martedì 3 novembre 2015

La Stampa 3.11.15
Sos per la cultura
“Solo i Caschi blu potranno salvarla”
Che cosa si può fare per evitare altre Palmira?
Dalla Bmta di Paestum l’alto rappresentante Unesco Mounir Bouchenaki rilancia il progetto dell’Italia
di Maurizio Assalto


Il tempio di Baalshamin: distrutto. Il tempio di Bel: distrutto. L’Arco di trionfo: distrutto. Il mausoleo di Mohamad ben Ali, discendente di un cugino del Profeta: distrutto anche quello. Dovrebbe essere un festoso incontro di offerta e domanda di luoghi in cui viaggiare, la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico, invece quest’anno - in molti dibattiti del fitto programma - è sembrata soprattutto una dolente rassegna di posti bellissimi dove non si può più andare, o dove per paura si esita a andare, o in cui rimane poco da vedere. Dal Nord Africa al Vicino Oriente alla Penisola Arabica. Su tutti un nome, che un tempo era da favola e ora è da incubo: Palmira, la città martire.
Mohamad Saleh, l’ultimo direttore locale del turismo, fuggito poco prima dell’arrivo dell’Isis, lo scorso 20 maggio, elenca con voce asciutta le devastazioni, mentre sullo schermo scorrono le immagini del «prima» e «dopo». Ma poi si commuove quando ricorda l’amico Khaled al-Asaad, l’anziano direttore del sito archeologico che diceva di amare quei monumenti più dei propri figli, assassinato in agosto dai fanatici invasori. Un martire anche lui. La testimonianza di come la difesa degli uomini e quella delle «pietre», che a volte vengono poste in alternativa, siano due aspetti dello stesso impegno a tutela dell’umanità che anche in tante pietre è contenuta.
Qualcuno (Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla) si indigna: Palmira sorge in mezzo a una pianura deserta, per salvarla bastava bombardare dal cielo le carrette del Califfo in avvicinamento. Qualcuno (l’ambasciatore Francesco Caruso, già rappresentante italiano dell’Unesco) evoca il «diritto all’ingerenza culturale», oltre a quella umanitaria. La questione è nell’aria: a cosa serve iscrivere un luogo nell’elenco del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, se poi non si fa niente per difenderlo?
Giriamo la domanda a Mounir Bouchenaki, algerino 72enne, una vita consacrata alla salvaguardia dei beni culturali, oggi consigliere speciale della direzione generale dell’Unesco e direttore dell’Arab Regional Centre for World Heritage con sede a Doha, in Bahrein. Archeologo di formazione, in uno dì suoi primi scavi - nel sito di Tipaza, tanto amato da Camus - aveva riportato alla luce uno splendido mosaico paleocristiano con la scritta «In Christo Deo pax et concordia sit convivio nostro». Pax et concordia, si può dire, sono l’insegna del suo impegno appassionato.
Professor Bouchenaki, la tutela dell’Unesco non rischia di restare qualcosa di puramente virtuale?
«Noi facciamo tutto quello che è possibile, nelle condizioni in cui siamo costretti a operare. Raccogliamo e verifichiamo le informazioni sullo stato dei siti, ma se non è garantita la sicurezza ci è precluso ogni intervento diretto. Nel 2003 potei andare a Baghdad, con una delegazione di cui facevano parte anche il direttore del British Museum Neil McGregor e il direttore dell’Istituto italo-iracheno Roberto Parapetti, soltanto a metà maggio, 15 giorno dopo la caduta di Saddam, quando gli Stati Uniti avevano installato un governo provvisorio. Constatate le devastazioni, consegnammo un rapporto alle Nazioni Unite, che nel giugno di quell’anno vararono una risoluzione sul traffico illecito dei beni culturali e sulla protezione del patrimonio. Una analoga risoluzione è stata presa nel febbraio 2015 per la Siria e l’Iraq».
Non crede che i tempi siano maturi per dotarsi di Caschi blu del patrimonio culturale?
«Già una decina di anni fa c’era stata un’iniziativa in questo senso, da parte proprio del governo italiano. Il direttore generale dell’Unesco era allora Koichiro Matsuura, io ero vice direttore generale per la cultura: firmammo un accordo che prevedeva un appoggio militare italiano, in forma di Caschi blu, per il patrimonio culturale. Poi la cosa non ebbe seguito. Quest’estate l’Italia ha presentato insieme con la Giordania un’analoga iniziativa all’assemblea generale dell’Onu, e poche settimane fa i rappresentanti dei due Paesi sono andati all’Unesco, dalla direttrice Irina Bokova, per discutere sulla creazione di questo corpo militare. Che è quello che ci manca in questo momento. Adesso abbiamo l’Unhcr per i rifugiati, la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa per i feriti e i morti. Ma per il patrimonio culturale non c’è niente».
A che punto è la proposta italo-giordana?
«Sarà presentata dal segretario generale dell’Onu ai Paesi membri. È una proposta ragionevole che dovrebbe essere appoggiata. Personalmente sono ottimista. Mi sembra che ci sia una sensibilizzazione internazionale, perché quello che è successo negli ultimi tre-quattro anni è un disastro senza precedenti. Non si tratta più dell’attacco a un singolo monumento, come nel caso del ponte di Mostar, fatto saltare dai croati, nel 1993, in quanto simbolo del giogo ottomano: adesso siamo di fronte a una distruzione sistematica. In Siria e nelle zone dell’Iraq in mano all’Isis c’è la volontà di cancellare la memoria, il rapporto tra una popolazione e la sua eredità culturale. Come sta accadendo anche in Libia, dove la locale al Qaeda ha già distrutto una cinquantina di mausolei in cui i fedeli si recavano a pregare - perché per quei fondamentalisti non devono esistere intermediari tra il singolo e Dio - e nello Yemen, dove a fare le spese dell’insurrezione degli sciiti Huti sono stati diversi monumenti e la stessa capitale, Sanaa, patrimonio Unesco. Qualcosa che si già si era cominciato a vedere nel 2001 a Bamiyan».
Dove lei cercò invano di scongiurare la distruzione dei Buddha…
«A fine febbraio di quell’anno ricevemmo la segnalazione dall’ambasciatore greco a Islamabad: il mullah Omar aveva pronunciato la sua fatwa e i Buddha sarebbero stati distrutti alla fine della festività allora in corso, quella del Sacrificio di Abramo, la seconda più importante dell’islam. Avevamo una settimana di tempo. D’intesa con Matsuura, chiesi all’ambasciatore francese a Islamabad, l’amico Pierre Lafrance, di prestarsi come inviato speciale dell’Unesco a Kandahar. Lui accettò, poté parlare con vari ministri del governo talebano, ma non con il mullah Omar, che ha sempre rifiutato di incontrare stranieri. Era chiaro che si trattava di una questione religiosa. Allora mi rivolsi all’Egitto, organizzai una conferenza telefonica tra Matsuura e il presidente Mubarak, che si offrì di mandare a Kandahar il rettore dell’università del Cairo e il muftì, che è la personalità religiosa più importante in Egitto. Ma anche la loro missione fallì. Non c’è niente da fare, si sentirono dire, è un ordine di Dio, non lo possiamo cambiare».
In seguito avete ancora provato a coinvolgere il mondo islamico?
«In quello stesso 2001, con l’Alecso di Tunisi e l’Isesco di Rabat - due organismi governativi del mondo arabo che si occupano di educazione, cultura e scienza - proposi di contattare tutti i Paesi islamici, dal Maghreb al Kazakistan, chiedendo di indicare esperti di diritto musulmano, di tutte le scuole. Organizzammo una riunione in Qatar il 30 e 31 dicembre, con un solo punto all’ordine del giorno: islam e patrimonio culturale. Ne uscimmo con la “Dichiarazione di Doha”. Purtroppo è rimasta totalmente ignorata, perché pochi mesi prima in America c’era stato l’11 settembre e da allora non si è parlato d’altro. Ma adesso ci sono molti, anche rappresentanti di governo, che me lo chiedono: perché non riprendiamo quel testo per affrontare l’ideologia diffusa dall’Isis?».