La Stampa 26.11.15
117 ragazze posson bastare per rinascere dopo Bergen-Belsen
Il regista ungherese Péter Gárdos racconta il romanzo di suo padre, ebreo scampato al Lager, che trovò moglie scrivendo a tutte le giovani della sua città
di Egle Santolini
Miklós aveva «una calligrafia bellissima: lettere aggraziate, occhielli eleganti, uno spazio appena percettibile fra una parola e l’altra. Dopo aver finito la lettera si procurò una busta che chiuse e appoggiò contro la brocca di vetro piena d’acqua sul comodino. Due ore più tardi un’infermiera di nome Katrin prese la busta e la portò alla posta insieme alle lettere degli altri pazienti». Di quegli occhielli eleganti l’ebreo ungherese venticinquenne scampato a Bergen-Belsen aveva riempito in effetti non una ma 117 lettere, destinatarie tutte le ragazze della sua città, Debrecen, accolte come lui dagli ospedali svedesi. Miklós si voleva fidanzare. Soprattutto da quando un medico gli aveva preannunciato pochi mesi di vita. Non sarebbe stato deluso. Lili lo aspettava, pronta a ricevere il suo messaggio nella bottiglia: con i suoi diciott’anni, «i capelli castani e gli occhi grigioblu, le labbra sottili, l’incarnato olivastro».
Storie così sono possibili soltanto in un mondo che vuole rinascere dopo la catastrofe. Ma spesso restano «irraccontabili, confinate all’aneddoto», come ci suggerisce Péter Gárdos, autore del libro Febbre all’alba che ora esce in Italia per Bompiani. I suoi personaggi stanno arrivando anche al cinema, in un film pure quello diretto da Gárdos, in programmazione in patria e forse presto anche in Italia. Con un altro protagonista del nuovo cinema ungherese, quello del Figlio di Saul che quest’anno ha vinto il Grand Prix della giuria a Cannes, Miklós divide un’esperienza indicibile: nel campo, i nazisti gli hanno fatto bruciare i cadaveri. Da quell’incubo ha deciso di estraniarsi: non ne parlerà più. Una nave lo ha sbarcato a Stoccolma, la guerra finita da tre settimane: in mare ha rischiato di morire, non per il Baltico in tempesta ma per un versamento nella pleura.
Vince la speranza
Un esordio da romanzo di appendice, ma presto sono i toni della speranza a prendere il sopravvento. La diagnosi infausta («la malattia sta divorando i suoi polmoni. Esiste il verbo “divorare” in ungherese?») non sconvolge il ragazzo. È sicuro che lo aspetti un finale diverso e bisogna dare una mano al futuro. Scrivere gli risulta facile, e non è soltanto questione di calligrafia. Compone poesie; e per aver lavorato una settimana in una redazione, prima delle leggi razziali, può definirsi giornalista. Appena l’ufficio del registro rifugiati gli manda l’elenco si mette al lavoro: «Cara Nora, cara Erzsébet, cara Lili, cara Zsuzsa… sarà sicuramente abituata al fatto che gli sconosciuti le rivolgano la parola quando la sentono parlare in ungherese solo perché sono ungheresi anche loro. Stiamo diventando maleducati. Io per esempio mi sono permesso di chiamarla per nome perché siamo conterranei».
Questo impasto irresistibile d’impudenza e di eleganza mitteleuropea fa breccia in chissà quante delle 117 (sarà poco romantico, ma a un certo punto ci viene rivelato come molte corrispondenze parallele siano continuate, anche dopo l’incontro fatale). Ed è subito Lili la prescelta, anche lei sfuggita a Bergen-Belsen, anche lei senza notizie della famiglia, protetta e curata con qualche rudezza da volontari svedesi. Seguono impacciati tentativi epistolari di passare dal «lei» al «tu», scambi di fotografie, con lui che si fa riprendere sfocato per non mettere in mostra le protesi dentarie eredità di guerra, coraggiosi progetti d’incontro. Quando alla fine si guardano in faccia, il coup de foudre è rimandato di mezz’ora, anche per colpa di quel sorriso pieno di metallo. Poi, con la sua «piacevole voce da baritono», Miklós si lascia andare: «Ti ho sempre immaginata così. Sempre. Nei sogni». A Lili «cade un peso dal cuore». Il ragazzo le ha portato in regalo un taglio di cappotto.
Un blocco psicologico
Sì, è andata a finire bene. Tanto che Péter Gárdos di Miklós e Lili è il figlio. Racconta: «Nel 1998, alla morte di mio padre, la mamma mi consegnò due fasci di lettere. Pensai subito di ricavarne un film, ma scrivere la sceneggiatura mi riuscì impossibile, una specie di blocco psicologico». Che si sciolse soltanto per interposta persona, quando andò a trovare una compagna di prigionia della madre. Per dargli l’avvio, dopo 17 anni, gli bastò «il racconto di quelle navi dei sopravvissuti da Lubecca a Malmö, le donne in bicicletta che aspettavano i rifugiati sui moli con i biscotti nel cestino».
Sua madre ha letto il libro? Visto il film? «Del libro abbiamo parlato a lungo, molti dilemmi la tormentavano, soprattutto l’opportunità di rivelare come, a un certo punto, avesse pensato di convertirsi al cristianesimo. Ha accettato che ne parlassi, ma ha voluto che le cambiassi il nome. Il film? Sono stato crudele con lei, l’ho invitata a una proiezione e le ho proibito di piangere. Lo ha fatto solo un pochino. Ma è così brava nel lavoro di rimozione che, più tardi, mi ha confessato di non ricordarne neppure un fotogramma».