Il Sole 15.11.15
Militare e di civiltà
La grande coalizione per battere il Califfato
di Alberto Negri
Due partigiani, un ucraino e un polacco, nell’inverno del 1943 escono dal loro rifugio e chiedono con apprensione a tutti quelli che incontrano: «Come va la battaglia di Stalingrado dei russi contro i nazisti?». Inizia così “Educazione europea”, un romanzo recentemente ripubblicato di Romain Gary, grande scrittore ed eroe della resistenza francese.
Come va la battaglia contro il Califfato? Se avessimo ancora un’educazione europea questa è la domanda che dovremmo farci tutti i giorni e che forse si faranno adesso, con angoscia, i francesi. Rispondere al terrore con la solidarietà e le bandiere a mezz’asta va bene ma se avessimo ancora un’educazione europea dovremmo replicare colpo su colpo al terrorismo e alla sua minaccia, entrata nella nostra vita quotidiana con una strage di innocenti.
Serve una coalizione globale, un’alleanza di civiltà, da quella occidentale a quella musulmana, per combattere l’Isis. Siamo chiamati a costituire una coalizione militare e di intelligence questa volta davvero efficace non come quella che dal 2014 a oggi ha colto risultati incerti e invece di rinsaldarsi si è quasi sfaldata lasciando spazio all’intervento in Siria della Russia di Putin, senza il quale peraltro oggi al-Baghdadi farebbe colazione sulle rovine di Damasco. Gli aerei sauditi e degli Emirati non volano più e i loro raid adesso li compiono in Yemen contro i ribelli sciiti Houti; la Turchia, storico membro della Nato, fa ancora assai poco perché gli stessi occidentali le hanno dato via libera per quattro anni, alzando la sbarra della frontiera al passaggio di migliaia di jihadisti, molti europei e francesi, che dovevano sbalzare dal potere Assad e che si sono poi arruolati nell’Isis.
La guerra la devono fare anche i nostri riluttanti alleati mediorientali.
Musulmani che si battono sul campo contro l’Isis ce ne sono: i curdi, i più eroici, osteggiati però dalla Turchia; gli iraniani, alleati di Assad come del resto gli Hezbollah libanesi; gli iracheni, che hanno avviato un’offensiva per spezzare le linee di rifornimento dell’Isis. Questi nostri alleati oggettivi anti-Califfato, che l’Occidente ha boicottato per anni mettendoli sotto sanzioni e in lista nera, hanno due difetti, sono sciiti e alleati del regime di Damasco.
Siamo al punto nodale: per una guerra efficace contro l’Isis bisogna congelare anche la storica ostilità tra sciiti e sunniti. Qualche segnale positivo c’è e proviene dal vertice di Vienna sulla Siria, che per certi versi ha anticipato quello di oggi al G-20 di Antalya.
A Vienna, secondo quanto riferito dal segretario di Stato John Kerry, è emerso che Bashar Assad è pronto ad avviare un negoziato per una transizione. Non facciamoci troppe illusioni ma è importante che queste cose Kerry le abbia dette con a fianco il ministro degli Esteri russo Serghej Lavrov. Ed è ancora più significativo che a Vienna, oltre alla Turchia, partecipassero l’Iran e l’Arabia Saudita, capofila storici di sciiti e sunniti, i veri duellanti del Medio Oriente. Entrambi hanno molto da perdere se la guerra siriana si prolunga mentre il Califfato semina sangue e terrore anche in Europa.
Gli iraniani non se ne possono andare via dalla Siria e dall’Iraq, guerre che drenano risorse umane, finanziarie, e frenano il rilancio economico promesso dal presidente Hassan Rohani dopo l’accordo sul nucleare per la fine delle sanzioni. L’Arabia Saudita comprende che l’Isis minaccia la stessa legittimità delle monarchie del Golfo, è già impegnata in un conflitto ai suoi confini in Yemen e forse si rende conto che avere usato i jihadisti in chiave anti-sciita non è stata un’idea brillante. Ora rischia una sorta di Vietnam in casa. La sua potenza militare, certo non pari a quella economica, può uscire umiliata dalla guerra yemenita con conseguenze devastanti.
È chiaro che sia gli iraniani che i sauditi devono ridimensionare le loro ambizioni di dominare il Levante. Gli uni devono rinunciare ad Assad, gli altri a uno stato sunnita a cavallo di Siria e Iraq. Ma anche questo, forse soprattutto questo, è il prezzo della lotta al Califfato. Saranno disposti a pagarlo? Forse verranno costretti a farlo. Oggi senza Putin Assad crolla e senza la protezione americana rischia di sgretolarsi anche l’Arabia Saudita, cliente storico che Washington non ha mai voluto mollare.
L’obiettivo strategico degli Stati Uniti è proprio questo: limitare al massimo l’impegno militare e fare in modo che nessuno vinca la battaglia tra le potenze sciite e quelle sunnite, replicando esattamente la stessa politica che Washington adottò negli anni ’80 nella lunga guerra di otto anni tra l’Iraq di Saddam e l’Iran di Khomeini. I russi potrebbero essere d’accordo e allora, con qualche contropartita per Mosca ancora sotto sanzioni per l’Ucraina, ha qualche chance di nascere quella coalizione globale anti-Califfato cui accennava ieri Lavrov a Vienna. Putin e Obama possono cominciare a parlarne già oggi al G-20 di Antalya.
In questa partita militare e diplomatica gli Stati europei e la Francia, che alleva jihadisti in casa, dove sono? Lavrov ha dichiarato che gli orrori di Parigi devono convincere l’ultimo scettico che non solo il terrorismo non può essere giustificato in nessun modo ma che non può essere giustificata neppure la nostra passività nel combattere questo male. Ma ci vuole una forte educazione europea alla Gary per andare in battaglia e affermare la vittoria dei propri princìpi di civiltà. Chi ha vinto a Stalingrado?