martedì 24 novembre 2015

Il Sole 24.11.15
L’Is «forza» alleanze e confini democratici
di Adriana Castagnoli


Il sedicente Stato Islamico sta ampliando il differenziale di contemporaneità con l’Occidente. Schiavismo, spoliazioni, brutalizzazione di etnie minoritarie hanno abbattuto confini e città in Medio Oriente e Africa. Fino a che punto le democrazie europee sapranno reggerne l’urto e con quali effetti sull’ordine mondiale?
La narrazione dell’IS come gruppo terroristico è utile alla retorica dei leader politici, ma può essere fuorviante. Perché terrorismo e uccisioni sono soltanto tattica, cifre e mezzi di un modello di Stato globale, i cui fondamenti ideologici e storici affondano nel panislamismo e la cui costruzione è oggi possibile grazie all’uso della tecnologia più sofisticata. L’IS è una rete panislamica globale. Diversamente da Al Qaeda, ha un esercito dotato di capacità militari, un vasto territorio fra Iraq e Siria, controlla infrastrutture e linee di comunicazione, ha una struttura amministrativo-burocratica e si autofinanzia. Il suo obiettivo: creare un “puro” Stato sunnita, cancellare i confini stabiliti in Medio Oriente dalle potenze occidentali nel XX secolo, e porsi come l’autorità politica, religiosa e militare del mondo musulmano.
Per contrastarlo, affermano gli esperti, non sono sufficienti le misure antiterroristiche e antisommossa messe a punto in precedenza, ma serve una più complessa «strategia di contenimento offensivo» che combini azioni militari mirate, limitate e coordinate con sforzi diplomatici ed economici, allineando gli interessi dei molti paesi minacciati.
Questa strategia implica il coinvolgimento dei maggiori attori globali e regionali come Russia, Cina, Turchia, Arabia Saudita, Iran. Ma, com’è stato osservato, non è affatto scontato che «il nemico del tuo nemico sia tuo amico». La Cina, per esempio, criticando il doppio standard occidentale verso il terrorismo di matrice islamica, ha chiesto alla comunità internazionale di giustificare il giro di vite contro gli oppositori interni che appartengono a etnie minoritarie di religione musulmana come gli Uiguri. L’Iran è un partner altrettanto ambiguo nella lotta contro l’IS perché il caos in Iraq è stato anche alimentato dall’ostilità del governo sciita di Baghdad nei confronti dei sunniti, dopo la partenza degli americani nel 2011. Sinora Arabia Saudita e Stati del Golfo hanno mirato innanzitutto ad azzoppare l’Iran e rovesciare il presidente Bashar al-Assad, sostenendo i ribelli siriani. Mentre la Russia, che pure ha la responsabilità storica della slavina afghana, è ricorsa all’hard-power della sua aviazione non solo per sostenere l’alleato siriano, ma per rientrare da protagonista nello scenario geopolitico mediorientale. A sua volta la Turchia dell’autocrate Erdogan preme per entrare nell’UE, ma combatte i curdi che lottano contro l’IS.
La radicalizzazione del conflitto rafforza, peraltro, l’emergere di un’identità panislamica che complica la presenza occidentale in Medio Oriente. È difficile per europei e americani proteggere le popolazioni locali solo con interventi dal cielo. Così, fra settembre e ottobre, si calcola che circa 70mila civili si siano rifugiati nei territori controllati dall’IS per scappare ai bombardamenti russo-siriani e trovare cibo a buon prezzo.
Il punto è che una volta indebolitesi le élites tecnocratiche, del petrolio e militari un tempo pro-occidentali, gli interessi nazionalistici e regionali hanno ripreso il sopravvento. E ogni eccessiva reazione delle potenze occidentali potrebbe approfondire il dissenso con i paesi a maggioranza musulmana e minare le libertà civili in patria. Né si possono deplorare povertà e diseguaglianze come fattori chiave poiché essi sono presenti in molte regioni del mondo, ma solo combinati con la prolungata crisi di legittimità e l’autocrazia dei regimi di Medio Oriente e Nord Africa hanno generato l’humus per l’attuale jihadismo.
Intanto i confini democratici d’Europa sono messi a dura prova anche dalla crisi dei rifugiati che ha rafforzato i sentimenti xenofobi. Alle sue porte le promesse delle primavere arabe sono svanite lasciando una scia di Stati falliti o preda di convulsioni tribali. La fine della Pax americana in Medio Oriente richiederebbe un’assunzione di responsabilità da parte europea e un rafforzamento della comunità transatlantica, ma all’orizzonte sembrano profilarsi invece più probabili misure di arroccamento entro i propri confini nazionali.