Repubblica 15.1.15
Il Mussolini amputato e il mea culpa dello storico
di Simonetta Fiori
Il Mulino pubblica il prossimo anno i diari di guerra di Mussolini. Una cronaca in presa diretta uscita in quindici puntate, tra il dicembre del 1915 e il febbraio del 1917, sul Popolo d’Italia. Documento di straordinaria efficacia, dice Ugo Berti che da decenni cura la saggistica storica per il marchio bolognese: per lo stile asciutto, per la capacità di evocare la vita in trincea sotto le bombe, per le annotazioni sapide su commilitoni, canti e dialetti. Fin qui non c’è notizia. Che Mussolini sia stato un giornalista brillante non è cosa da mettere in discussione. E che il Mulino possa pubblicare senza scandalo il diario del soldato semplice poi caporal maggiore Mussolini non appare materia opinabile. La notizia va cercata nell’introduzione di Mario Isnenghi, storico della grande guerra e in questo caso garante della correttezza politica dell’operazione editoriale. È Isnenghi a rivelarci che quando pubblicò Il mito della grande guerra per Laterza, al principio degli anni Settanta, ritenne fuori luogo attingere ai diari mussoliniani. Il personaggio era «improponibile» per quei tempi tanto da indurre lo storico a «un’omissione » grave come può esserlo «un’automutilazione ». E fin qui è tutto comprensibile. Ma Isnenghi aggiunge che ancora oggi qualche studioso della Grande Guerra si rifiuta di citare il diario mussoliniano perché «inopportuno», imbarazzante sul piano politico. E questo può apparire una ossessione. Perché è vero che non si tratta di un documento neutrale. Da retore sapiente, il futuro duce va costruendo in quelle pagine il mito del leader che più tardi avrebbe messo in campo per conquistare l’Italia e poi distruggerla. Ma basta dirlo, come fa Isnenghi nell’introduzione. Ignorarlo dopo settant’anni appare eccessivo.
*** Mussolini, ma solo lateralmente, compare anche in un bel libro dedicato a Gandhi che Sellerio pubblica a breve. Che c’entra il capo di un regime violento e illiberale con il simbolo del pacifismo? Gianni Sofri ce l’ha già spiegato in una monografia uscita anni fa e vi torna oggi con il suo Gandhi tra Oriente e Occidente: per il duce come per Giovanni Gentile o Farinacci ammirare Gandhi significava tenerlo lontano. Le santificazioni garantiscono sempre questo effetto rassicurante della distanza. Il libro di Sofri si concentra soprattutto sull’esperienza formativa di Gandhi che smentisce la favola di un Occidente e di un Oriente come mondi diversi e incomunicabili. Nella “circolarità culturale” del leader indiano rientrano le lettere scambiate con Tolstoj tra il 1909 e il 1910 e riproposte in questo volume (è ormai fuori catalogo una precedente raccolta curata insieme a Pier Cesare Bori). Ha ragione Sofri quando dice che nel comune sentire Tolstoj è un uomo dell’Ottocento mentre Gandhi appartiene al secolo successivo. Li separavano oltre quarant’anni di età. Tolstoj era uno scrittore celebre, forse il più famoso nel mondo; Gandhi un uomo politico che cominciava ad avere una qualche notorietà internazionale. Tolstoj sarebbe morto di lì a poco. L’ultima lettera a Gandhi fu anche uno dei suoi ultimi scritti.