martedì 24 novembre 2015

Repubblica 24.11.15
Il caso.
L’ampio numero di musulmani, gli alti tassi di disoccupazione e la posizione fanno di Bruxelles il rifugio perfetto per i jihadisti
Nel cuore dell’Ue pieno di islamisti Così il Belgistan fabbrica terrore
di Daniele Mastrogiacomo


BRUXELLES Sono stati i giovani, quelli di terza generazione, a chiamarlo “Belgistan”. Nati e cresciuti qui, a Molenbeek. Bisogno identitario, riscatto, orgoglio. un quartiere, a due passi dal centro sfavillante di Bruxelles, cresciuto e rimasto un ghetto. Musulmano. Marocchino, soprattutto. «La seconda comunità più povera e più giovane di tutto il Belgio, 50 per cento di disoccupazione, una densità di 16mila persone per chilometro quadrato», ricorda Annalisa Cataletta, italiana, assistente del sindaco Francoise Schepmans. Ma non è solo Molenbeek, ora noto in tutto il mondo per la strage di Parigi, a spiegare l’esercito di jihadisti allevati dal Belgio. La radicalizzazione è stata una costante negli ultimi 10 anni. Nel sud e nell’ovest del paese.
I dati servono a inquadrare. Non a capire. L’ufficio che segue il terrorismo islamico parla di 380 combattenti andati in Siria fino a metà di quest’anno. Ma secondo Pieter Van Ostaeyen, storico dell’Islam, considerato il massimo esperto della materia, è una stima per difetto. Sulla base di uno studio che ha realizzato seguendo sui social le chat e i post pubblicati nei diversi account, è giunto alla conclusione che in realtà sono 482, probabilmente 500.
La differenza non è solo numerica. Dimostra quanta approssimazione ci sia nell’affrontare e controllare un universo così ampio e così mutevole. «I governi - spiega Van Ostaeyen - fanno i conti in base alle intercettazioni e alle dichiarazioni fatte dalle persone tenute sotto controllo. In rete è diverso. All’inizio della guerra civile in Siria, per esempio, molti combattenti mettevano come residenza una città del paese. Ma era solo una manifestazione di sostegno. Così come si è scoperta la presenza in Siria di alcuni miliziani belgi sono quando la loro morte è stata ufficializzata sui social».
Il Belgio si conferma come il paese che fornisce a Daesh il più consistente battaglione di tutta Europa: 33,9 combattenti per milione di abitanti. Seguono l’Inghiterra (31,0), la Svezia (30,6), la Danimarca (26,3), la Germania (22,3) la Francia (18,1). Solo la Bosnia- Erzegovina (87,2) e il Kosovo (157,9) superano la terra di re Filippo: ma sono due paesi con popolazione a maggioranza musulmana. Le chat e i blog sono eloquenti: tra i due milioni di messaggi spediti sugli account del Califfato, rileva uno studio italiano, il Belgio è terzo dopo Qatar e Pakistan.
Come si spiega? E come è stato possibile per Bruxelles non rendersi conto che, da anni, tra le sue case, cresceva un vivaio di potenziali jihadisti, pronti a farsi esplodere? La caccia a Salah Abdelslam e lo stato d’assedio con il massimo grado di allarme sono la reazione improvvisa ad un pericolo sottovalutato, lasciato ai margini, considerato semplice solidarietà da parte di una popolazione che partecipava da lontano, con il cuore e i sentimenti, alla tragedia siriana.
Non è stato così. C’erano tutti i segnali per capire e intervenire. Gli assassini di Massoud sono arrivati da qui; due killer dei commando di Madrid erano partiti dal Belgio. Per non parlare degli altri legami con diversi attacchi, da Charlie Hebdo al treno Thalys, che sono emersi negli anni. Il Belgio si è dimostrato un hub logistico ideale. «Per la sua posizione geografica al centro dell’Europa - osserva ancora Pieter Van Ostaeyen - Perché ospita una vasta popolazione musulmana, diversa e diffusa sul territorio, nella quale si nascondono facilmente quelli più radicali». L’estremismo islamico ha lavorato a fondo tra il 1990 e il 2000. Gli imam protestavano contro le discriminazioni. Insistevano sulla
“ da’wa”, l’invito a seguire i precetti del Corano. Roba ufficiale, alla luce del sole. La legge che proibiva il velo è stato il primo deterrente. Sotto i sermoni ufficiali ha cominciato a muoversi un’attività più radicale. Nascono i primi gruppi di jihadisti. Nel 2010 si impone “Sharia4Belgium”, un gruppo guidato da Omar Bakri e Anjem Choudary. «Le origini siriane del primo e l’arrivo di Amr al-Absi - spiega Van Ostaeyen, - una figura chiave nella formazione dello Stato Islamico, creano una generazione di jihadisti». Sono quelli che partono quando la guerra in Siria riaccende le speranze di giovani isolati e delusi dal contesto in cui vivono. Uomini e donne della terza generazione. «Su 50 combattenti belgi - ricorda Van Ostaeyen - solo il 18 per cento è nato all’estero». Vanno e vengono. Con i loro documenti. Hanno precedenti per furti, violenze, droga. Una costante per i giovani di Molenbeek e altre periferie. Molti sono anche benestanti, hanno studiato, lavorato. Sono inseriti. Amori, musica, bevute, spinelli. Restano in contatto con i loro amici che incontrano e frequentano anche quando tornano dai campi di battaglia. Li abbiamo incontrati e tutti sono rimasti sorpresi dai fratelli Abdeslam. Soprattutto da Salah, considerato solo uno che si godeva la vita. Come il terrorismo degli anni ‘70. Si mescolano, restano sotto traccia. Ma con uno spirito diverso. Decisi, esaltati. Pronti a colpire. Nei paesi vicini, in Francia. Il Belgio deve restare terra franca. La base logistica e organizzativa. Fino ad oggi.