Repubblica 15.11.15
Da Carrà a Magritte tutti sulla strada di re Giorgio
Ma lui, nelle sue memorie, liquidò la parabola dei compagni di Breton con disprezzo
di Lea Mattarella
Il pittore influenzò molti colleghi italiani compreso Morandi. E diventò la “musa” dei surrealisti come Max Ernst e Salvador Dalí
La metafisica di Giorgio de Chirico è stata una di quelle invenzioni pittoriche così straordinarie da costringere molti artisti a farci i conti. Carlo Carrà lo raggiunge ben presto su quella strada, in cui ci si imbatte in manichini, porte che si aprono su ambienti bui e sconosciuti, figure omeriche, apparizioni, enigmi, colpi di teatro. In mostra a Ferrara è raccontata la loro rivalità a colpi di capolavori, tra Ettore e Andromaca e Penelope. E anche Giorgio Morandi ha una breve fase in cui le bottiglie e le ciotole del suo studio assumono un ordine metafisico, incontrando squadre, misteriose casette, manichini e ombre, come si vede dalle nature morte esposte in questa occasione datate tra il 1917 e il 1919. Sono Carrà e Morandi a trasferire la metafisica in Germania dove sbarcherà tra i seguaci della Nuova Oggettività e nutrirà la fantasia delle litografie Fiat Modes Pereat Art di Max Ernst, oggi in mostra. E se torniamo in Italia vediamo che persino Filippo de Pisis, la cui rapida pennellata è assai lontana da quella di de Chirico, si confronta con i suoi Pesci sacri, citando l’occhio disegnato su un biglietto di visita con l’angolo piegato che compare ne L’angelo ebreo. E un “costruttore” come Mario Sironi elargisce un mistero metafisico alla sua Venere dei porti.
Ma sono i surrealisti coloro che hanno fatto del Pictor Optimus la loro musa inquietante, per dirla dechirichianamente. Com’è noto i loro rapporti furono a dir poco turbolenti. André Breton, teorico del movimento, era facile alle “scomuniche” e sulla Révolution Surrealiste, dopo una prima, totalizzante infatuazione, condanna de Chirico come “falsario di se stesso”.
Da parte sua l’artista, nelle memorie, liquida così l’avventura con gli antichi ammiratori: «Poco dopo esser giunto a Parigi trovai una forte opposizione da parte di quel gruppo di degenerati, di teppistoidi, di figli di papà, di sfaccendati, di onanisti e di abulici che pomposamente si erano autobattezzati “surrealisti” e parlavano anche di “rivoluzione surrealista”».
Eppure la pittura dei seguaci di Breton sarebbe stata un’altra senza di lui, la sua influenza è stata fondamentale nella costruzione di spazi onirici e di lucidi e perturbanti paradossi. Qui a Ferrara lo si coglie appieno di fronte ai capolavori di Salvador Dalí e di René Magritte in mostra. Gradiva retrouve les ruines antropomorphes del primo, inquadra una singolare coppia abbracciata, ritratta in un immenso e desolato spazio vuoto su cui sorgono rovine. La figura femminile in primo piano deriva da quelle di spalle, circondate da drappeggi di de Chirico. Così come risente delle sue suggestioni il lungo spazio “verticalizzato” e costruito come un palcoscenico, luogo ideale per la messa in scena di sogni, che sono soprattutto incubi, esibiti con una maniacale perfezione formale. L’influenza di de Chirico su Magritte è evidente nell’accostamento di oggetti apparentemente lontani tra loro per forme e significati. Qui è analizzata con accostamenti affascinanti la loro fratellanza nell’utilizzare il “quadro nel quadro”. Ne La condition humaine del pittore belga, il dipinto raffigurato all’interno dell’opera si confonde con la realtà. Perché è questo il punto: non si conoscono più, o forse non esistono, i confini tra ciò che è vero e ciò che è rappresentato, sognato, apparso.