giovedì 19 novembre 2015

Repubblica 19.1115
La fiction occidentale del Califfato
La natura dell’antico regime musulmano non ha nulla a che fare con quella del sedicente Stato islamico di oggi
Quella di Parigi è una narrazione orrifica del fondamentalismo che ha poco di orientale. È una proiezione mediatica della nostra idea dell’infedele
Perché l’Is descrive e oggettiva la nostra stessa demonizzazione dell’islam
di Silvia Ronchey.


«Se guardi ciò che Maometto ha portato di nuovo, troverai solo cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che predicava». La radice dell’idea tanto distorta quanto ormai vulgata sulla natura intrinsecamente violenta della religione islamica e sulla barbarie della sua tradizione bellica, che trapela dalla pubblicistica specialmente americana, sta forse nelle parole che Benedetto XVI citò nel 2006 a Ratisbona, chiamando tendenziosamente in causa l’imperatore bizantino Manuele II, rappresentante dell’impero che nel medioevo più a lungo e più da vicino aveva conosciuto l’ecumenismo egualitario, ispirato alla predicazione di Maometto e a espliciti brani del Corano, che contraddistingueva il califfato ommayade, abbaside, fatimida, poi il sultanato selgiuchide e osmano. Nel pacifico dialogo con il direttore della madrasa di Ankara, nel 1391, il basileus Manuele affermava che «la conversione mediante violenza è cosa irragionevole e contraria alla natura di Dio», ma si riferiva sottilmente alla Quarta Crociata, che nel 1204 aveva “deviato” su Costantinopoli scagliando sul ricco impero una razzia ben più vandalica e rovinosa di quella portata due secoli e mezzo dopo dalla conquista turca. Un modello di guerra santa cristiana perpetrata da eserciti cristiani che portavano nel nome di Dio devastazioni e massacri di massa.
Non solo la natura dell’antico califfato – cui la propaganda dell’Is oggi rinvia con la stessa tendenziosa attualizzazione ideologica con cui poteva rifarsi Mussolini alla Roma di Augusto – non ha nulla a che fare con quella del sedicente stato islamico di al-Baghdadi. Non solo la sovrastruttura religiosa che invoca non rispecchia quella dell’antico islam a livello scritturale, dottrinale, storico. Ma il comportamento dell’islam nelle sue guerre califfali è il contrario esatto di quello che abbiamo visto, in una sorta di aberrante trailer, nell’atroce regia degli attentati di Parigi. L’immagine del barbaro musulmano che il copione vuole offrirci, coerente con le sanguinarie performance con cui l’Is ha scandito la sua avanzata in oriente, mirante a indurre nell’occidente un delirio collettivo, porta le nostre più profonde paure al parossismo nel momento in cui ci restituisce non tanto un’immagine di sé quanto quella sedimentata dal tempo nel nostro inconscio sociale: un’immagine propagandistica creata nel medioevo, nella sua storiografia confessionale in particolare papista, e ripresa acriticamente a partire dall’11 settembre da una propaganda globale che ha insinuato l’”intrinseca negatività” della religione musulmana. Quella di Parigi è una narrazione orrifica del fondamentalismo che ha poco di fondatamente orientale, ma è essenzialmente costruita con materiali occidentali. È una riverberazione mediatica della nostra idea dell’infedele islamico come barbaro sterminatore storicamente ancora meno legittima di quella del cristiano come crociato specularmente propalata nel 2001 dal fanatico proclama urbi et orbi di Osama Bin Laden, quando, pochi giorni dopo l’11 settembre, lanciò attraverso al-Jazeera il suo storico appello “contro i crociati americani”. Lo spettacolo sacrificale di Parigi è un uso mistificato di una narrazione fittizia dell’islam: della sua fiction, concepita per produrre orrore mettendo in scena un dramma che ha l’insensatezza incalzante dell’horror occidentale, che coinvolge il giovane pubblico dello stadio e del teatro, che avvera nel sangue il suo plot e lo amplifica riecheggiandolo nell’utenza mediatica totale.
Quella di Parigi è un’autentica autodemonizzazione. Più che riuscita, se ha spinto Obama a proclamare che l’Is è il diavolo. Affermazione giusta e perfino salutare se intesa a livello psicologico, perché è appunto questo, il male assoluto, che l’Is vuole rappresentare.
Molto pericolosa e ingiusta se rischia di immedesimare quel diavolo nella religione e nella tradizione che falsamente l’Is sostiene di rappresentare. Nella fantasia di sé come incarnazione dell’islam che con la sua strategia comunicativa vuole diffondere è deviante, accecante, ambiguo, delusivo e già in questo autenticamente diabolico, secondo la tradizionale accezione patristica cristiana del diavolo, in greco diabolos, l’obliquo, il mistificatore, il tentatore che nel deserto usa le nostre stesse visioni e fantasie. Contro l’entificazione del diavolo, la sua identificazione nell’uno o nell’altro ente reale, si sono battuti due millenni di teologia cristiana, da Agostino in poi. Nel discorso più profondo di ogni religione, il demonio, il maligno, è l’ingannatore che agisce in noi. Se l’Is descrive e oggettiva la nostra stessa demonizzazione dell’islam, il fanatismo dell’Is realmente rappresenta il diavolo, ma attraverso lo specchio capovolto della nostra fragilità: la vulnerabilità all’ideologia, la semplificazione della verità storica, la censura, o autocensura, della sua e nostra complessità.