La Stampa TuttoLibri 9.7.11
Nell’isola delle sirene fiorisce l’immortalità
di Silvia Ronchey
«Io, che non amo porre confini tra me e il mondo, ho preso la decisione di farmi giardino»
Dall’Eden alle Sirene: la serie estiva di Tuttolibri prosegue con un
racconto che prende spunto dalle Argonautiche orfiche , poema bizantino
posteriore alla metà del V secolo d.C. in cui il protagonista delle
imprese della nave Argo non è più Giàsone ma Orfeo.
La voce narrante del racconto è quella di Bute, il cui episodio si rintraccia in Apollonio Rodio.
Estate in giardino/2 Un racconto ispirato alle Argonautiche: in viaggio
sulla nave di Orfeo, cercando le creature metà fanciulle e metà pesci e
il loro prato marino tra gli scogli, con gigli e viole
Ogni giardiniere sa che il principio di ogni giardino è la morte. E’
dalla putrefazione e dalla decomposizione più amara che nascono i fiori
più dolci, le orchidee più delicate, le rose più profumate, le viole
dalle striature più cupe, che trascinano nel vortice dello stame come al
fondo del pozzo sul cui orlo si sporgono. Posso annegare in una viola,
perdermi nel labirinto di un’orchidea, sciogliermi nella pura
contraddizione di una rosa.
Sono affascinato dai giardini più che da ogni altra forma di bellezza,
perché sono il perfetto punto di congiunzione tra la bellezza e la
morte. Mi chiamo Bute, sono un viaggiatore. Prima di imbarcarmi sulla
nave di Orfeo ho girato il mondo, ho visto i giardini pensili di
Babilonia, gli orti che gli egizi circondano di alte mura per
preservarli dalle tempeste di sabbia, i cortili minoici striati di
croco. Conosco il parco dove si riuniscono i discepoli di Socrate, il
recinto ombroso dei seguaci di Epicuro, i tetti fioriti in onore di
Adone, i ninfei circondati di statue e le esedre traboccanti di
campanule e gigli. Ho visto signori prodigarsi per le loro ville sulle
coste ausonie o sulle spiagge libiche, frustare i loro giardinieri e
offrire sacrifici a Flora perché le terrazze in pendio sul mare fossero
tappezzate di dalie fiammeggianti come soli o di ortensie livide come
lune. Gareggiavano tra loro, e con la natura genitrice di tutto. Ed
erano sempre insoddisfatti.
Poi, nel sud dell’Egeo, ho visto gonfiarsi all’equinozio rose
gigantesche, i cui mille petali spalancati emanavano un profumo che
stordiva chiunque costeggiasse quelle rive. Ho capito che i fiori più
belli non possono essere coltivati, ma devono emergere spontanei dal
ciclo inesorabile dell’essere. E che per questo, se nulla può eguagliare
la bellezza di un fiore selvaggio, il giardino più bello è quello il
cui artefice è la morte.
Sono più goloso dell’ape attica, cara ad Atena, più vibrante dello
scarabeo dal verde guscio, sacro agli egizi. Per me il sentore di un
fiore è più complesso di qualsiasi melodia scaturita dal flauto o dalla
lira, più plastico di qualsiasi forma scolpita da Apelle o da Fidia.
Avevo sentito parlare di un giardino, che è il giardino dei giardini.
Cresce su un nudo scoglio proteso nel mare, la punta di un promontorio
dove la roccia si tuffa a precipizio dall’alto. Alcuni la chiamano
Anthemoessa , l’Isola dei Fiori. Come gli insetti gremiscono le rose e
ronzano creando una melodia che ipnotizza e rapisce, così in questo
giardino ammaliano i marinai col loro canto strane creature, per metà
fanciulle, per metà pesci secondo alcuni, uccelli secondo altri, in
realtà grandi insetti dalle code iridate e traslucide, come quelli che
precipitano dal cielo insieme agli angeli ribelli.
Alcuni le chiamano Sirene, e il loro nome, seirén , è infatti uguale a
quello che in greco designa alcune api solitarie. Secondo altri viene
dal verbo seiráo , «lego», e allude al nesso tra tutte le cose, o da
seirá , «catena», la grande catena dell’essere. Come che sia, la
vibrazione irresistibile che emettono è in qualche modo simile alla
musica degli astri. Platone, nel racconto di Er, parlando del fuso che
vortica sulle ginocchia della Necessità, ha detto che l’armonia delle
otto sfere celesti si fonde nel suono della voce continua, incessante
delle Sirene.
Si sa che è destinato a non fare ritorno chiunque si tuffi dalla nave vinto da quel canto. Ma a vincermi non è stato
«Le piante crescono tra le rocce scoscese, si specchiano nel mare e si
nutrono dei corpi dei marinai» «Il profumo di un fiore è più complesso
di qualunque melodia scaturita dal flauto o dalla lira del poeta»
Il canto. Orfeo, dritto sulla prua, lo aveva messo a tacere. Con la sua
cetra, che detta ordine a ogni creatura, aveva vinto e umiliato le
Sirene. A paragone dell’incalzante armonia di Orfeo, il loro era
diventato un gemito indistinto. Non sono stato sedotto dalle Sirene, non
mi sono tuffato dalla nave per il loro canto. Volevo vedere il
giardino.
I fiori che nascono nel prato tra le rocce scoscese, e si specchiano e
moltiplicano nell’infinita lente del mare che l’aratro non solca, li
immaginavo simili a quelli che secondo i giudei adornano il giardino
dell’Eden, o forse a quelli dei cimiteri dei cristiani. Perché, come
Circe ha rivelato a Odisseo, nascono da uomini marciti. Perché le sirene
dalla voce di miele non si nutrono di altro animale che non sia l’uomo.
Ed essere il migliore dei concimi è una delle non molte qualità che
rendono superiore agli altri animali il bipede implume che chiamiamo
uomo perché, stando ai latini, è fatto di terra, humus , e lì ritornerà.
Tutto va sotto terra e rientra in gioco. Un gran mucchio d’ossa, la
pelle che scompare, esseri umani fusi in una spessa assenza. Nel prato
marino le ossa erano in putrefazione, l’argilla rossa aveva bevuto il
loro biancore e il dono di vivere era passato ai fiori. Grandi gigli
purpurei, grandi gigli rosati schiudevano corolle odorose dai bordi
dentellati; i calàdi dispiegavano foglie policrome filigranate d’oro
bruno, cesellate d’oro verde; le viole si gonfiavano tra fogliami
gladiolati; le bromeliacee rizzavano le loro spate enormi come sessi
impudichi. Intorno, il cielo cantava all’anima consunta gli scogli
mutati in rumore. Come diceva il mio compagno di remi sulla nave di
Orfeo, anche noi saremmo divenuti canto.
E’ così che ho deciso di farmi divorare, perché la decomposizione del
mio imperfetto corpo mortale contribuisse alla perfezione dell’unica
bellezza immortale, che a ogni stagione si ricrea sempre sublime e mai
uguale: la bellezza del giardino.
Credetemi, è questa l’immortalità. Non quella di Odisseo, che alle
Sirene ha resistito spalmando le orecchie di cera. Non quella di
Giàsone, che ha evitato l’Isola dei Fiori per conquistare il Vello
d’Oro. Loro sopravvivono nei versi dei poeti, ma sono carta, segno,
effigie, immagine di un’immagine — io disprezzo la letteratura. Io mi
sono dato alle Sirene come il Buddha alle tigri. Narciso, che amava se
stesso, è diventato un fiore. Io, che non amo porre confini tra me e il
mondo, mi sono fatto giardino.