Repubblica 16.11.15
La guerra diventata routine nel nostro 11 settembre globale
Al nord si fatica a capire come il sud sprofondi nella sinistra utopia di Daesh. Non è più uno Stato fantasmatico, ma un sogno di potenza e di vendetta che consuma intere generazioni. Stiamo perdendo ma evitiamo di confessarcelo
di Kamel Daoud
Che cosa dire? La notizia mi è caduta tra capo e collo, di notte, a Brooklyn. Una paura nera, soffocante, secca. Perché sono algerino e so che cosa significa una guerra: la rovina dell’essere umano, la rottura, il trionfo degli accecamenti. Qualcosa che vedo delinearsi da anni nel cuore della gente per ucciderla. Perciò mi sono sentito braccato, con le spalle al muro, come se avessi la peste per la mia geografia: ero tra la gente che uccide e la gente che viene assassinata. A che cosa poteva servire ormai gente come me in tempo di guerra aperta? Il mio primo pensiero, dopo lo shock per i morti, è stato per la nazionalità dei kamikaze. Perché oggi il kamikaze uccide le sue vittime ma anche il suo paese d’origine.
La cosa più difficile era reagire. E non restava niente di sensato da dire. Le condoglianze sono trite e proclamare la propria indignazione era insufficiente, banale, come stringere la mano a un morto. L’umanità non aveva la mia pelle e il barbaro aveva i miei tratti. Tutta la tragedia dell’ostaggio. Ero un uomo bruno tra due rive, venditore di una visione del mondo che smentiva la deflagrazione. Quel grido l’avrei sentito spesso e mi terrorizzava, «Allah u akbar», Dio è grande. E adesso rimbombava di nuovo nella bocca degli assassini per far rattrappire il mondo portando con sé accuse, razzismi, diffidenza, insulti e cadaveri.
«Dio è grande» ti fa sentire piccolo e presagisce la morte, non l’estasi davanti a una divinità. Che cosa dire a quel paese che non abbia già sentito e che ormai non stenti a credere, nonostante i suoi uomini di buona volontà: che l’islam non è l’islamismo? Che i terroristi uccidono me quanto uccidono voi? Che uccidono più musulmani che occidentali (come per consolare confrontando i cimiteri)? Che non bisogna assomigliare agli assassini uccidendo la tolleranza e la benevolenza? Ma come parlare a gente che ha perso la ragione per la paura e per il dolore?
L’11 settembre universale ormai dura da un decennio e passa dall’aereo caduto alla guerra aperta. A New York, nell’ambiente dei giornalisti mi ha colpito la sorda routine della reazione dopo gli attentati di Parigi. Tutti si sono precipitati, hanno scritto, commentato, ma “a vuoto”, nella disarticolazione della stanchezza: come se l’indignazione o il grido non potessero più raggiungere i fatti. Come se non ci fosse niente da aggiungere alla fine del mondo, alla fine della frase. Tutto è già stato detto. La guerra è diventata routine.
Che cosa pensare? Prima di tutto la paura. Perché non c’è niente di peggio e di più inesorabile dell’effetto farfalla dell’attentato: si pensa alla propria pelle e a quelli che hanno la pelle dello stesso colore e che “pagheranno” per gli attentati in Francia e in Occidente: immigrati, rifugiati, espatriati, eccetera. Daesh ha colpito la Francia per ciò che essa rappresenta: la sua laicità e la sua diversità. Daesh sa che bisognava colpire precisamente lì per provocare conseguenze di rigetto, razzismo, isteria e la montata degli estremismi. Tutto grasso che cola per i futuri reclutamenti: il mostro si nutre di spaccature e di vecchi testi messianici. Un libro, un deserto, uno scopo. La serie di attentati non poteva avere senso se non colpiva il paese che ospita la più grande comunità musulmana d’Europa. Questo apre le porte al peggio. La Francia è ricca e fragile per le sue diversità. E quelle diversità soffriranno. La gente si chiuderà ancora di più. E Daesh finirà per aver ragione.
Poi gli attacchi portano i segni dell’organizzazione e della pazienza di uno Stato. Lo Stato islamico o un altro Stato canaglia che reagisce a pressioni internazionali diventate intollerabili. Si passa da «Assad deve andarsene» a «Hollande deve andarsene », dicono i sospettosi. Questo attacco è una cuccagna per i diavoli del mondo. Così la Francia è spinta a optare per una guerra interna contro i suoi, in nome dei suoi, per credere di difendersi. Gli attentati hanno ucciso 132 persone ma ne uccideranno di più, altrove, con un’Europa che chiuderà le porte ai rifugiati. Barricarsi dentro e sorvegliare il rumore dei passi attorno al proprio continente. Il ciclo nutrirà gli esclusi del mondo, gli islamismi rampanti tra la mia gente, e provocherà la guerra. Perché è in arrivo una guerra, è quasi inevitabile: al nord si fatica a capire come il sud sprofondi nella sinistra utopia di Daesh. Non è più uno Stato fantasmatico, ma un sogno di potenza e di vendetta che consuma intere generazioni. Dirlo così, brutalmente, irrita le persone di buona volontà che nella mia geografia lottano contro il Mostro, ma è una battaglia che stiamo perdendo. Semplicemente evitiamo di confessarcelo.
Che cosa fare degli islamisti o di fronte agli islamisti? È la vecchia domanda di un secolo troppo giovane. L’islamismo è un fascismo. La sua visione si basa su una presunzione mondiale, un totalitarismo subdolo e uno stratagemma di guerra: non può essere moderato, può solo essere paziente. Corrode l’umanità in nome di una religione, ma la religione è soltanto un mezzo. Non difende Dio: vuole sostituirlo. Che cosa fare, allora? Ucciderlo non fa che dargli ragione. Ha la meccanica del martire: più lo si uccide, più è eterno e più ha ragione. In certi casi la guerra al terrorismo è terrorismo a sua volta. È necessaria ma insufficiente. L’idea è di sradicare il terrorista oggi ma non può essere una vittoria se non gli si impedisce di rinascere domani. Perché non si nasce jihadisti. Jihadisti si diventa a forza di libri, di canali televisivi, di moschee, di disperazioni, di frustrazioni. Tutto viene da una matrice, da un paese, da un regno: non serve a niente lottare contro il Daesh straccione in Siria e stringere la mano al Daesh ben vestito dell’Arabia Saudita.
L’idea è di non fare il gioco degli islamisti, non nutrirli, ma soprattutto non lasciarli venire al mondo per ucciderci. L’idea di chiudere la Francia ai suoi cittadini o al resto del mondo è un riflesso previsto, ma non è quello giusto. Non c’è una zona offshore di fronte a questo fascismo e chiudere gli occhi non equivale a spegnere il fuoco. Ci sono solo impegni, umani, e chiusure. Daesh uccide, rompe, esclude, terrorizza, mente, approfitta, recluta la disperazione, separa e disumanizza. Bisogna sradicarlo dappertutto ma senza assomigliargli, in Francia o altrove. Possiamo farlo? A volte ne dubito, ma ho anche dei figli e quindi un dovere.
Traduzione di Elda Volterrani
Kamel Daoud, giornalista algerino ha pubblicato per Bompiani Il caso Meursault, seguito ideale dello Straniero di Albert Camus