domenica 15 novembre 2015

Repubblica 15.11.15
Bice Mortara Garavelli
“Indagando la retorica e le parole ho vissuto il dolore e cercato la verità”
La linguista racconta la Resistenza, gli insegnamenti di Benvenuto Terracini, gli studi sul valore umano della filologia, la morte di un figlio
Ha dedicato un libro al silenzio, anch’esso un linguaggio, che va accostato non solo al buio, anche alla quiete
colloquio con Antonio Gnoli


Cosa nasconde il cuore di una persona? Bice Mortara Garavelli è una donna apparentemente felice. Il suo Manuale di Retorica è giunto alla sedicesima edizione. Da più di 60 anni la lingua italiana è il suo territorio di caccia. Una laurea con il grande Benvenuto Terracini conseguita a Torino negli anni Cinquanta sulle parentesi e gli incisi. Bice è una donna arguta, curiosa. Vive a Torino con un marito che è stato un importante magistrato e compagno di banco di Umberto Eco. Mario Garavelli coltiva l’arte della discrezione. È una presenza costante nella vita di Bice. Ma, in un certo senso, invisibile. Almeno è ciò che percepisco, tuffandomi nella vita di questa donna che mi accoglie con una eleganza mentale trafelata, dubbiosa, tormentata. Ma anche ironica. Chi avrebbe mai scritto, affondando nelle carni molli della costruzione giuridica italiana, un libro su Le parole e la giustizia? Dove si intuisce – attraverso un esame attento, rigoroso e perfino esilarante della lingua giuridica – il perché nella patria del diritto romano stentano a formarsi strumenti legislativi chiari e certi. E qui verrebbe da aggiungere che la retorica ha svolto il suo compito di copertura. Si capisce, dunque, che la lingua è una grande invenzione che aiuta a dire o a non dire: «In questo siamo maestri e prestigiatori. Se una ragione di vita ha accompagnato il mio lavoro di linguista è stata di rendere l’organismo vivo e talvolta sfuggente della lingua qualcosa di stabile, almeno nei limiti del possibile».
Ogni lingua pone problemi di trasmissione e di interpretazione. Sono questi i limiti del possibile?
«Il confine del possibile si disegna con il grado di comprensione di un discorso. Ma chi stabilisce questo grado? Il parlante? L’interlocutore? La lingua medesima? Montaigne notò che il panorama della lingua era mutato da quando le parole che servivano per interpretare le cose cedettero il passo alle parole che avevano come oggetto o argomento altre parole».
Oggi diremmo che è sempre più difficile parlare di fatti. Un linguista come reagisce?
«È difficile parlare delle “cose”, degli individui, dei modi d’essere e degli accadimenti di un mondo reale o fittizio, senza tener conto di ciò che altri hanno detto, o noi stessi altre volte abbiamo detto o pensato. Un linguista non può che prendere atto che il discorso umano è quasi sempre citazionale».
Beh non è che i fatti non ci siano.
«Ci sono, d’accordo. Ma dentro un’azione linguistica. Vestiti dalla parola. Che è sempre o quasi sempre una “parola altrui”, come fu detto con efficacia di Michail Bachtin e come indipendentemente seppe teorizzare il mio maestro Benvenuto Terracini».
Dove ha studiato?
«Università di Torino. Mi laureai nel 1954 con una tesi sulle incidentali nelle proposizioni. Più semplicemente sulle parentesi».
Meraviglioso. Scelse l’argomento più superfluo che ci fosse.
«Superfluo? Forse. Ma un enunciato parentetico aggiunge, chiarisce, caratterizza. Nella scrittura l’inciso è segnalato da parentesi tonda, virgole, lineette. In quello orale da un cambio dell’intonazione della voce».
È come chiudere una frase dentro una gabbia, sacrificarla per meglio far risplendere il resto della proposizione.
«L’ordine della lingua richiede gerarchie, ma altresì scoppi di libertà, divagazioni».
Rapidità di stile.
«E del pensiero. Italo Calvino nella rapidità di stile colse l’agilità, la mobilità, la disinvoltura. Tutte qualità, diceva, che si accordano con una scrittura pronta alle divagazioni».
Dove è nata?
«A Refrancore, in provincia di Asti. La casa natale era sul confine di Montemagno. Qui vidi passare un giorno sul suo cavallo bianco Iolanda di Savoia. Mi sembrava un sogno, una visione per una bambina vissuta fino a quel momento tra le cose semplici. La mamma maestra elementare. Mio padre segretario comunale. Le zone, nel 1943 1944, erano presidiate dai partigiani. Ricordo certe fughe notturne, nell’angoscia perenne. Ci rifugiammo a Masio. I tedeschi cercavano mio padre per fucilarlo. Reo di aver aiutato la lotta partigiana. Per rappresaglia bruciarono mezzo paese. Rivoltarono il municipio. Nessuno tradì né fece il suo nome».
A lei cosa fecero?
«Avevo 11 anni. Vidi i tedeschi arrivare con le barche dal Tanaro. Mio padre fuggì su un carro trainato dai buoi, nascosto tra la paglia. I soldati irruppero a casa. Io avevo deciso di studiare la loro lingua. Tenni volutamente aperto sul tavolo della cucina il corso di lingua tedesco Pellis e Bidoli. Riuscii così a far risparmiare la casa. Malgrado la guerra fui una bambina felice».
Ha un’idea della felicità?
«È una condizione rara e facilmente insidiabile. Ma se dovessi definirla non troverei di meglio che una frase contenuta in una lettera che Terracini mi spedì: «la vera felicità è in noi e nelle circostanze della vita».
Sembra la frase di un innamorato.
«Era innamorato dell’insegnamento, della libertà della lingua e dell’uomo. Patì da ebreo le leggi razziali. Fu esule in Argentina e dopo il 1945 riprese l’insegnamento in Italia. Per lui la lingua non era qualcosa di astratto, ma nasceva e viveva nell’interazione dei parlanti. Fu grazie a Terracini che divenni amica di Maria Corti e Cesare Segre, anche loro suoi allievi. Era già abbastanza vecchio e stanco quando mi disse: “Vai a Pavia da Cesare e Maria, loro ti possono ancora insegnare qualcosa”».
Che ricordo ha della Corti?
«Fu una donna di grande affabilità. Diventammo molto amiche, al punto che quando era a Torino spesso dormiva da me. Aveva sofferto il distacco sentimentale da Segre. Si scoprì vulnerabile e finì col rinunciare a tutto per lo studio. Maria era molto sicura delle sue idee. È stata una presenza fondamentale nella mia vita. Fu lei a darmi l’idea di scrivere un manuale di retorica. Che ha avuto, e continua ad avere, un successo lusinghiero».
Qual è il fascino della retorica?
«Direi l’arte di persuadere».
E il limite?
«La capacità di ingannare».
In un politico?
«Se è sprovvisto del senso della cosa pubblica la menzogna diventerà essa stessa cattiva persuasione ».
Quanto incide la retorica in pubblicità?
«Tantissimo. Ma in modo inconsapevole. Un brano pubblicitario mette in gioco tutti i congegni della retorica, ma senza esserne profondamente cosciente ».
La retorica è una forma di potere?
«È il potere di “fare presa” sui destinatari. Ma per catturare le persone cui ci si rivolge bisogna identificarsi con loro. Le diverse maniere di raggiungere tale identificazione sono l’oggetto della retorica».
Da discorso innocuo e ornamentale, come la consideravano gli antichi, diventa una strategia comunicativa di conquista.
«Anche nell’antichità si pensava alla lingua come potere di persuasione. La retorica nasce nel V secolo avanti Cristo. Nella Magna Grecia e in Sicilia ».
Dove il pensiero divagava.
«Mica tanto. Fin da subito le tecniche retoriche si manifestano sia come l’arte di difendersi e di attaccare nelle controversie giuridiche e nei dibattiti politici; sia nell’uso della parola come suggestione, trascinatrice degli animi, incantamento della ragione ».
Agilità e versatilità della parola.
«Già Omero immaginò che il sapiente sapeva conversare con gli uomini in molti modi. La retorica occidentale fu alla base della creazione della civiltà greca. Per il suo fiorire furono determinanti lo sviluppo della polis e la democrazia».
Non crede che la retorica ci abbia allontanati dalla verità?
«Nietzsche aveva compreso che il linguaggio è eminentemente retorico e che per questo non vive di verità ma di assenza di verità. Le mobili metafore non sono il riflesso della realtà ma la sua falsificazione o trasformazione».
Come reazione a tutto questo ha deciso di occuparsi del silenzio?
«Anche il silenzio è un linguaggio. Un modo di parlare senza usare le parole. In letteratura e in poesia il silenzio è accostato alla notte, al buio, alle ombre. Ma anche alla quiete e alla pace, come suggerisce Leopardi. Il silenzio vive in ogni tristezza ci ricorda
Walter Benjamin; ma alberga anche nell’indicibile come sperimentò Primo Levi ad Auschwitz».
Mi viene in mente quel piccolo e prezioso libro che Padre Giovanni Pozzi dedicò al tacere.
«
Tacet
fu uno dei suoi ultimi libri: un bellissimo elogio della parola silenziosa che nasce dal sapere ascoltare. Padre Pozzi l’ho conosciuto bene. Fu un uomo straordinario. Terracini mi esortò a leggere la sua predicazione sul Seicento. Aveva un’aria severa e limpida. Fu lui a ricordare Maria Corti al funerale. Era inverno. Nel cortile dell’università di Pavia ci fu la cerimonia. Ricordo tante persone. Ovviamente Segre che era stato il suo compagno. Dante Isella, Roberto Cerati, Umberto Eco. E poi il feretro di Maria fu portato a Pellio. Un paesino dove trascorreva l’estate. Nella chiesetta che lei amava Padre Pozzi prese la parola. Il silenzio del momento si rivestì della sua bellissima voce».
Cosa disse?
«Disse che con la sua filologia Maria aveva ricercato la verità. Né più né meno quella che attribuiamo all’Onnipotente. Cos’è Dio? Dio è verità. Maria cercò la verità nei testi».
E lei dove cerca la verità?
«Non lo so. Essa ci appare brutale, drammatica, o magari meravigliosa, solo in alcune circostanze. Non bastano tutte le icone della letteratura, né le figure della lingua per dirci cos’è la verità. Quando penso agli animali che rifiutano il cibo ho la sensazione che in quel dolore o in quell’approssimarsi alla morte si nasconda la verità».
Vale anche per gli umani?
«È più complicato. Ma alla fine il meccanismo è analogo. Si rifiuta, si tace, si cancella, ci si lascia andare all’acuta sonnolenza del dolore. Le ho detto quanto da bambina sia stata felice. Così come lo fui al mio matrimonio con Mario nel 1957. E l’anno dopo morì mio padre. Ma questo era in qualche modo scritto nell’ordine naturale delle cose. Diverso è se ti muore un figlio e tu sei lì a raccontarlo o a tacerlo, come nel mio caso, e a disperarmi».
Intende che suo figlio è morto, mentre lei è ancora qui, in un ordine invertito delle cose?
«C’è qualcosa di profondamente innaturale e di ingiusto nella sparizione di un figlio».
Come si chiamava?
«Giovanni, morì nel 1984. La notizia ci giunse improvvisa. Squarciò il mio cuore».
Come accadde?
«Era il 27 dicembre. Leggemmo sul giornale: studente italiano ucciso a Bangalore. Non c’erano elementi ulteriori. Fui presa da un’ansia fortissima».
Perché suo figlio si trovava lì?
«Dovrei raccontarle la vita di questa persona. Fin da bambino Giovanni sembrò diverso. Un’intelligenza acuta, profonda, prensile. Ricordo che a sei anni gli feci vedere l’alfabeto greco e in poche ore lo comprese. Aveva una naturalezza sorprendente nell’imparare le lingue. Ma era affettivamente fragile. Capace di piangere per un nonnulla. Crescendo sviluppò enormemente le sue doti intellettuali. Ma emotivamente restò un bambino. La sua vita è stata per noi fonte di meraviglia e di paura».
Paura per cosa?
«Per la sua esposizione al dolore. Scoprì che il mondo era diverso da come se lo aspettava. Scoprì la durezza e l’attrito delle cose. Lo vedevamo soffrire. Disperarsi. Eravamo impotenti. Chiedemmo aiuto a Don Ciotti. Passò un certo periodo nel Gruppo Abele. Si rasserenò. La sua predisposizione alle lingue lo aveva portato a imparare il tibetano. Andò in Nepal. Tornò in Italia. Ma qui soffriva. E volle fare un secondo viaggio in India».
Cos’era per lui l’India?
«Forse era l’armonia che l’Occidente non poteva dargli. Pochi gesti ci rivelano quale sia la vita segreta di un’anima. Quelli di Giovanni lo spinsero ad abbracciare un mondo che aveva deciso di conoscere e amare».
Lo sentiste in quei mesi?
«A volte c’erano delle telefonate. Diceva qui sto bene, sto in pace. Gli spedimmo dei soldi su una banca indiana. A un certo punto smise di telefonarci. Perdemmo le sue tracce a Nuova Delhi. Poi, quella morte violenta in un albergo di Bangalore. Fu una rapina. Per me è stata una prova difficilmente superabile».
Come si sente oggi a trent’anni di distanza da quell’episodio drammatico?
«Da lungo tempo penso di non essere più la “donna di carta” presa dalle ricerche e dai libri. Sono stata una donna disperata. Quante volte ero lì sul davanzale della finestra, pronta a farla finita. Lentamente mi sono ripresa. Grazie a mio marito Mario e a mio figlio Paolo, il più grande, che mi ha dato un nipote. Dove rifiorisce una speranza, una nuova vita, lì il gelo arretra e si scioglie».