lunedì 30 novembre 2015

La Stampa 30.11.15
L’Europa e una Turchia islamista
di Roberto Toscano


Viviamo in quella che può essere ormai definita come crisi generale del sistema internazionale, globalizzato nelle sfide e nelle minacce ma sempre più carente sul piano della governabilità, e anzi in preda a spinte centrifughe e a contrapposizioni settarie. In questo contesto l’Unione Europea, la più avanzata e più riuscita fra le esperienze di integrazione, dovrebbe rappresentare un modello della capacità di gestire i grandi problemi del nostro tempo superando le limitazioni di orizzonti ristretti all’ormai inadeguato ambito nazionale.
Ebbene, risulta invece che la Ue stenta oggi a mantenere le grandi promesse che avevano ispirato i Padri Fondatori e guidato fin qui il suo percorso di integrazione.
Molte sono le ragioni che contribuiscono a spiegare questa fase sia deludente che preoccupante, in primo luogo il fatto che si è praticamente esaurito lo spazio per quel «metodo funzionale» che si basava su graduali avanzamenti apparentemente economici e tecnico-funzionali ma in realtà mirati a una Unione sempre più politica con un orizzonte federale.
Oggi la natura politica delle scelte da operare è ormai evidente. Sono in gioco vitali questioni di sicurezza che, combinate con gli ancora irrisolti nodi della crisi economica, aumentano le spinte verso la «rinazionalizzazione», in sostanza il tentativo di salvarsi da soli riaffermando la propria sovranità e l’autonomia delle proprie scelte.
Questo è vero in primo luogo nei confronti della sfida dei grandi spostamenti di popolazioni in fuga dalla guerra ma anche dalla miseria. Una sfida rispetto alla quale l’Europa si è rivelata clamorosamente inadeguata soprattutto perché divisa ma anche perché sembra prevalere, in assenza di strategie di ampio respiro, una visione emergenziale del problema.
Non vi è dubbio che il problema sia grave e urgente anche in quanto comporta ormai evidenti ripercussioni sul piano della politica interna dei Paesi membri, dove le spinte della xenofobia e della demagogia della destra populista stanno crescendo in modo preoccupante. Ma cercare di affrontarlo in modo poco coordinato, addirittura scomposto, in chiave di emergenza minaccia di risultare fallimentare, soprattutto nella misura in cui nel farlo si tende a sacrificare non solo i principi, ma anche un realismo che non può essere soltanto quello del breve termine.
Lo vediamo ora nei rapporti con la Turchia, che l’Unione ha incontrato ieri a Bruxelles in un importante ma anche problematico vertice.
Che la Turchia sia per l’Europa un importante interlocutore appare del tutto evidente: per la sua posizione geografica, per la sua realtà e ancora di più il suo potenziale economico. Ed è anche vero che la collaborazione della Turchia risulta oggi importante per cercare di regolare e gestire il problema delle migrazioni. Giusto quindi incontrare la Turchia e dialogare con la Turchia alla ricerca di punti di convergenza. Va bene anche considerare la possibilità di fornire aiuti ad Ankara per aiutarla a strutturare una più adeguata accoglienza ai profughi siriani oltre che negoziare una liberalizzazione dei visti. Dovremmo però evitare di riprodurre lo schema dei rapporti che soprattutto noi italiani avevamo stabilito, per far fronte al problema delle migrazioni, con Mouammar Gheddafi: lui bloccava, anche con metodi indegni, il flusso di migranti verso le nostre coste e noi facevamo finta di non vedere le sue devianze internazionali e la sua repressione interna. I costi di questa politica dovrebbero ormai essere del tutto evidenti.
Nel caso della Turchia, poi, la posta in gioco è ancora più alta, dato che sul tavolo delle trattative con la Ue vi è anche la questione del rilancio del processo di adesione. Imprudentemente, il ministro per gli Affari Europei turco si è spinto a dare per scontato, prima del vertice, il passaggio al Capitolo 17 del negoziato (questioni economiche), prevedendo anche entro il 2016, l’apertura di altri «6 o 7 capitoli». La smentita europea non si è fatta attendere, ma si tratta di una smentita obbligata, e non necessariamente credibile.
L’Italia è sempre stata favorevole alla prospettiva di un’adesione turca all’Unione, e in questo senso dovremmo solo rallegrarci che anche i partners in precedenza riluttanti stiano cambiando idea, consapevoli dell’importanza della Turchia e del suo ruolo.
Sia i principi che il realismo non ci permettono tuttavia di eludere un cruciale interrogativo politico. Il processo di adesione era stato congelato sostanzialmente perché la Turchia era un Paese a maggioranza musulmana, anche se laico, e per questo motivo da parte della maggioranza dei Paesi membri della Unione si dubitava della sua vocazione europea. Ma come si fa oggi, senza perdere credibilità, essere più indulgenti nei confronti di una Turchia non solo islamica, ma islamista - una Turchia al cui interno si reprime il dissenso politico e si attacca la libertà di stampa, e la cui politica regionale è caratterizzata da una pesante ambiguità sulla questione siriana, con una connivenza di fatto nei confronti del jihadismo più radicale?
Dovremmo invece ascoltare il messaggio che il direttore e un altro giornalista di Cumhuriyet hanno inviato ai leader europei dalla prigione in cui sono stati rinchiusi per «spionaggio», cioè per avere rivelato il ruolo dei servizi turchi nel rifornire di armi il jihadismo radicale. Un messaggio che ci esorta a non dimenticare i nostri principi, a non transigere sui diritti umani e sulla libertà di espressione. Nel nostro interesse e in quello del popolo turco, che dovremmo accompagnare in un processo di consolidamento della democrazia piuttosto che abbandonare a una deriva autoritaria nel nome di una Realpolitik di corto respiro.