parla di Gerusalemme, attraverso una donna un po’ trasognata, una che figurerebbe bene in un racconto sacro: «Ai salici di quella terra avevamo appeso le nostre cetre». Ci sono salici in Olanda? Di sicuro, la cetra è uno strumento diverso, e poi Noga vuole suonarla, la sua arpa, non riporla. Quello che non vuole, è un figlio. Che sia per questo che ha lasciato il suo paese, la famiglia, un marito? Certo per questo, per il non-figlio, suo marito ha lasciato lei, una storia vecchia, il tempo rimargina le ferite, a Gerusalemme, in Olanda, dappertutto.
Un giorno Noga ritorna. La stella del mattino riappare sempre, se non è nuvolo, chiamarsi Venere ha i suoi vantaggi. Vivrà nell’appartamento dei suoi, mentre la mamma prova a stare in casa di riposo. Il racconto qui s’ingarbuglia un poco, forse è colpa anche dei figli dei vicini, che scivolano lungo una grondaia, entrano da una finestra, e vengono a guardare la televisione di soppiatto nel salotto di Noga. Bisogna capirli, i genitori sono ortodossi, la televisione a casa loro non l’hanno neppure, la tentazione è troppo forte, e la grondaia abbastanza robusta. Non vorrete mica che le storie a Gerusalemme siano più semplici che dalle vostre parti?
Per non annoiarsi troppo, e racimolare qualche soldino, Noga fa la comparsa, particine in film d’azione e in pubblicità, quello che capita.
Poi sogna, nelle città di scrittori si sogna molto. Lei si addormenta nelle sua stanza da ragazza, sogna la casa di cui ha ripreso possesso, la vita che ha avuto e quella che non ha vissuto, il figlio non voluto. Come si sogna una non-persona, come la si accompagna, come la si richiama?
Questa prosa di Yehoshua è fatta di versi, di rime interiori, infilate tra le parole come spilli di una sarta. Spilli che passano da parte a parte. Di qua è Gerusalemme, di là è la musica. Di là è l’esilio, di qua la madre. Al dritto il figlio, al rovescio l’Olanda. Di qua lei, Noga-Venere-Solitudine. Di là - cosa cerchiamo, perché torniamo, bravo chi trova la sua stella, e sa in che quarto di cielo s’è andata a nascondere.
Yehoshua ha scritto tanto, ci ha stupito, ammaestrato, condotto per mano per tanti anni. Dove la sia andata a prendere, questa sua Noga, non lo sappiamo. Deve averla tenuta d’occhio in silenzio, un po’ sornione, mentre narrava di altri personaggi, e li faceva viaggiare in lungo e in largo. Adesso che ce l’ha presentata, e l’ha fatta muovere davanti ai nostri occhi, con gesti leggeri, gentili, abbiamo l’impressione di conoscerla anche noi da sempre.
Vi avevo avvertiti, non è così facile uscire dalla città di uno scrittore. Non è così facile suonare un’arpa a Gerusalemme.
Abraham B. Yehoshua, La comparsa, traduzione di Alessandra Shomroni, Einaudi, Torino, pagg. 260, € 20,00

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Imparare a pensare
Che fatica essere logici
di Roberto Casati


Un omuncolo testardo si contrappone sistematicamente al buon ragionatore che c’è in noi. Lo dicono le scienze cognitive. La scuola deve fornire a tutti gli adeguati strumenti critici
«Prendiamo persone con la stessa gravità di disturbi (misurata, per esempio, attraverso i test di memoria) e li confrontiamo su due fronti: il livello di scolarità e il livello di compromissione cerebrale, rilevata monitorando l’attività metabolica nelle aree tipiche dell’Alzheimer. Cosa osserviamo? Che i soggetti a scolarità alta hanno un peggiore quadro cerebrale: a parità di disturbi manifestati, il loro cervello è più sofferente.» (Stefano Cappa intervistato da Michele Farina, Quando andiamo a casa? Milano BUR, pag. 149).
Quando faccio leggere questa frase, noto una certa sorpresa nei miei interlocutori: sembra che un modo di proteggersi dall’Alzheimer sarebbe quello di non impegnarsi negli studi. In realtà la frase dice esattamente il contrario. «Nonostante siano a uno stadio più avanzato della degenerazione cerebrale, i pazienti a scolarità più alta dimostrano le stesse capacità di memoria di chi presenta un cervello meno devastato e un livello culturale minore. Perché compensano meglio». Adesso, forse, le cose ci sono più chiare. Ma come diceva il biologo americano Stephen Jay Gould, anche se abbiamo capito il senso corretto della frase, se la rileggiamo ci sembra di sentire un omuncolo che va su e giù per nostro cervello a ripetere che è meglio non studiare troppo se ci si vuole proteggere dall’Alzheimer. C’è qualcosa nel testo con cui si apre questo articolo che ci impedisce di arrivare facilmente al senso inteso.
Di omuncoli dispettosi è popolato il cervello raziocinante. Un altro omuncolo ci fa voltare sistematicamente la carta sbagliata nel classico test inventato dallo psicologo britannico Peter Wason: quattro carte sul tavolo davanti a noi, una rossa, una blu, una con scritto sette e una con scritto sei. Sappiamo che le carte hanno un retro colorato in rosso o blu, e un fronte con un numero pari o dispari. Domanda, qual è il numero minimo di carte da girare per verificare la regola «Tutte le carte rosse portano un numero pari»? Pensateci un attimo. Voltare la blu non serve. La rossa va bene (ovviamente: se ci fosse un numero dispari sull’altro lato, la regola sarebbe invalidata). Quali altre? La maggioranza degli intervistati dice che a questo punto basta voltare la sei. Va bene? In realtà, se scoprite che ha il retro blu, questo non vi dice nulla sulla regola. La carta da voltare è la sette. Se il retro della sette fosse rosso, la regola verrebbe violata.
Tutto chiaro, ma la tentazione di voltare anche la carta pari è sempre in agguato. Questo omuncolo testardo è un po’ la maledizione dell’insegnamento della logica perorato con passione nel libro di Paolo Legrenzi e Armando Massarenti (La buona logica. Imparare a pensare, Cortina) che Ermanno Bencivenga ha commentato su queste colonne il 18 ottobre. L’insegnamento della logica ci informa sulle procedure corrette da mettere in opera quando si affrontano problemi che richiedono di ragionare. Ma non ci mette al riparo dall’omuncolo testardo, che continua a farsi strada nel pensiero. Nella fattispecie, il nostro omuncolo potrebbe venir definito “antispreco”: egli cercava di far tesoro di tutte le informazioni che ha trovato nella formulazione del problema, e in particolare del fatto che si era parlato di una carta pari, il sei, quando si metteva alla prova una regola che richiedeva di pensare ai numeri pari. L’omuncolo antispreco fa parte di quello che oggi gli psicologi cognitivi chiamano il “Sistema Uno”, una batteria di moduli cerebrali che formano l’ossatura delle nostre intuizioni sul mondo, a tutti gli effetti un’eredità biologica che ci permette di risolvere al volo problemi pratici impellenti come scansare ostacoli o fare due conti su cosa ci conviene nel futuro immediato.
Le caratteristiche principali di questi moduli sono la velocità, l’automaticità, e una certa testardaggine; dopotutto, servono a trarci d’impaccio in situazioni in cui il tempo è prezioso, e non hanno molta voglia di star lì a discutere. Al Sistema Uno viene contrapposto il Sistema Due, un modo di operare più lento e modulato dall’attenzione cosciente. Quando attraversiamo la strada a Vicenza noi nati e cresciuti in Italia agiamo in Sistema Uno, ci fidiamo delle nostre intuizioni sul traffico, sappiamo stimare i tempi, non dobbiamo pensare per guardare dalla parte giusta prima di avventurarci sull’asfalto pericoloso. La nostra azione è fluida, agire e pensare fanno un tutt’uno. Quando andiamo a Londra l’ambiente nuovo ci sfida, poniamo invece attenzione a ogni passo: siamo in pieno nel Sistema Due, sincopato, lento e dubitativo. E nonostante tutto anche a Londra l’omunculo “della guida a destra” si fa sentire (è veloce, automatico e testardo) e bisogna cercare di metterlo a tacere se si vuole portare a casa la pelle.
Studiare la logica, fare esercizi come quelli che troviamo in un manuale, ci permette di vedere che il Sistema Uno non sempre dà i risultati migliori. Ma adottare una modalità riflessiva, ovvero esercitare il controllo proprio del Sistema Due, non è cosa che si guadagna facilmente anche dopo aver studiato logica: non dimentichiamo che gli omuncoli automatici devono venir continuamente inibiti. Questo perché la competenza non si riflette automaticamente sulla performance.
Cos’altro possiamo fare, allora, per risollevare i destini della nazione, renderla più raziocinante? Uno dei suggerimenti più interessanti degli ultimi anni viene dal lavoro di Dan Sperber e Hugo Mercier, che hanno messo in luce come la funzione cognitiva principale del ragionamento non sia di migliorare le conoscenze di un dato individuo ma argomentare, cioè convincere gli altri della bontà dei nostri argomenti e valutare gli argomenti altrui in modo critico al fine di essere convinti solo quando è necessario. Segue dalla loro ipotesi che i ragionamenti svolti in coppia o in gruppo danno risultati migliori che quelli effettuati in solitudine. Lavorare in gruppo è un toccasana logico! Un altro dei fattori che possono rinforzare l’applicazione del pensiero critico è acquisire una certa consuetudine con le procedure di verifica empirica di un’ipotesi che son pane per i denti delle discipline scientifiche. Per esempio, imparare che bisogna sempre controllare i fattori che potrebbero aver influenzato una misura, o imparare a diffidare della ricerca automatica di conferme per le proprie ipotesi. Un’altra strategia è legata al fatto che si fanno meno errori di ragionamento quando si conosce ciò di cui si parla: imparare bene qualcosa è il primo passo per imparare a pensare bene (contrariamente all’idea di una conoscenza logica generale, passepartout).
Ma direi che non c’è una soluzione definitiva, che ci possa dire che abbiamo finalmente “imparato” a pensare. Gli omuncoli testardi non possono venir eliminati né sconfitti. Possono solo venir tenuti a bada, ed è sulle tecniche per imbrigliarli che potrebbe focalizzarsi una pedagogia innovativa che, mi pare, dovrà necessariamente far uso di checklist.

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Silvio Ceccato (1914-1997)
Il pensatore cibernetico
di Riccardo Pozzo


Nel 1914 nacquero diversi maestri. Per Mario Dal Pra e Franco Venturi, nati rispettivamente il 29 aprile e il 16 maggio, apparvero sul Domenicale degli articoli in prossimità del centenario della nascita. Per Silvio Ceccato, 25 gennaio, non si fece in tempo. Vero però che lo si ricordò il 14 settembre con un convegno dell’Accademia Olimpica di Vicenza nella splendida Villa Ceccato a Montecchio Maggiore (costruita in cima a un colle a poche centinaia di metri dalle rocche scaligere della Villa e della Bellaguardia, che ispirarono l’immaginazione poetica di Luigi Da Porto e poi di Matteo Bandello e Shakespeare per la storia dei due nobili amanti Giulietta Cappelletti e Romeo Montecchi, le famiglie dei quali sono rimproverate da Dante al verso 106 del sesto canto del Purgatorio) e lo si ricorda soprattutto con un’antologia dei suoi scritti curata da Gianclaudio Lopez, la presentazione della quale è dunque occasione oggi per richiamare l’attenzione su Ceccato.
Studente a Milano, Ceccato studia al Conservatorio, che allora era diretto da Ildebrando Pizzetti, e si laurea in giurisprudenza. Si iscrive al Guf (Gruppo universitario fascista), scrive articoli di critica musicale su Libro e moschetto e partecipa ai Littoriali per la musica nel 1935, 1936 e 1937. Nel 1937, ufficiale di prima nomina tra i granatieri, insegna canto corale a due reggimenti di stanza a Roma e a un altro di stanza a Viterbo. Conosce Federico Enriques, Ugo Spirito e Guido Calogero, ed è in stretto contatto con Agostino Gemelli, che nel 1941 fonda l’Istituto di Psicologia del Cnr (oggi Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione). Nel 1941 Ceccato consegna a Gemelli un dattiloscritto di cento pagine, Un contributo alle ricerche sul fare dell’uomo: «La discesa verso il fondo della filosofia erra ormai completa. Il conoscere la verità conoscitiva, il soggetto conoscente e l’oggetto, prima inconcepito e poi cognito, la realtà, ecco il vero problema, il Problema». Richiamato al fronte nel marzo del 1943, è al confine con la Yugoslavia, dove per sua fortuna non succede nulla. Dopo l’8 settembre resta in servizio e viene mandato a Cento, alla censura postale per l’estero. Finita la guerra, ritorna a Milano, dove viene accolto nel gruppo della rivista Analisi, con Ludovico Geymonat e Giulio Preti. Conosce Antonio Banfi, Norberto Bobbio e Ferruccio Rossi Landi. Nel 1946 inizia un lungo sodalizio con Vittorio Somenzi. Un pamphlet nel quale irride alla filosofia tradizionale rivisitata secondo la teoria dei giochi gli procura un’aspra reprimenda e la cancellazione dei corsi che teneva come libero docente all’Università di Milano: «Eh no! Non lo dovevi fare – gli scrive Banfi –. L’università non è un campo di calcio, in cui si possa venire con le mutandine». Ceccato riproporrà le sue posizioni in Un tecnico tra i filosofi (Padova, Marsilio 1962-64).
La svolta operativa avviene nel settembre 1955, quando Ceccato presenta al terzo Symposium on Information Theory, a Londra presso la Royal Society, una relazione intitolata Suggestions for Mechanical Translation, nella quale spiega il possibile funzionamento di un traduttore automatico. Immediato l’avvicinamento di Ceccato al Cnr, responsabile per l’introduzione della cibernetica in Italia. Al Convegno sui Problemi dell’Automatismo (l’ambito d’indagine di Mauro Picone, Edoardo Caianiello e Antonio Ruberti) tenutosi nell’aprile 1956 a Milano al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia, Ceccato presenta ed espone un prototipo del cervello dell’Adamo II, un simulatore elettromeccanico che rendeva visibili attraverso l’accensione e lo spegnimento di lampadine le combinazioni degli stati coscienziali corrispondenti a 23 termini esclusivamente mentali.
Ceccato mostra di aver individuato le premesse fondamentali per avviare l’analisi cibernetica delle operazioni mentali: «la scoperta dello stato d’attenzione, le sue possibilità combinatorie, la prima categoria mentale e varie altre analizzate esattamente negli stessi termini di oggi, l’andamento correlazionale del pensiero, ecc. Soltanto le analisi della percezione e della rappresentazione erano state condotte su un presupposto che in seguito si rivelò sbagliato». Tramite Padre Gemelli, nel 1958 Ceccato ottiene dal governo americano un finanziamento per ricerche sulla traduzione meccanica per il russo e l’inglese e nel 1960 un finanziamento dell’Euratom. Tornato nel 1957 alla Statale di Milano come libero docente di Filosofia teoretica, nel 1960 il Cnr affida a Ceccato la costituzione del Centro di Cibernetica e Attività Linguistiche presso la Statale.
Da allora fino alla sua morte, il 2 dicembre 1997, Ceccato lavora in stretto contatto con un gruppo di validi collaboratori, tra i quali sono da ricordare Enrico Maretti, Giampaolo Barosso, Bruna Zonta e Gian Paolo Zarri. A diciotto anni dalla sua scomparsa, Ceccato è più vivo che mai al Cnr nelle ricerche di Maria Vittoria Giuliani dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione e di Renzo Beltrame dell’Istituto di Scienza e Tecnologie dell’Informazione Alessandro Faedo.
Silvio Ceccato, Il sogno delle tre faraone: Silvio Ceccato da filosofo a tecnico della mente , a cura di Gianclaudio Lopez, Viterbo, Stampa Alternativa, pagg. 240, € 15,00.

Domenica del Sole 24Ore 8.11.15
Per una nuova urbanistica
Disegna la città e valuta l’impatto
di Salvatore Settis


Ogni mese (anche questo, anche il prossimo) cinque milioni di persone lasciano per sempre la campagna e migrano in città. Nel 1850 viveva in città il 3% della popolazione mondiale, oggi il 54%; il 70% nel 2030, secondo le previsioni: i due terzi dell’umanità. Nel 1950 le città del pianeta oltre il milione di abitanti erano 83, oggi sono più di 500, di cui sedici oltre i 20 milioni. In questa urbanizzazione a tappe forzate, più di un miliardo di esseri umani vive in slums, che talvolta coprono il 90 % di agglomerati che di “città” hanno solo il nome. Su questo sfondo, quale è il compito dell’urbanistica? È la dura domanda che corre in ogni pagina del nuovo libro di Franco La Cecla, Contro l’urbanistica (Einaudi). Ma si può essere, così senza mezzi termini, contro l’urbanistica o ancora Contro l’architettura (così un altro libro dello stesso autore, pubblicato da Boringhieri nel 2008)? La Cecla non è tanto ingenuo da voler negare l’intero percorso di una disciplina, ma ha il coraggio che basta per sfidarne l’incoerenza di fondo: in una epocale trahison des clercs, questa la tesi, l’urbanistica ha finito col considerare se stessa una disciplina al servizio del potere e non dei cittadini, barricata in un miope tecnicismo che mette alla porta la democrazia, sorda al degrado ambientale, incapace di rinnovarsi facendosi plasmare dai problemi della gente e del mondo. Da antropologo, ma ancor più da cittadino fra i cittadini, La Cecla percorre col suo sguardo inquieto un pianeta in ebollizione (acuti reportages di viaggio intervallano i capitoli del libro, portandoci da Giacarta a Minsk, da Fukuoka a Milano, e culminando naturalmente in Parigi) e ne misura la febbre, constatando la povertà delle risposte di tecnici e politici, la perversa tendenza a rimuovere la coscienza dei processi in atto o a leggerli sotto il segno di una pretesa necessità.
In una scrittura densa e impegnata, il plaidoyer di La Cecla si muove fra due poli, l’attualità e la storia. Sul fronte della storia, il suo argomento è difficile da contestare: Kropotkin, Geddes, Mumford concepirono l’urbanistica come osservazione simpatetica della convivenza dei cittadini entro le forme urbane, dove la regolazione della città sia pensata in funzione della vita quotidiana, anzi (diciamolo) della felicità dei cittadini. Il secondo Novecento vede gradualmente imporsi «una idea tutta tecnica dell’urbanistica», che ne annienta la matrice e la sapienza umanistica, «come se la fenomenologia urbana fosse tutta fatta di forme e non fossero invece importantissimi tutti i legami e le reti e l’invisibilità delle intenzioni di chi l’abita e di chi ci viene a vivere». Divenuta «l’ancella del formalismo architettonico», «l’urbanistica ha ucciso l’urbanità», è diventata «una specie di assistente dell’economia immobiliare». E qui La Cecla dispiega il suo controveleno, la vita quotidiana delle donne e degli uomini, «una forma di produzione di società, una morale per la vita di tutti i giorni, le routine, i ritmi quotidiani, i sogni collettivi». Al centro della sua proposta, il necessario rapporto fra il corpo del cittadino e il corpo della città, un «abitare i posti» che voglia dire usare la città e non consumarla né esserne consumati. Risuona qui, anche se La Cecla se ne distanzia, il modello della città come luogo supremo di «produzione dello spazio sociale» di Henri Lefebvre, con la connessa tematica del diritto alla città che innerva le tante manifestazioni di piazza di questi anni. Il Droit à la ville di Lefebvre, pubblicato pochi mesi prima che esplodesse il Maggio francese (1968) fu il vero e proprio annuncio della categoria dell’“urbano” come strumento descrittivo e interpretativo di una fase storica in cui la città tende a identificarsi con la forma complessiva della società, secondo The World City Hypotesis (John Friedmann, 1986), che somiglia sempre più all’ecumenopoli di Asimov, una sola città di quaranta miliardi di abitanti che copre l’intero pianeta di Trantor.
L’urbanistica al servizio di voraci developers, ci ricorda La Cecla, è incapace di contrastare le formidabili mutazioni interne che caratterizzano la città di oggi e di domani: l’esplosione delle periferie e l’obesità delle megalopoli, la mercificazione dello spazio in estensione (urban sprawl) e in altezza (il vertical sprawl che Vittorio Gregotti ha chiamato “grattacielismo”), la gentrification che scaccia i meno abbienti dai quartieri più appetibili (al tema è dedicato un recente libro di Giovanni Semi, appena pubblicato dal Mulino: Gentrification. Tutte le città come Disneyland?). Nuove divisioni urbane, basate sul censo, si insediano nelle città. La transizione da città a paesaggio, che fu storicamente una sorta di cerniera, cede il passo a feroci confini intra-urbani, caratterizzati dalla segmentazione della società, da spazi di esclusione, controllo delle libertà e limitazione dei diritti. L’urbanistica «che si occupa di separare, zonizzare, controllare, chiudere dietro cancelli i ricchi e le classi medie e dietro paraventi di lamiera gli slums» è una disciplina che ha rinnegato se stessa, disumanizzandosi fino al punto di negare all’agricoltura il diritto di esistere (a meno che non sia l’intensivo land grabbing di immensi neo-latifondi): «la città non ha più bisogno di una campagna né di una natura dove vengano prodotte le risorse per la sua sopravvivenza».
Mettendo al centro le pratiche di vita quotidiana delle comunità urbane e il ruolo essenziale dell’agricoltura nella vita economica e civile, il libro di La Cecla è un forte richiamo alla responsabilità degli urbanisti (e dei politici) e perciò rivendica l’urgenza di una “valutazione di impatto sociale” (Vis) delle pianificazioni urbane, raccomandata dalla Commissione Europea ma di là da venire in Italia. La Cecla ha fiducia nella riqualificazione dell’urbanistica sulla base di una corretta e non burocratica applicazione della Vis: prova ulteriore, se ve ne fosse bisogno, che la sua non è una cieca invettiva contro l’urbanistica, ma anzi si propone come manifesto per una nuova urbanistica, non solo tecnica ma storica, ecologica e antropologica, una “scienza umana” oggi più necessaria che mai.
Franco La Cecla, Contro l’urbanistica. La cultura delle città , Einaudi, Torino,
pagg 158, € 12,00