domenica 1 novembre 2015

il manifesto 1.11.15
Gramsci vittima della sua strategia
Giorgio Fabre, «Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato», da Sellerio. Gramsci vittima della sua strategia
di Gianpasquale Santomassimo


A partire dai primi studi di Spriano, la vicenda dei tentativi falliti di liberare Gramsci ha conosciuto una fortuna storiografica che ne ha fatto un tema sempre più ricorrente, e anche ineludibile nella discussione sul comunismo italiano, per le implicazioni che conteneva attorno al contrasto tra il «capo» dei comunisti e i suoi compagni che dall’estero tenevano in vita le stentate fortune di quel partito. Nel tempo si è trasformato, anche, in un «genere letterario» aperto a scorribande complottistiche, a processi sommari basati su brandelli di documenti decontestualizzati.
Oggi con il libro di Giorgio Fabre (Lo scambio Come Gramsci non fu liberato, Sellerio «La diagonale», pp. 536, euro 24,00) si esce decisamente dal complottismo o dalla reticenza (che è stata a esso speculare), e la vicenda viene riportata alla sua dimensione storica effettiva, dentro la quale però si annida anche un grumo di pensieri, di cose non dette e solo accennate o adombrate, e che tali inevitabilmente resteranno.
È un quadro molto ampio e frastagliato, di cui è impossibile rendere conto in dettaglio. Forse non tutto è egualmente significativo, e non è detto che dietro a ogni singolo gesto, supposizione od omissione debba nascondersi parte di un disegno o di molti disegni che si intersecano.
La trattazione segue le tre fasi che si succedono: una prima collegata a una sperata mediazione vaticana tra potere fascista e governo sovietico (scambio con vescovi) che si rivela inconsistente. Poi quello che Gramsci definisce il «tentativo grande», fase più lunga, che interviene mentre i rapporti fra Italia fascista e Urss conoscono un momento di incontro e collaborazione (Patto di amicizia del settembre 1933), che non dà vita neppure stavolta allo scambio auspicato ma che si conclude comunque con la concessione della «libertà condizionale» presso le cliniche di Formia e poi di Roma. Libertà che diviene però ben presto molto condizionata e sorvegliata e non si traduce nella concessione dell’espatrio in Russia per ricongiungersi alla famiglia, che è l’ultimo tentativo di un Gramsci ormai piegato e destinato a spegnersi il 27 aprile del 1937.
Posto che la mancata liberazione di Gramsci dipese in ultima istanza dalla volontà di Mussolini di mantenere uno stretto controllo sulla sua persona, la discussione che si apre riguarda il ruolo dei sovietici e, soprattutto, dei comunisti italiani.
Qui si possono cogliere molte novità. Intanto, contrariamente a quanto molti avevano adombrato, si può dire che non viene mai meno l’impegno dei sovietici per ottenere la liberazione di un loro uomo, malgrado le critiche del 1926, rivolte non tanto alla maggioranza staliniana quanto alle modalità di esercizio del suo predominio. Più complicato e dolente è il quadro dei rapporti con i compagni italiani. Lasciando da parte dissensi e dissapori sulle scelte dell’Internazionale, che pure agiscono sullo sfondo, la questione si pone sui pochi e spesso male improvvisati interventi nella questione. Alla fine, si può anche convenire con l’autore che «gli italiani non facevano una gran bella figura» nella vicenda, sia perché «era difficile trovare qualche episodio che li vedesse positivamente coinvolti nei tentativi di liberazione del loro leader», sia perché alcuni interventi furono controproducenti e tali vennero severamente giudicati da Gramsci. Imbarazzo e reticenza che accompagneranno tale memoria e che impediranno fino all’ultimo una ricostruzione veritiera della vicenda. Ma qui è giusto ricordare che i comunisti italiani si mossero sotto un condizionamento difficilissimo tanto da ignorare quanto da accettare pienamente.
Infatti la novità più rilevante del libro è quella di porre al centro di tutta la vicenda Gramsci stesso, non solo in quanto oggetto di iniziative altrui ma soprattutto in quanto regista e stratega delle tortuose strade che avrebbero dovuto condurre alla sua liberazione. Una strategia largamente fallimentare, bisogna pur dire. Fin dall’inizio, con una fiducia immotivata nella disponibilità vaticana a trattare il suo scambio. Ma soprattutto con una strategia processuale debolissima e che si sarebbe rivelata all’origine di tutti i contrasti e di tutte le amarezze vissute nel rapporto con i compagni italiani.
Volontà di Gramsci era che gli italiani si tenessero fuori da ogni aspetto di quella trattativa, interamente demandata all’impulso sovietico. Una pesante intromissione era stata considerata la «famigerata» lettera di Grieco del 1928, sulla quale molto si è scritto, e che procurò in Gramsci un’irritazione destinata a riaffiorare nel tempo, mentre non suscitò reazioni simili in Terracini e Scoccimarro, che erano gli altri destinatari della missiva. Al riguardo, bisognerebbe cominciare pure a chiedersi se davvero una polizia efficientissima come quella fascista avesse bisogno della lettera di Grieco per «scoprire» che Gramsci era uno dei massimi dirigenti del partito comunista. Ma tutta la strategia prescelta puntava ad attenuare e porre in dubbio l’esercizio di quel ruolo dirigente: il che comportava anche la raccomandazione di evitare campagne propagandistiche volte a rivendicare la sua liberazione.
A questo era particolarmente difficile attenersi, per un partito clandestino in patria e che aveva un compito naturale di mobilitazione di coscienze sul piano internazionale. Tanto più diverrà difficile col passare del tempo, quando, ad esempio, col patto di unità d’azione siglato con i socialisti nel 1934 il nome di Sandro Pertini verrà stabilmente ad associarsi a quello di Terracini tra le vittime del carcere fascista di cui si chiedeva la liberazione.
Al riguardo, è singolare che in questa letteratura non si sia mai tenuto conto della lettera di Togliatti a Turati del 30 ottobre 1930, nella quale venivano segnalate le gravi condizioni di salute di Pertini nel carcere di Santo Stefano, si invitava a una mobilitazione unitaria e si suggeriva di inoltrare la richiesta di trasferimento a un carcere più idoneo: come poi avvenne, nel carcere-sanatorio di Turi nel quale era recluso anche Gramsci (Sandro Pertini combattente per la libertà, a cura di S. Caretti e M. Degl’Innocenti, Lacaita 2006, pp. 70–71). La vicenda, tanto più significativa perché avvenuta in piena epoca di «socialfascismo», fa comprendere come da parte comunista si tenessero unite le dimensioni dell’agitazione politica e dell’esperire le vie «legali» consentite dai regolamenti.
Se si eccettuano cadute approssimative e dilettantesche (il modo in cui Azione popolare del 29 dicembre 1934, diretta da Teresa Noce, diede conto della scarcerazione di Gramsci, irrigidendo la posizione di Mussolini e dando luogo a quello che ancora nel 1969 Sraffa definiva un «disastro» rispetto alle speranze di Gramsci), la posizione del gruppo dirigente comunista fu nel complesso di accettazione della richiesta di Gramsci, se pure non condivisa e ritenuta sicuramente onerosa sul piano politico. Anche il ruolo di Togliatti emerge come particolarmente rispettoso della personalità dell’amico e vòlto a salvaguardarne la memoria, attribuendogli perfino colorite espressioni contro Trotskij nel momento in cui Grieco, Di Vittorio e altri sollecitavano un processo postumo contro Gramsci, che riuscì a bloccare. A Togliatti si deve in larga misura anche l’invenzione della frase eroica pronunciata di fronte al Tribunale speciale, dibattimento che invece si svolse in forma timida e stentata.
Quando all’inizio del 1934 Dimitrov venne espulso dalla Germania, dopo avere trionfato contro il Tribunale nazista, Gramsci dovette probabilmente porsi delle questioni e venire assalito da dubbi. Perché la strategia seguita dall’«eroe di Lipsia» era stata esattamente opposta a quella che Gramsci aveva prescelto: politicizzare al massimo il dibattimento, dare a esso la massima pubblicità, convogliare l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica internazionale.
Gli ultimi anni di Gramsci furono amarissimi, segnati da delusione e scoramento, da sensazioni di abbandono e tradimento. Un esito di cui fu certamente vittima, ma che in qualche misura contribuì anche a determinare.

Marco Revelli
il manifesto 1.11.15
Modello Expo, il salto di qualità del renzismo
Mostro Marino. Dopo Prodi e Letta, il premier miete un'altra vittima senza apparire. Per «il nuovo Pd» rovesciare governi fuori dalle aule e senza dibattito pubblico è ormai una prassi. Un partito post-democratico
di Marco Revelli


Venerdì, a Roma, il progetto renziano di manomissione della nostra democrazia ha compiuto un nuovo salto di qualità. O, forse meglio, ha rivelato – nell’ordalia rappresentata sul grande palcoscenico di Roma capitale – la propria natura compiutamente post-democratica e anzi tout court anti-democratica.
Di Ignazio Marino sindaco si può pensare tutto il male possibile: molte sue politiche sono state discutibili e anti-sociali (in primis la questione della casa), alcuni suoi comportamenti incomprensibili, la sua ingenuità (o superficialità) imperdonabile, la sua inadeguatezza evidente. E l’accettazione nella sua squadra di uno come Stefano Esposito insopportabile.
Ma la ferocia con cui il Pd, su mandato del suo Capo, ha posto fine alla legislatura in Campidoglio supera e offusca tutti gli altri aspetti. Sostituendo all’Aula il Notaio. Al dibattito pubblico la manovra di corridoio e il reclutamento subdolo dei sicari (arte in cui Matteo Renzi eccelle, avendola già sperimentata prima con Romano Prodi e poi con Enrico Letta).
E colpendo così non tanto, e comunque non solo, «quel» Sindaco (che pure a molti voleri del Pd era stato fin troppo fedele), ma il principio cardine della Democrazia in quanto tale. O di quel poco che ne resta, e che richiederebbe comunque che la nascita e la caduta degli esecutivi – nazionali e locali – avvenisse nell’ambito degli istituti rappresentativi costituzionalmente stabiliti in cui si esercita la sovranità popolare. Con un voto palese, di cui ognuno si assume in modo trasparente e motivato, la responsabilità.
Così non è stato.
In sistematica e ostentata continuità con la pratica seguita dal governo Renzi in questi mesi di legislazione coatta (a colpi di fiducia e di manipolazione delle Commissioni) e con la sua riforma costituzionale di stampo burocratico-populistico, la sede della Rappresentanza è stata marginalizzata e umiliata. Svuotata di ruolo e poteri. Sostituita dalla retta che dal vertice dell’Esecutivo — fatto coincidere con la leadership del partito a vocazione totalizzante e a consistenza dissolvente – precipita, senza intoppi, fino ai piani bassi della cucina quotidiana, delegata alle burocrazie guardiane, reclutate al di fuori di ogni validazione elettorale, in base a criteri di fedeltà (o, forse meglio, di asservimento).
Nella stagione impegnativa — per compiti da svolgere e affari da sfruttare – del Giubileo la Capitale sarà amministrata e «governata» da un dream team (o nightmare team?) non di rappresentanti del popolo ma di fiduciari del Capo, chiamati con logica emergenziale a «gestire l’impresa» in nome non tanto del bene pubblico ma dell’efficienza.
Della composizione del team già se ne parla: oltre all’inossidabile Sabella, il prefetto renziano Francesco Paolo Tronca, fresco della Milano di Expo e Marco Rettighieri, ex supermanager di Italferr, uomo Tav, quello che ha sostituito come direttore generale costruzioni dell’Expo Angelo Paris dopo il suo arresto per corruzione e turbativa d’asta…
Un bel pezzo della «Milano da mangiare» – del «paradigma Expo» – trapiantata a Roma, a far da matrice del nuovo corso della Capitale, ma anche — s’intende – del Paese.
Ed è questo il secondo anello della cerchiatura della botte renziana. O, se si preferisce, il passaggio con cui si chiude il cerchio del mutamento di paradigma della politica italiana: questo utilizzo del «modello Expo», costruito come esempio «di successo», generato e poi certificato dal mercato, e (per questo) proposto/imposto come forma vincente di governance da imitare e generalizzare.
L’operazione era stata favorita, non so quanto consapevolmente, dall’infelice esternazione di Raffaele Cantone, in cui si contrapponeva Milano come «capitale morale» a una Roma «senza anticorpi»: infelice perché sembra fortemente «irrituale», per usare un eufemismo, e comunque molto inopportuno, che colui che dovrebbe sorvegliare e garantire il rispetto della legalità prima, durante e dopo un’opera ad alto rischio come l’Expo, beatifichi la città che l’ha organizzato e ospitato e, reciprocamente, che ne venga beatificato, proprio alla vigilia di un periodo in cui la magistratura dovrebbe essere lasciata assolutamente libera di procedere a tutte le proprie verifiche e in cui l’Agenzia che egli dirige dovrebbe operare come mai da tertium super partes (che succederà, per esempio, se le inchieste in corso su corruzione, peculato, truffa, ecc. dovessero concludersi con verdetti di colpevolezza: la dovremmo chiamare «Mafia Capitale Morale»?).
Ma tant’è: il cliché coniato da Cantone è entrato alla velocità della luce a far parte del dispositivo narrativo renziano sulle meraviglie del rinascimento italiano. E su come questo possa tanto più agevolmente e soprattutto velocemente dispiegarsi quanto più si eliminano gli ostacoli della vecchia, accidiosa e fastidiosa democrazia rappresentativa (quella, appunto, che produce i Marino), e si adottano, in alternativa, le linee degli executive di turno, magari arruolando in squadra le stesse «autorità indipendenti» che dovrebbero esercitare i controlli.
Personalmente mi ha turbato la quasi contemporanea dichiarazione di Cantone sulla propria intenzione di abbandonare l’Associazione nazionale magistrati, rea di aver mosso (caute) critiche al governo… E anche questo è uno scatto – se volete piccolo, ma inquietante – nella chiusura della gabbia che ci sta stringendo.

il manifesto 1.11.15
Post-democrazia, sette tesi sul «caso Marino»
di Angelo d'Orsi


Gli avvenimenti romani delle ultime settimane hanno posto in luce, mi pare, alcuni elementi di fondo sulla transizione italiana verso la post-democrazia, ossia il superamento della sostanza della democrazia, conservandone le apparenze, secondo un processo in corso in tutti gli Stati liberali, ma con delle peculiarità proprie, che hanno a che fare con la storia italiana e, forse, anche l’antropologia del nostro popolo.
Senza più entrare nel merito della vicenda della cacciata di Ignazio Marino dal Campidoglio, su cui peraltro mi sono già espresso più volte, a netto sostegno del sindaco, pur rilevandone le debolezze e gli errori (ha sintetizzato bene ieri l’altro sul manifesto Norma Rangeri: «non è il migliore dei sindaci, il mestiere politico non è il suo, si è mosso fidandosi … del suo cerchio magico»), e contro l’azione del Pd, irresponsabilmente sostenuta anche dal M5S, all’unisono con le frange della destra estrema, propongo alcune riflessioni che hanno bisogno naturalmente di essere approfondite, oltre che discusse.
I Tesi
Le assemblee elettive, ossia quella che si chiama «la rappresentanza», hanno un valore ormai nullo. Deputati, senatori, consiglieri regionali e comunali, sono pedine ininfluenti, che si muovono all’unisono con gli orientamenti dei capi e sottocapi.
Obbediscono in modo automatico, ma cosciente, nella speranza di entrare nell’orbita del potere «vero», o quanto meno avvicinarsi ad essa, e diventare sia pure a livelli inferiori o addirittura infimi, «patrones» di piccole schiere di “clientes». Il potere legislativo è completamente disfatto.
II Tesi
I partititi politici, tutti, sono diventati «partiti del capo». I militanti, e persino i dirigenti, dal livello più basso a quelli via via superiori, non contano nulla. Tutto decide il capo, circondato da una schiera di fedeli, i “guardiani”. Le forme di reclutamento e di selezione, che dalla base giungono al vertice, sulla base di percorsi lunghi, tragitti di «scuola politica», hanno perduto ogni sostanza; contano consulenti, operatori del marketing, sondaggisti, costruttori di immagine. Il distacco tra il capo, e il ristrettissimo vertice intorno a lui, e lo stesso partito, inteso come struttura di aderenti, intorno, di simpatizzanti, o di semplici elettori, appare totale.
Se crolla il capo, crolla il partito, nel Pd come è accaduto in Forza Italia, e come accadrà nel Movimento 5 Stelle, se i militanti non scelgono una via diversa.
III Tesi
Il Vaticano, e le gerarchie della Chiesa cattolica, costituiscono non soltanto uno Stato nello Stato, ma uno Stato potenzialmente ostile, che esercita un’azione direttamente politica, volta a condizionare, fino al sovvertimento, gli stessi ordinamenti liberali; diventa «potenza amica» solo quando e nella misura in cui il potere legittimo si piega ai suoi dettami.
IV Tesi
I grandi media non esercitano semplicemente un’influenza, come sostengono certi massmediologi; essi rappresentano pienamente un potere, capace di creare o distruggere leader, culturali o politici o sportivi. Abbiamo avuto esempi piccoli e grandi, di distruzione o costruzione, da Roberto Saviano a Renata Polverini, fino a Ignazio Marino, osannato chirurgo, esemplare perfetto della «società civile», politico onesto, sindaco in grado di svelare e sgominare l’intreccio affaristico-mafioso della capitale, diventato improvvisamente il contrario di tutto ciò, a giustificazione della sua orchestrata defenestrazione.
V Tesi
La lotta politica procede oggi su due livelli distinti ed opposti: il livello palese, che finge di rispettare le regole del gioco, privo di effettualità; e un secondo livello, nascosto, che conta al cento per cento, nel quale si assumono decisioni, si scelgono i candidati ad ogni carica pubblica, e si procede nella selezione (sulla base di criteri di mera fedeltà a chi comanda) dei «sommersi» e dei «salvati». Il livello sommerso è in realtà un potere soltanto indirettamente gestito dal ceto politico: è emanazione di poteri forti o fortissimi italiani o stranieri, di lobby, palesi o occulte, alcune delle quali corrispondenti a centrali criminali.
VI Tesi
Il Partito Democratico, rappresenta oggi la forza egemone della destra italiana: una forza irrecuperabile ad ogni istanza di sinistra. Il suo capo Matteo Renzi costituisce il maggior pericolo odierno per la democrazia, o per quel che ne rimane. Ogni suo atto, sia nelle forme, sia nei contenuti, lo dimostra, giorno dopo giorno. Il suo cinismo (quello che lo portò a ordinare a 101 peones di non votare per Romano Prodi alle elezioni presidenziali; lo stesso cinismo che lo ha portato a ordinare a 25 consiglieri capitolini ad affossare Marino e la sua Giunta) è lo strumento primo dell’esercizio del potere.
Renzi si è rivelato un perfetto seguace dei più agghiaccianti «consigli al Principe» di Niccolò Machiavelli.
VII Tesi
La reazione spontanea, diffusa, robusta alla defenestrazione di Ignazio Marino dal Campidoglio testimonia dell’esistenza di un’altra Italia: i romani che hanno sostenuto «Ignazio», con estrosi slogan, nelle scorse giornate, al di là dell’affetto o della stima per il loro sindaco, hanno voluto far comprendere che la cancellazione della democrazia trova ancora ostacoli e che esistono italiani e italiane che «non la bevono», che la «questione morale» conserva una presenza nell’immaginario dell’Italia profonda (che dunque non è solo razzismo e ignoranza, egoismo e parassitismo, tutti elementi forti nel «pacchetto Italia»); esistono italiani e italiane pronti a resistere.
Su loro occorre fare affidamento, per costruire prima una barricata in difesa della democrazia, quindi per passare al contrattacco, trasformando la spontaneità in organizzazione, la folla in massa cosciente, il dissenso in proposta politica alternativa. Che il «caso Marino» costituisca l’occasione buona per far rinascere la volontà generale e sollecitarla all’azione?

Il Fatto 1.11.15
L’Unità, il fango e l’Ufficio Affari del Pd

I colleghi dell’Unità sono molto agitati. Non per le vendite del giornale che fu di Antonio Gramsci, e nemmeno per l’autoriduzione a Pravda personale di Renzi, ma per lo scoop del Fatto quotidiano sul loro editore, il costruttore Pessina, che in un ufficio nella sede del Pd al Nazareno riceve colleghi imprenditori per parlare di appalti e affari. “L’articolo a firma Marco Lillo scrive il comitato di redazione lancia un’accusa di inaudita gravità... Non è la prima volta che il giornale diretto da Marco Travaglio getta fango sul nostro giornale... La Pessina Costruzioni ha già smentito: ora ci aspettiamo risposte ancora più nette, a livello dell’accusa lanciata. Siamo intenzionati ad agire in ogni sede opportuna per difendere l’onorabilità” eccetera “e chiediamo all’azienda, agli azionisti e al partito di riferimento di fare altrettanto”. Ecco, cari colleghi: mentre agite in ogni sede, provate a fare un salto in una sede in particolare: quella del vostro “partito di riferimento”, largo del Nazareno, Roma. Scoprirete che ciò che chiamate “accusa”, “fango”, “discredito” è una notizia vera e ampiamente verificata da Marco Lillo, fuoriclasse del giornalismo investigativo, con numerose testimonianze. Se poi voleste esagerare, fate una bella inchiesta sul vostro editore e anche su alcuni collaboratori del vostro giornale. Vi si aprirà un mondo.

La Stampa 1.11.15
Il nuovo commissario di Roma “Adatteremo il modello Milano”
Tronca: “Prendere il meglio da quella esperienza. La politica? Non me ne devo occupare” Per la squadra pensa a Rettighieri ai trasporti, Malagò alle infrastrutture e Fuortes alla Cultura
di Francesco Maesano


Perfetto understatement prefettizio, nessuna riflessione politica, neanche una sottolineatura. Conoscere, valutare, decidere. Il resto? «Non sono problemi di cui si deve occupare un prefetto». Francesco Paolo Tronca si è presentato così a una Roma politicamente in fiamme. Natali siciliani e stile meneghino: «Bisogna avere la capacità di prendere il meglio di questa esperienza e adattarla a un’altra realtà». Una nomina a sorpresa. Per Palazzo Chigi il nome buono era quello di Bruno Frattasi. Poi, durante un incontro dell’ultimo minuto di ieri tra Renzi e Alfano, il ministro dell’Interno avrebbe chiesto al premier di poterlo trattenere al Viminale, aprendo la porta al prefetto di Milano. Ma più che attraverso la sua nomina sarà nella composizione della squadra di sub-commissari che il Governo vuole dare il segno di una «mano» tesa alla città. L’idea-guida è la riedizione in chiave tecnica della giunta Rutelli, dalla quale il premier trae costante ispirazione politica. Se la partita del Giubileo è tutta appaltata a Gabrielli, a Roma Renzi vuole un’amministrazione «dei migliori», un dream team appunto, che pur non avendo coloritura politica trasmetta ai romani il senso dell’impegno diretto del premier-segretario. «Ho in mente dei nomi per i subcommissari ma occorrono naturalmente delle verifiche spiegava ieri Tronca vedremo in che modo si svilupperanno, poi prenderò le mie decisioni». Qualcuna sembra aver già preso forma. Sei profili, non uno di più. La casella di maggior peso, i trasporti, la dovrebbe occupare Marco Rettighieri. Romano, una vita nelle ferrovie, ultimo incarico a Expo come general manager constructions. Anche qui, tanta Milano e soprattutto tanta esposizione universale che il Governo considera la dimostrazione plastica del cambio di impostazione impresso al Paese. Altri nomi in ballo sono quelli degli ex assessori Sabella e Rossi Doria, anche se il primo ha chiarito più volte di voler tornare ad essere un «semplice magistrato» mentre il secondo portebbe finire all’Istruzione. Molto più accreditata l’ipotesi di nominare Carlo Fuortes alla Cultura, il sovrintendente del Teatro dell’Opera di Roma che ieri ha lasciato l’incarico di amministratore delegato dell’Auditorium. E poi c’è l’ipotesi più suggestiva, quella di nominare Giovanni Malagò alle Infrastrutture. Resta da capire se e come potrebbe coniugare l’incarico con il ruolo di presidente del Coni che ricopre dal 1993. Sarebbe questa una delle soluzioni preferite dal premier che ha tracciato in lunedì prossimo la scadenza per dare ai romani un nuovo governo.

il manifesto 1.11.15
Tronca, l’uomo-evento sbarca a Roma
Dall'Expo al Giubileo. Il premier/segretario e il commissario Orfini rivendicano il «golpe romano» e scaricano ogni responsabilità solo sull’ex sindaco Marino. Ma nel Pd c’è anche chi si ribella all’epilogo antidemocratico. Il prefetto renziano Tronca si insedia oggi in Campidoglio
di Eleonora Martini


ROMA Morto un Expo se ne fa un altro. Da Milano a Roma il passo sarà pure enorme quanto a moralità (nella classifica dell’Anticorruzione), ma è breve per il prefetto Francesco Paolo Tronca che dopo aver partecipato ieri alla chiusura in pompa magna della manifestazione commerciale internazionale sbarcherà oggi nella Capitale per notificare la sua nomina a commissario prefettizio. E così, dodici ore dopo il «golpe romano», mentre si apre l’ultima celebrazione nella cittadella di Rho, Roma si sveglia con lo scempio politico e istituzionale già verso il dimenticatoio e con un benvenuto corale al prefetto di Milano che apre la stagione dei commissari.
Dalla Cgil Cisl e Uil all’Osservatore romano, dal Nazareno a Palazzo Chigi, da destra a sinistra non ci sono altre parole che quelle di augurio al “salvatore” del Giubileo e di condivisioni del pensiero renziano: «Pagina chiusa, ora basta polemiche, tutti al lavoro». A porre il problema della democrazia violata, solo Sel, l’ex consigliere radicale Riccardo Magi e quel che resta della minoranza dem che chiede l’immediata convocazione della direzione del Pd. Ma il premier/segretario lo ha ribadito anche nei Tg di ieri sera: «Nessun mandante, nessuna congiura», ha negato Renzi rispondendo alle accuse di Ignazio Marino. Piuttosto, «sono convinto che con il lavoro di Tronca, di Gabrielli e dei collaboratori, ridaremo ai romani fiducia e entusiasmo».
E così il partito dell’«Expo modello da esportare» si infoltisce di ora in ora perché il ruolo di supplenza alla politica passa ora, dopo le procure, ai tecnici. L’esposizione milanese è «l’orgoglio di chi ha vinto una sfida che sembrava impossibile — esulta il premier — una sfida vinta non dal governo ma dall’Italia, vinta dai passeggini in coda per visitare i padiglioni, ha vinto l’Italia del “perché No”». «Abbiamo scelto il prefetto Tronca perché il Giubileo deve funzionare come ha funzionato Expo — afferma il ministro Angelino Alfano — un evento mafia-free, con tanto coordinamento delle forze dell’ordine, tanta sicurezza, tanta capacità di prevenire i problemi e di affrontare insieme i momenti di crisi quando si verificano». E come tecnico si presenta Tronca. In grande sintonia con il prefetto di Roma Franco Gabrielli che è a capo della cabina di regia per il Giubileo: «Quando lui era capo della Protezione civile — ricorda — io ero capo del dipartimento dei vigili del fuoco: più amicizia di così».
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Il prefetto di Milano arriva a Roma con le migliori intenzioni: «Ho sentito il presidente Renzi gli ho manifestato tutto il mio orgoglio per aver avuto fiducia in me». Ma avverte: troppo diverse le problematiche, perciò ad essere esportabile è solo «il lavoro di squadra». Calato nel suo ruolo istituzionale («Non so se vedrò il sindaco Marino, nelle mie esperienze passate di commissario non ho mai incontrato il sindaco uscente»), e confidante nel suo «vero senso di responsabilità» e «dello Stato» che lo metterà al riparo, sostiene, dalle pressioni politiche, Tronca nega che la formazione del dream team e della commissione prefettizia sia già pronta nel cassetto. In realtà, nulla è affidato all’improvvisazione e infatti Marco Rettighieri, direttore di Italferr, società che ha diretto i lavori per Expo, già rivendica l’applicazione, a Milano, del «metodo Fs, quello apprezzato anche all’estero: gioco di squadra e tanta sostanza». E mentre c’è chi, nel Pd, gli chiede già di annullare alcune delibere di Marino (tavolino selvaggio, ad esempio), il forzista Gasparri avverte: «Tronca assicuri la neutralità politica ed escluda figure come l’ex assessore alla Legalità Alfonso Sabella».
Quanto a Ignazio Marino, l’ex sindaco ha raccontato di aver ricevuto, tra una passeggiata e l’altra nelle vie del centro storico, assediato dai giornalisti e salutato dai cittadini plaudenti o fischianti, telefonate e messaggi da «alcuni leader del Pd, ma per parlarmi a livello personale. Ho grande stima di loro — ha aggiunto — per le parole che hanno usato». Ma, a parte «alcuni leader», il partito renziano rivendica l’epilogo antidemocratico della giunta Marino. Per tutti parla l’uomo solo al comando: «Ventisei consiglieri comunali, pur di mettere fine a questo balletto indecoroso, si sono dimessi. Si sono dimessi loro, hanno rinunciato alla poltrona con un grande gesto di stile», è la versione di Renzi. E anche del commissario Matteo Orfini che si descrive come colui che si è immolato quasi oltre il limite per difendere l’ex sindaco fino a che la «perdita di credibilità e autorevolezza» di Marino, di cui «solo lui è responsabile», ha fatto naufragare l’esperienza di governo di Roma. «Il suo racconto autoassolutorio è semplicemente ridicolo — aggiunge il presidente dem -. Stava a lui prenderne atto e chiuderla responsabilmente Ha scelto un’altra strada e quella responsabilità se la sono assunta al posto suo i consiglieri del Pd. Si sarebbe potuto discuterne in Aula, come avevamo proposto al sindaco. Bastava non ritirare le dimissioni prima e riunire subito il Consiglio. Marino non lo ha voluto e non può scaricare altrove anche questa responsabilità».
Una lettura che non convince una fetta, sia pur risicata, del Pd. «Ancora una volta decisioni politiche cruciali vengono assunte con accordi trasversali non chiari, fuori dalle sedi istituzionali e a discapito della trasparenza», denuncia Sergio Lo Giudice, portavoce di ReteDem, chiedendo la convocazione immediata della direzione nazionale. Critico anche Gianni Cuperlo: se Marino non è andato via per gli scontrini come ripetono «gli esponenti di punta del mio partito», con «tutta evidenza la difficoltà del rapporto tra il Campidoglio e la città era un fatto acclarato da un tempo più lungo. Perché — chiede il leader di Sinistradem — a un certo punto si sceglie la via di una radicale inversione di linea? È solo il fallimento di Marino? Del Pd? O è anche il venir meno di un’idea praticata della democrazia?».

Corriere 1.11.15
Entra in campo il commissario. L’incontro con il Papa
Oggi in occasione della festa di Ognissanti al Verano il primo incontro con Bergoglio
di Andrea Galli


Milano Da neocommissario di Roma e al posto dell’ex sindaco Marino, oggi al cimitero del Verano incontrerà papa Francesco che celebrerà la tradizionale messa dei Santi. Lo annuncia lui stesso con orgoglio. Dottor Tronca, allora possiamo dire che comincia bene...«Sì, ma allo stesso tempo comincia bene anche il Pontefice...».
Una battuta o forse no. Quel Francesco Paolo Tronca in pubblico riservato e sostenitore del basso profilo per ruolo istituzionale e calcolo, nel privato è un’altra persona. Sicura di sé. Ambiziosa. È un uomo dello Stato e degli stivali nel fango, esaltato dalle esperienze nella Protezione civile e nel Corpo dei vigili del fuoco. Adora i problemi perché non vede l’ora di risolverli (e che si sappia). La passione per le armi antiche e per Garibaldi — spade, quadri e busti affollano l’ufficio — forse non sono un’inconscia proiezione dello spirito battagliero di quest’uomo che mangia niente (al massimo un’oliva all’ascolana nei rinfreschi), che lavora fino all’eccesso pretendendo che i collaboratori facciano altrettanto, e che non conosce ferie. La presenza nella libreria d’una guida Lonely Planet sarà uno sbaglio. Tronca partirà stamane per Roma. In aereo da Linate. Senza la moglie Cristina e senza l’adorato figlio unico Ignazio, atleta di tiro al piattello. È preoccupato? «Sono orgoglioso». Il suo credo è il modello-Milano: «Porterò a Roma il meglio dell’Expo», evento in cui rivendica un ruolo fondamentale. Gli piace la condivisione di un metodo e di un obiettivo. Anche i suoi nemici, all’apparenza pochi essendo egli trasversale e abile nel galleggiare, gli riconoscono il merito di ascoltare e spingere alla convergenza, salvo alla fine decidere in prima persona. Ma non traggano in inganno le capacità di mediatore. Tronca è implacabile nell’allontanare, con rimozioni che a volte hanno fatto discutere, chi rema contro o è poco convinto d’una scelta. Farà così anche a Roma, sicuro. «Si marcia insieme, ognuno con le proprie responsabilità. Dopodiché io ho un incarico da portare a termine e deve esserci la massima adesione da parte dell’intero gruppo».
Tronca inizia le giornate con la rassegna stampa e le prosegue guardando il canale delle notizie di Sky sul grande televisore nero Samsung. Così è stato anche ieri, fino all’ultimo comitato per l’ordine pubblico che ha presieduto alle 9.30, prima d’incontrare i giornalisti, andare a Expo, rientrare a casa (l’appartamento è all’interno della Prefettura, accanto alla sala stampa), tornare a Expo per accogliere il Capo di Stato Mattarella e restare il più a lungo possibile per accertarsi che la giornata conclusiva, dopo sei mesi con anche otto (eccessivi secondo tanti) summit sull’ordine pubblico alla settimana, si concludesse al meglio. Del resto Tronca non l’ha mai nascosto, fin da quando venerdì ha ricevuto la telefonata di Renzi, che ieri ha esaltato la bontà della scelta («Con il suo apporto a Roma tornerà l’entusiasmo»): fosse stato per lui, prudente e scaramantico, avrebbe rimandato l’investitura. Ma ormai è andata, e l’ex prefetto sta ragionando sulla sfida romana. Gli piacerebbe portarsi il fedelissimo capo di Gabinetto Ugo Taucer; non commenta il fatto che sia in ottimi rapporti con l’arcivescovo Scola, e che Cantone abbia assai insistito per lui. Tronca guarda avanti. Sa già da dove cominciare. Dalla strada. Dalla bassa qualità del trasporto pubblico come dall’esame maniacale delle aziende che partecipano e vincono gli appalti, piccole o grandi che siano. È probabile che i dirigenti del Campidoglio, per tenersi buono il posto nell’attesa delle elezioni post-commissariamento e dei nuovi politici, gli saranno fedeli. Comunque sia, Tronca gioca per il governo, per Roma ma pure per il proprio futuro. Con la fine di Expo, considerati l’età e il curriculum rischiava di rimanere «prigioniero» fino alla pensione di quella Milano alla quale, lui siciliano, ha pur giurato amore incondizionato, totale ed eterno, abbracciandone con la moglie una delle anime migliori: il volontariato.

«D’altronde perché si dovrebbe indire un Giubileo, a Roma, se non per sottolineare il ruolo fondamentale della sede di Pietro e del papato?»

il manifesto 11.1.15
Dal Vaticano nessuna misericordia per Marino
Soddisfazione Oltretevere. Dalla santa Sede nessun rimpianto per l’ex sindaco di Roma. Nonostante le promesse francescane, non sarà certo un Giubileo «low profile»: sono previsti 30 milioni di pellegrini, cinque in più che nel 2000. Tanti gli eventi di massa: da padre Pio a madre Teresa di Calcutta passando per il Giubileo «dei Ragazzi» del 25 aprile
di Luca Kocci


Quasi fosse una staffetta, nel giorno in cui si chiude l’Expo di Milano e se ne proclamano urbi et orbi le sue «magnifiche sorti e progressive», il prefetto della «capitale morale» d’Italia, Francesco Paolo Tronca, viene nominato commissario prefettizio di Roma, per sostituire l’ex sindaco Marino, ma anche, o soprattutto, per gestire il Giubileo che comincerà l’8 dicembre.
Lo ha detto il premier Renzi: Tronca è «il primo segnale del dream team per il Giubileo». Lo hanno ripetuto i ministri Alfano («un riconoscimento per il lavoro fatto per Expo e un auspicio affinché il Giubileo funzioni come Expo») e Boschi («vogliamo che l’Expo sia il modello di Roma per il Giubileo»).
Lo sottolinea l’Osservatore Romano, dopo che venerdì il presidente della Cei Bagnasco aveva lanciato l’allarme («Roma ha bisogno di guide, tanto più in questo momento in cui il Giubileo è alle porte»): Tronca «si è distinto per la felice gestione» di Expo che «si è rivelata un successo, a giudicare dal gran numero di visitatori», scrive il quotidiano della Santa Sede in un commento titolato «All’altezza di Roma».
E già che c’è affonda un altro colpo contro Marino: i cittadini «sono stati lasciati soli, davanti a gravi disservizi e spesso ostaggio di interessi non chiari, nonostante proclami di segno contrario. L’auspicio dei romani, che continuano a sperare in una città diversa, trasparente, pulita, sicura, vivibile e in grado di riprendere a programmare il futuro, è che con i fatti delle ultime ore si sia finalmente chiuso un capitolo. È ora insomma che le istituzioni e le diverse forze politiche assumano le loro responsabilità e tornino davvero a essere protagoniste, dimostrando di sapere essere all’altezza della storia e della bellezza di Roma».
Per le gerarchie ecclesiastiche la partita del Giubileo è importante e non si può sbagliare.
Del resto storicamente gli Anni santi, fin dal primo di Bonifacio VIII nel 1300, hanno sempre rappresentato un’occasione di visibilità per la Chiesa cattolica e di rafforzamento della centralità romana e del papato. Anche questo «straordinario» (perché infrange l’ordinaria periodicità venticinquennale), dedicato al tema della misericordia, non fa eccezione, nonostante le affermazioni di sobrietà francescana sbandierate fin dall’annuncio e ripetute in continuazione dal suo stratega vaticano, mons. Fisichella: questo Anno santo «non è e non vuole essere il grande Giubileo del 2000».
    D’altronde perché si dovrebbe indire un Giubileo, a Roma, se non per sottolineare il ruolo fondamentale della sede di Pietro e del papato?
L’Anno santo potrà riservare anche sorprese interessanti, come per esempio un’Esortazione apostolica di papa Bergoglio che chiarisca in maniera netta alcune delle aperture sussurrate al Sinodo dei vescovi sulla famiglia appena concluso – a cominciare dall’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati – e subito bilanciate di affermazioni di segno opposto per non scontentare i conservatori e ottenere i loro voti per l’approvazione della Relazione finale.
Ma che si tratti di un evento sobrio e di basso profilo è smentito dal fitto calendario degli eventi, almeno una dozzina dei quali pensati per far convergere a Roma milioni di fedeli: l’esposizione del corpo di padre Pio (13 febbraio); la probabile canonizzazione di madre Teresa di Calcutta (4 settembre); il Giubileo degli operatori dei pellegrinaggi (19–21 gennaio) e del Giubileo mariano (7–9 ottobre), in cui sono attesi centinaia di migliaia di stakanovisti dei santuari; il Giubileo dei ragazzi e delle ragazze – con megaraduno allo stadio Olimpico –, il 23–25 aprile, per farlo coincidere con il ponte della festa della Liberazione e quindi con la chiusura della scuole.
Nonostante le parole di Fisichella, uno studio condotto dall’università Sapienza di Roma prevede nella capitale un afflusso fino a 30 milioni di pellegrini, 5 in più di quelli del 2000.
E infatti albergatori, ma soprattutto case ed istituti religiosi riconvertiti in hotel – gli stessi che qualche mese fa dissero di no al prefetto Gabrielli per l’accoglienza dei profughi perché vedevano nel Giubileo «maggiori possibilità di business» – già fanno segnare un boom di prenotazioni per l’8 dicembre, quando a san Pietro si aprirà la Porta santa che darà il via al Giubileo.
Per questo a tenere il timone dell’amministrazione capitolina chi meglio del prefetto di Milano durante l’Expo al posto di Marino? L’Expo della misericordia.

il manifesto 1.11.15
Giubileo, grande evento a carte coperte
Roma. Il grande business dell’Anno santo
di Paolo Berdini


Il giubileo della misericordia deve diventare come l’Expo. Così si è espresso il governo nominando il prefetto di Milano quale commissario del comune di Roma. E nel vuoto della politica tutti fingono di credere che l’evento Expo sia stato un grande successo.
La stessa manovra finanziaria è stata presentata in un fascicolo che ha in copertina la foto del padiglione Italia. Realizzare in otto lunghi anni – la vicenda Expo parte infatti nel 2007 — un modesto edificio e il triste «albero della vita» viene gabellato come uno strepitoso successo.
Del resto, del fallimento reale nessuno parla. I maggiori giornali ripetono la giaculatoria del trionfo del genio italico, ma è evidente che tutto ciò serve solo a nascondere i veri motivi della preferenza verso gli eventi straordinari. Essi permettono infatti di spendere senza alcun controllo un fiume di soldi pubblici.
Per realizzare Expo sono stati spesi 14 miliardi di euro e nessuna persona di buon senso può negare che se ci fosse stato una politica verso i distretti agro industriali che producono le tante eccellenze del nostro cibo utilizzate per dare sostanza allo slogan di «nutrire il pianeta» e verso i paesaggi meravigliosi che formano la cornice di quei prodotti ci sarebbe stato un effetto molto più duraturo su quel comparto produttivo così importante per il futuro dell’Italia e di tanti giovani. E invece nulla, quel fiume miliardario non doveva andare verso il paese reale ma verso i soliti noti.
Per una politica priva di prospettive meglio dunque affidarsi ai prefetti. A Roma prima di azzerare con una congiura di palazzo un sindaco certo incapace di governare, i poteri sulle opere del Giubileo erano stati già affidati al prefetto Gabrielli. Ora verrà affiancato da un commissario prefettizio.
La vicenda di Roma sta a dimostrare che è proprio il controllo della spesa pubblica al di fuori delle fastidiose procedure ordinarie rappresentate dai sindaci e di consigli comunali , e cioè dalla democrazia, a rappresentare il vero obiettivo del colpo di mano contro Marino. Nelle scorse settimane per il giubileo c’erano soltanto 50 milioni di euro, una offensiva miseria, soprattutto se confrontata con la generosità dimostrata nel caso milanese.
Ieri, a pochi minuti dalla caduta di Marino sono stati trovati 500 milioni di euro e stavolta la somma è enorme perché manca solo un mese all’inizio dell’evento. Si spenderanno soldi per costruire ad esempio il sagrato di una chiesa di estrema periferia che con il giubileo non ha molto a che fare.
Insomma resta confermato che i soldi ci sono per foraggiare le fameliche lobby che ingrassano sulla spesa pubblica improduttiva ma se si tratta di fornirli al sistema democratico rappresentato dai sindaco e dai consigli comunali, si torna a vestire i panni del severo Quintino Sella.
Due notazioni di merito fanno comprendere ancora meglio di quale cinismo si arrivato il principale partito di governo. Ad affiancare Marino erano stati indicati due renziani di ferro Causi ed Esposito. Il primo durante il periodo del sindaco Veltroni accese ben 6 miliardi di titoli derivati che pesano come un macigno sul futuro della città. Il secondo ha affermato che i trasporti della capitale sono da terzo mondo perché i dirigenti non ubbidiscono ai luminosi orizzonti della politica. La realtà è opposta. Da venti anni è stata la politica a nominare a capo di fondamentali funzioni persone prive di competenze e di etica ma legate alla politica.
Così, invece di rimettere ordine in questo tragico tracollo della politica, Renzi propone una comoda via di fuga: grandi eventi e commissari straordinari. Insomma, i responsabili del fallimento di questo ventennio pur di non ammettere i propri errori e di cambiare strada si affidano ai prefetti. La democrazia può attendere.

Il Sole 1.11.15
Il papa incontra l’Unione cristiana imprenditori dirigenti
«Una sfida etica e di mercato»
di Carlo Marroni


Bergoglio: l’impresa bene comune, per le donne diritto al lavoro e alla maternità
«L’impresa è un bene di interesse comune. Per quanto essa sia un bene di proprietà e a gestione privata, per il semplice fatto che persegue obiettivi di interesse e di rilievo generale, quali ad esempio lo sviluppo economico, l’innovazione e l’occupazione, andrebbe tutelata in quanto bene in sé». Papa Francesco nella grande aula Paolo VI riceve in udienza gli associati all’Ucid, Unione Cristiana imprenditori dirigenti presieduta da Giancarlo Abete, e parla di economia, impresa e lavoro, temi centrali della sua pastorale. «A questa opera di tutela sono chiamate in primo luogo le istituzioni, ma anche gli imprenditori, gli economisti, le agenzie finanziarie e bancarie e tutti i soggetti coinvolti non devono mancare di agire con competenza, onestà e senso di responsabilità» dice, aggiungendo che «l’impresa e l’ufficio dirigenziale delle aziende possono diventare luoghi di santificazione, mediante l’impegno di ciascuno a costruire rapporti fraterni tra imprenditori, dirigenti e lavoratori, favorendo la corresponsabilità e la collaborazione nell’interesse comune». Molte delle tematiche economico-sociali sono state affrontate da Bergoglio nella «Evangelii Gaudium» di due anni fa, il “manifesto” del pontificato, e ieri davanti a imprenditori e dirigenti ha ripercorso le tematiche ribadite e amplificate nella recente enciclica «Laudato Si’».
«L’economia e l’impresa hanno bisogno dell’etica per il loro corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica che ponga al centro la persona e la comunità. Oggi rinnovo a voi il mandato di impegnarvi insieme per questa finalità, e porterete frutti nella misura in cui il Vangelo sarà vivo e presente nei vostri cuori, nella vostra mente e nelle vostre azioni». Ma non sempre le giuste tutele, rileva il Pontefice, sono rispettate: «Quante volte abbiamo sentito di una donna che va dal capo e dice: “mah, devo dirle che sono incinta”. “Da fine del mese non lavori più”. La donna dev’essere custodita, aiutata in questo doppio lavoro – ha aggiunto –: il diritto di lavorare e il diritto della maternità» ha detto, usando parole molto forti e chiare.
Insomma, l’impresa è un bene di interesse comune, con al centro chi ci lavora: «I dipendenti sono la risorsa più preziosa di un’impresa. È decisivo avere una speciale attenzione per la qualità della vita lavorativa. Ma non basta fare assistenza, fare un po’ di beneficenza. È necessario orientare l’attività economica in senso evangelico, cioè al servizio della persona e del bene comune. In questa prospettiva – ha detto rivolgendosi agli imprenditori e ai dirigenti cristiani – siete chiamati a cooperare per far crescere uno spirito imprenditoriale di sussidiarietà, per affrontare insieme le sfide etiche e di mercato, prima fra tutte la sfida di creare buone opportunità di lavoro».
Il suo appello alla tutela dei posti di lavoro e della loro «qualità», Bergoglio ha voluto pronunciarlo «in modo particolare» in difesa delle lavoratrici, ribadendo il messaggio sulle donne: «la sfida è tutelare al tempo stesso sia il loro diritto ad un lavoro pienamente riconosciuto sia la loro vocazione alla maternità e alla presenza in famiglia». Poi la sfida di dare una prospettiva solida alle nuove generazioni, le più esposte agli effetti perduranti della crisi: «Pensate ai giovani: qui mi sembra che il 40% dei giovani qui oggi sono senza lavoro. In un altro paese vicino il 47%, in un altro più del 50%. Pensate ai giovani, ma siate creativi nel fare forme di lavoro che vadano avanti e diano lavoro. Perché chi non ha lavoro non solo non porta il pane a casa, ma perde la dignità». Insomma, il Papa sollecita gli imprenditori ad una «sfida etica e di mercato»: «Questa chiamata ad essere missionari della dimensione sociale del Vangelo nel mondo difficile e complesso del lavoro, dell’economia e dell’impresa, comporta anche un’apertura e una vicinanza evangelica alle diverse situazioni di povertà e di fragilità. Si tratta di un atteggiamento, di uno stile con cui portare avanti i programmi di promozione e assistenza, incrementando le numerose e benemerite opere concrete di condivisione e di solidarietà che sostenete in varie parti d’Italia. Questo sarà anche un modo a voi proprio per mettere in pratica la grazia del Giubileo della Misericordia». In quanto associazione ecclesiale, riconosciuta dai vescovi, l’Ucid e i suoi associati sono chiamati «a vivere la fedeltà alle istanze evangeliche e alla dottrina sociale della Chiesa in famiglia, al lavoro e nella società. È molto importante questa testimonianza. Per questo vi incoraggio a vivere la vostra vocazione imprenditoriale nello spirito proprio della missionarietà laicale». Quello dell’imprenditore, infatti, «è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo» («Evangelii gaudium»).

Il Sole Domenica 1,11.15
Cattolici vegetariani
Immoralità della carne
di Giovanni Santambrogio


Con un Papa “francescano”, con una Enciclica dal titolo Laudato si’,con i quotidiani inviti a uscire dalla cultura dello spreco, chi ha fede si domanda che cosa significhi realmente essere creature a immagine di Dio. Affermarlo regala un respiro grande perché si entra nella misericordia di Dio. Ma, allo stesso tempo, inquieta per la responsabilità che ci si assume. Se si è “volto trasparente” del divino, anche l’azione dovrà comunicare questa appartenenza. La fede diventa una partita seria, dove lo stile di vita spicca per i suoi tratti distintivi lontani da conformismo e omologazione. Prendersi cura del creato riapre l’impegno con la natura come rispetto, salvaguardia, tutela e uno sguardo purificato dall’impeto utilitaristico fa scoprire la sacralità presente nelle meraviglie dell’universo. Negli ultimi decenni questa coscienza si è ampliata sollevando la questione vegetariana. Non è più un pensiero isolato quello di Tolstoj che scrive: «Mangiare carne è semplicemente immorale, poiché comporta un’azione che è contraria al sentimento morale, quella di uccidere». A sostenere un rinnovato stile di vita alimentare (e non solo quello) c’è l’ssociazione cattolici vegetariani, attiva dal 2009 su iniziativa della sociologa Marilena Bogazzi. Il lavoro di approfondimento religioso fatto in seguito viene ora raccolto nel volume Il grido della creazione con una serie di autorevoli saggi che potrebbero diventare un primo riferimento per una “teologia vegetariana” di cui parla Paolo Trianni nel suo contributo. Gli altri autori sono Paolo De Benedetti, Rosanna Virgili, Roberto Pinetti, Luigi Lorenzetti, Guidalberto Bormolini, Eugenio Binini. Con tagli diversi si ricostruisce il rapporto con la carne nella Bibbia, si raccolgono le fonti che danno dignità al regno animale e ne segnalano la collocazione nel grande disegno divino. L’associazione non è mossa da “stravaganze nutritive” ma, come sottolinea l’arcivescovo Edoardo Menichelli nella prefazione, dal «vedere in ogni realtà animata del creato la presenza di Dio e della sua santità»
Guidalberto Bormolini, Luigi Lorenzetti, Paolo Trianni (a cura di), Il grido della creazione, Lindau, Torino, pagg. 192, € 14,00.

La Stampa 1.11.15
Cacciari: altro che primato della politica
Renzi l’ha sostituita con tecnici e amici
Il filosofo: “Orfini incapace. Evocare l’Expo non c’entra nulla”
intervista di Marco Bresolin


«La cosa comica è che è in atto una sostituzione della politica con tecnici e magistrati proprio per mano di uno che si è presentato dicendo che la politica doveva tornare al comando». Non usa mezzi termini Massimo Cacciari per criticare l’eccessiva presenza di tecnici in ruoli che dovrebbero essere affidati a politici.
Per Roma, Renzi ha puntato sul prefetto Tronca perché vuole applicare il modello Expo.
«Sì, ma c’è una piccola differenza: Expo era un evento eccezionale ed è dunque normale che venisse gestito da tecnici, mentre Roma è un Comune. Il modello Expo non c’entra nulla. Per il Giubileo c’è già un commissario, Gabrielli».
Quindi le scelte di Renzi non vanno nella giusta direzione?
«Diceva di voler rimettere la politica al comando. Invece in tutte le situazioni critiche deve ricorrere a tecnici. E a livello amministrativo locale ai vari Fassino, Chiamparino, De Luca e magari anche Bassolino. Vorrei capire chi ha rottamato, oltre a D’Alema».
Non è che l’Italia è obbligata a seguire la strada dei tecnici perché la politica non è in grado?
«Va be’, se è così allora prendiamone atto. Facciamo delle riforme istituzionali che ne tengano conto: aboliamo il Parlamento. Ma non scherziamo, dai».
Allora che bisogna fare?
«Per rifondare la politica bisognerebbe ripartire da una riorganizzazione della medesima, formare un partito come dio comanda, istituire una formazione della classe politica decente... E non solo attorniarsi di amici e portaborse...».
La nostra classe politica è inadeguata?
«Per lo meno quella che sta attorno al capo del governo. Guardiamo quello che è successo a Roma: il Pd ha fatto ricorso a un politico per risolvere il problema. La prima cosa da mettere in discussione sarebbe l’operato di Orfini. Renzi ha messo lì un suo braccio destro che avrebbe dovuto avere autorevolezza e capacità per dirimere quel casino e invece guarda che disastri ha lasciato che accadessero. Si è dimostrato totalmente incapace. E allora lo caccino. Lo mettano a fare il capo sezione a Orbetello».
E ora a Roma cosa succederà?
«Il centrodestra cercherà di competere con Marchini, ma vinceranno i Cinque Stelle. Il Pd non arriverà al 10%. Ci sarà una lista Marino: ormai è quasi costretto, per salvarsi la faccia».
A Marino cosa si può rimproverare?
«Assolutamente nulla. Lui era uno che non sapeva neanche che fosse di casa a Roma, non aveva alcuna esperienza amministrativa. Era soltanto un semplice megalomane: questo era risaputo da tutti, dalla comunità scientifica, dai suoi stessi colleghi. La responsabilità non è sua, ma di chi l’ha messo lì, a dimostrazione dell’assoluta mancanza di una politica di formazione della classe dirigente. Avevano Gentiloni e invece si sono inventati Marino: bene, questo è il risultato».
Marino però ha vinto le primarie
«Le primarie, fatte in questo modo totalmente dilettantesco, non servono a niente. Servono solo alla resa dei conti interna al partito. O sono normate con regole rigidissime, con un albo degli elettori, come negli Usa, o sono delle bufale colossali».
Che scenari prevede per il Pd alle Comunali?
«Roma è perduta. Milano la possono salvare solo con Sala».
Che, guarda caso, è un tecnico…
«Certo. Perché non hanno nessun politico in grado di affrontare emergenze, né sul piano della giustizia né sul piano amministrativo. Se vuole salvarsi il sederino, Renzi a Milano dovrà mettere Sala. Altrimenti rischia la pelle. E se Renzi perde sia a Milano che a Roma, voglio vedere come continua a governare il Paese…».

Corriere 1.11.15
Il primo giorno di Marino senza fascia
Passeggiata e nuova lite con il premier Il futuro A chi gli chiede se salirà ancora le scale capitoline: non ho programmi di morte imminente
di Fabrizio Caccia


Prodi Io avrei telefonato a Marino? Non ho il suo numero, non lo sento da anni
Orfini Aiutare Ignazio è stato il mio principale obiettivo Gli ho fatto da scudo umano
Renzi: le dimissioni dei consiglieri gesto di stile. La replica: ignora i cambiamenti fatti

ROMA Lo chiama da Londra la figlia Stefania, 21 anni, via skype: «Comunque, papà, sono fiera di te». «Ci vediamo presto, ti veniamo a trovare io e la mamma», le risponde lui, Ignazio Marino, da poche ore ex sindaco di Roma, che di tempo libero adesso ne avrà, pluriaccoltellato — stando alle sue parole — ma sereno, in questo day after amaro ma anche dolce, se è vero che da «Giolitti» — la storica gelateria del centro — il fu inquilino del Campidoglio dopo una passeggiata tra la gente della «mia città» si regala una coppa «fragole e lampone» e non invece ai gusti di crema e limone come fece un giorno Matteo Renzi. Al cronista che glielo fa notare, però, non concede repliche.
«Ora ridaremo fiducia ai romani. Ma quale mandante! Nessun complotto contro Ignazio Marino, i 26 consiglieri si sono dimessi per porre fine a questo balletto, hanno rinunciato alla poltrona con un grande gesto di stile...», ha detto giusto ieri il premier rispondendo così proprio a Marino, che di 26 accoltellatori e di un mandante, con chiara allusione a Palazzo Chigi, aveva parlato. Tra i due il gelo è totale e Marino, pure adesso senza fascia tricolore, contrattacca: «Con le sue dichiarazioni il presidente del Consiglio conferma di avere un’idea sommaria e insufficiente della situazione di Roma — scrive su Facebook —. E ignora i tanti interventi di cambiamento radicale che insieme alla Giunta abbiamo fatto. Dispiace anche che il contrasto alla corruzione, alle tangenti, al malaffare trovato non vengano considerati da lui degni di nota».
Ma non solo: «Mi hanno chiamato e scritto dei leader del Pd per parlarmi a livello personale, e di loro ho grande stima per le parole che hanno usato...», sibila Marino a un microfono. Chi l’ha chiamato? Bersani, D’Alema, Legnini: così pare. Qualcuno suggerisce anche Romano Prodi, ma arriva una smentita secca del Professore: «Non lo sento da anni, non ho il suo numero».
Ora che tutto è consumato, gli scivolano addosso le parole del commissario romano del Pd, Matteo Orfini: «Aiutare Marino è stato il mio principale obiettivo. Gli ho fatto da scudo umano...». Lui non ci crede: «Sono orgoglioso di quello che ho fatto in questi due anni», ripete piuttosto ai cronisti sulle scale del Campidoglio. Sarà l’ultima volta che le salirà? gli domanda uno. Risposta sardonica: «Non ho programmi di morte imminente». Inutile chiedergli del futuro: parteciperà alle primarie del Pd per il nuovo sindaco? Farà una sua lista civica? Di certo c’è solo che l’uscita del suo libro slitterà: «Deve aggiungerci 2-3 nuovi capitoli...», sussurra un collaboratore. E passerà la domenica «in campagna da amici», a meno che il neocommissario Tronca non chieda d’incontrarlo per un informale passaggio di consegne. Diserterà, invece, la messa di papa Francesco al cimitero del Verano. Come con Renzi, anche con il Papa ormai — dopo Philadelphia — il dialogo s’è interrotto. In strada, durante la passeggiata, molta gente lo saluta, lo incita, lui sorride e torna a fare il gesto di vittoria come ai bei tempi. Ma c’è anche chi lo contesta: «Marino vattene a casa», gli gridano. E infine, alle cinque della sera, a casa ci va. Dove l’aspetta Rossana, sua moglie. Che l’accoglie con un grande abbraccio.

Repubblica 1.11.15
E per il Campidoglio ora spunta il nome di Barca
Il premier: “Complotto?Si è preso atto che la città non funzionava” L’idea di commissionare una serie di sondaggi per testare 20 nomi
di Goffredo De Marchis


ROMA. Un sondaggio su venti nomi, anche più di uno. Da commissionare tra dicembre e gennaio «perchè adesso siamo nel momento di massima crisi e non servirebbero a niente», dice Matteo Renzi. La scommessa, per recuperare Roma e provare a vincere nella primavera del 2016, è dare subito un segno di cambiamento. Come? Mettendo risorse economiche a disposizione dell’amministrazione e del commissario su tre capitoli chiave di una svolta per il Campidoglio: trasporti pubblici, pulizia, periferie. Questi sono i punti fissati da Renzi e dal presidente del Pd Matteo Orfini. «L’identikit perciò lo facciamo a gennaio, dopo aver visto i sondaggi». E dopo aver provato a cambiare il trend nella Capitale.
Tra i venti candidabili il Pd inserirà personalità della società civile, politici, alcuni ministri romani e Fabrizio Barca. L’ex ministro del governo Monti sembra oggi una figura in grado di tenere unito il Partito democratico, di recuperare il voto a sinistra malgrado lo strappo di Sel ed è stimato dal premier che Barca non ha mai attaccato pur avendo una storia politica completamente diversa. È anche un possibile concorrente che ha il pregio di far coincidere sul suo nome tutte le correnti Pd e ricompattare il centro sinistra, ovvero può consentire di saltare le primarie perchè, come dice Orfini, «se c’è un solo candidato non si fanno ». Il premier e il commissario romano hanno ricordato nei loro primi colloqui i precedenti di Sergio Chiamparino e Nicola Zingaretti, vincenti nelle loro regioni senza passare dai gazebo. Ma sono precedenti che rimandano a esperienze in cui avevano sostituito un centrodestra diviso e travolto dagli scandali. Qui la situazione è opposta.
Oggi le primarie sono ancora in campo. Meglio non offrire nuovi argomenti polemici, non prestare il fianco ad altri attacchi. Ma l’obiettivo, nella partita più delicata delle amministrative, è proprio quello di evitarle. In questo senso Barca appare il personaggio ideale, la soluzione unitaria per eccellenza. A oggi, naturalmente. L’ex ministro della Coesione sociale era del resto il vero candidato di Pier Luigi Bersani al comune di Roma. Un candidato che non sarebbe passato dalla prova dei gazebo. Ma Barca rifiutò malgrado un pressing costante e il Pd di si rifugiò nella competizione interna che promosse Marino. Per Bersani e per la minoranza in genere sarebbe quindi difficile dire di no a Barca.
Certo non bastano queste caratteristiche. Ieri sono partiti all’attacco Sergio Lo Giudice e Sandra Zampa chiedendo un nuovo congresso romano e il rimescolamento delle carte nel Pd capitolino. È un segno che questo primo affondo non sia venuto dai bersaniani. Ma non bisogna dimenticare che qualche giorno fu Nico Stumpo, deputato vicino all’ex segretario, a chiedere una verifica sul commissario Orfini, a denunciare l’allungamento del mandato per un anno senza passare da una discussione interna. Insomma, non andrà tutto liscio nelle prossime settimane ma il prefetto Franco Tronca, che arriva oggi, godrà di una prima fase di pace intorno a lui.
La rimonta dem passa ora dagli stanziamenti che aiuteranno Roma. La prima fiche andrà sui trasporti: si parla di 150-200 milioni di investimenti sulla manutenzione in primo luogo e sul sistema in generale. Uno stanziamento ingente che toccherà a Marco a Rettighieri gestire. Il Giubileo, con la sua eccezionalità, servirà a coprire le spese che verranno dirottate anche sulla pulizia delle strade e sulle periferie. A quel punto sarà più semplice ragionare sul sindaco. Dal totocandidati si tira fuori Raffaele Cantone. Il presidente dell’anticorruzione sta confermando anche in queste ore ai suoi interlocutori che la sua intenzione è quella di non entrare in politica, con alcun incarico. Fuori dalle ipotesi è anche Alfio Marchini ma per altri motivi: andrà a destra e soprattutto il feeling con Renzi è quasi inesistente.
Il premier ieri al Tg1 è tornato sulle ultime parole di Marino sindaco. «Ma quale mandante, ma quale congiura. Una citta’ o funziona o non funziona. Ci sono stati 26 consiglieri che pur di mettere la parola fine al balletto indecoroso si sono dimessi. E’ il momento di stoppare le chiacchiere e parlare di cose concrete». Così Renzi risponde anche a chi ha criticato il metodo, con le firme dal notaio anzichè con un dibattito nell’aula consiliare. «Ventisei consiglieri comunali pur di mettere la parola fine a questo balletto indecoroso, si sono addirittura dimessi loro, hanno rinunciato alla poltrona con un grande gesto di stile».

Repubblica 1.11.15
La sinistra dem in trincea “Renzi non deciderà tutto”
Gianni Cuperlo leader di Sinistra dem definisce “sconcertante” la vicenda Marino
di Giovanna Casadio


ROMA. «A Roma è successo qualcosa di sconcertante». Gianni Cuperlo chiede un chiarimento nel partito subito, perché attacca il leader della minoranza del Pd agli errori di Marino si sono sommati quelli di Renzi e di Orfini: «Le ragioni della sfiducia al sindaco andavano spiegate nell’aula Giulio Cesare». Ma è tutta la sinistra dem in rivolta nel day after capitolino. Le dimissioni dal notaio e soprattutto l’eccentrica combriccola di consiglieri democratici e dell’opposizione che le hanno depositate, licenziando così il sindaco, suonano come una sirena d’allarme.
Allarme per il futuro del Pd trasformato in Partito della Nazione, con la barra spostata verso il centro e la destra, e per il suicidio del centrosinistra. «Una frittataccia». La definisce Federico Fornaro. Nel mirino c’è anche Orfini, «commissario giocatore». «In definitiva si capisce in quale direzione Renzi mette la barca in vista delle amministrative della primavera », rincara il bersaniano Miguel Gotor. Per questo è necessario un congresso straordinario, secondo Nico Stumpo. Di certo ci vuole una Direzione del partito, senza perdere altro tempo. La chiedono gli ex civatiani rimasti nel Pd che fanno capo a Sandra Zampa e Sergio Lo Giudice. «Sono accadute cose gravi ripetono . Il luogo corretto della crisi dell’amministrazione era il consiglio, non una crisi extraconsiliare. Nessuno pensi di costruire scenari neo centristi senza passare da un congresso». Richiesta anche di de secretare le relazioni su Mafia Capitale. La sinistra dem quindi è sul piede di guerra. Martedì sera l’assemblea dei parlamentari con Renzi sulla legge di stabilità sarà un primo banco di prova. In attesa della Direzione. Mentre qualcuno pensa di anticipare l’Assemblea dei mille delegati, dove portare l’altra breccia che la minoranza è pronta ad aprire, ovvero la fine al doppio ruolo di premier-segretario. «Lo Statuto va cambiato torna alla carica Stumpo, che fa parte della commissione dove si sta mettendo mano al restyling del Pd a partire dalle nuove regole delle primarie. Ecco, il cambiamento delle regole deve essere più ampio, dal momento che «quello che è accaduto a Roma è l’emblema di un Pd in dissoluzione, non c’è partito, non c’è classe dirigente... », è lo sfogo di Stumpo. Il clima nel Pd è reso ancora più teso dallo scambio di offese. De Luca il “governatore” della Campania dopo gli insulti a Rosy Bindi, ha liquidato Gotor : «Credevo fosse un ballerino di flamenco, un tanguero...». Gotor risponde: «Il Partito della Nazione è già nato in Campania e in Sicilia. De Luca balla la tarantella con gli impresentabili».

Repubblica 1.11.15
Il segretario del Psi
Nencini:va cambiato l’Italicum ai ballottaggi la destra voterà M5S


ROMA Serve “rivedere” la legge elettorale consentendo ai partiti della coalizione vincente di godere del premio di maggioranza. È quanto ha spiegato il segretario nazionale del Psi Riccardo Nencini concludendo la conferenza programmatica del partito a Roma ed sottolineando il timore che, al prossimo scontro elettorale, con l’attuale tripolarismo composto da Pd, centrodestra e M5S, al ballottaggio vada proprio quest’ultimo. «Non sognatevi una debacle di Grillo, il M5S passerà da un partito del leader a un partito con una sua struttura territoriale», spiega Nencini rimarcando come, ad oggi, «è più probabile che, in un ballottaggio, l’elettorato di destra scelga più Grillo che Renzi». Da qui l’esigenza di una revisione dell’Italicum da intavolare assieme all’ultimazione delle riforme costituzionali, insiste Nencini spiegando che, con «questo anomalo tripolarismo, fuori gioco sono i moderati del centrodestra e i massimalisti della sinistra».

Corriere 1.11.15
L’Italicum e l’errore di cambiare per paura di Grillo
di Angelo Panebianco


In politica non si può dare nulla per scontato ma, al momento, sembra che Renzi e il Pd debbano rassegnarsi: Roma, per loro, è perduta. È verosimile che fra qualche mese, quando si andrà a votare, a giocarsi la partita saranno i grillini e, ma solo se troverà un leader all’altezza (Alfio Marchini?), il centrodestra.
Tenuto conto della débâcle di Marino, nonché del clima generale alimentato dai gravi episodi di malaffare e corruzione (ma la mafia non c’entra), ci sono buone probabilità che a conquistare la Capitale siano proprio i Cinque Stelle. Se questo accadrà l’intera Italia pubblica finirà «sull’orlo di una crisi di nervi». Circoleranno inverosimili sondaggi che attribuiranno ai Cinque Stelle il ruolo di primo partito nelle intenzioni di voto (ma rivelando, contestualmente, percentuali ancora più alte di indecisi), e tanti commentatori cominceranno a «riposizionarsi» (un termine asettico ed elegante che indica i movimenti trasformistici) preparandosi a una futura presa del Palazzo d’Inverno da parte di Grillo e soci. Il nervosismo andrà alle stelle. Mentre i corrispondenti esteri correranno a intervistare i vari capi grillini i quali parleranno come se fossero già al governo, come se avessero già in tasca il Paese.
L’unica certezza è che, per lo meno, Renzi non si farà troppo impressionare, forse sarà l’unico, in quella situazione, a non perdere la Trebisonda. Ma dovrà anche resistere a fortissime pressioni tese ad ottenere un cambiamento della legge elettorale. L’argomento è già stato usato ma, se i grillini sfonderanno a Roma, diventerà dominante.
Il ragionamento è il seguente: essendo il sistema politico nazionale ormai tripolare, in caso di ballottaggio fra Renzi e i grillini il centrodestra sposterà i suoi voti su questi ultimi dando così a Grillo la vittoria.
A riprova c’è il fatto che, in tempi recenti, in alcune amministrazioni locali, il ballottaggio fra il Pd e i Cinque Stelle si è risolto a favore di questi ultimi. Si può ribattere che è sempre rischioso pensare alle elezioni nazionali come se fossero una replica di quelle locali. Ciò che accade localmente dipende soprattutto da fattori locali (ad esempio, chi erano i candidati sindaci del Pd battuti dai Cinque Stelle?). Inoltre, siamo sicuri che i voti serviti al grillino locale per battere i democratici arrivassero dal centrodestra? È noto che, nelle elezioni locali, gli elettori del centrodestra hanno una forte propensione all’astensione al secondo turno, persino quando al ballottaggio va un loro rappresentante. Questa propensione dovrebbe essere ancora più accentuata quando lo spareggio è fra candidati entrambi estranei al centrodestra. Infine, anche ammesso che, in certi casi, elettori del centrodestra abbiano premiato, nel ballottaggio locale, un Cinque Stelle, questo non autorizza a pensare che rifarebbero la stessa scelta in un ballottaggio nazionale. Conviene non dimenticare certe specificità delle elezioni locali. Le stesse che, ad esempio, ai tempi della Guerra fredda, spingevano elettori anticomunisti a diciotto carati a votare, in certe città emiliane, per il sindaco comunista, considerato da loro un buon amministratore.
Nelle elezioni nazionali, tolti i giovanissimi che studiano e vivono a casa dei genitori, le persone votano soprattutto con il portafoglio, badando al proprio interesse. Davvero i leader del centrodestra potrebbero, a cuor leggero, chiedere agli elettori di votare un Cinque Stelle in odio a Renzi? E se anche ciò avvenisse, sarebbero molti gli elettori disposti a seguire una tale indicazione? Non è verosimile. Difficilmente quegli elettori — molti dei quali, sicuramente, avrebbero tanto da perdere — correrebbero un rischio simile. Un grillino a Palazzo Chigi scatenerebbe il panico su tutte le piazze internazionali: un fuggi fuggi generale. Più o meno ciò che accadde ad Atene alle prime elezioni in cui vinse Syriza. L’Italia non è la Grecia ma, presumibilmente, gli effetti (almeno quelli immediati) non sarebbero diversi. È difficile che gli elettori di centrodestra non lo intuiscano.
Per queste ragioni Renzi farà bene a resistere ai tentativi di imporgli un cambiamento della legge elettorale che, a quel punto, verrà proposto con la scusa di voler fermare i grillini ma che (col voto alla coalizione anziché al partito e altri trucchi proporzionalistici) comprometterebbe la futura governabilità. Dal momento che resta assai probabile che, in caso di ballottaggio, il grosso degli elettori del centrodestra vada in soccorso di Renzi anziché di un Cinque Stelle, quale che sia l’indicazione dei loro leader.
Tuttavia, è dura a morire l’idea che così non sarebbe. Per due motivi. Il primo è che si tende a pensare agli elettori come se fossero «pacchi»: i leader li pigliano e li mettono dove vogliono. Ma gli elettori non sono pacchi, sono persone che pensano (chi più e chi meno lucidamente) con la propria testa.
Il secondo motivo ha a che fare con una sopravalutazione delle possibilità dei grillini di sfondare sul piano nazionale quali che siano i loro successi locali. Qualunque cosa raccontino i sondaggi (ma sempre occhio alla percentuale di indecisi), è improbabile che il partito di Grillo ottenga, alle prossime elezioni politiche, gli stessi voti del 2013. Allora i grillini vennero scelti anche da tanti che non li conoscevano e volevano fare uno sberleffo al potere costituito. È difficile che costoro li votino di nuovo. I grillini otterranno plausibilmente molti meno voti del 2013 . Ci saranno allora commentatori che prenderanno un’altra cantonata, che parleranno di «clamorosa sconfitta» e di «inizio della fine» del movimento grillino. Sarà invece l’inizio del suo consolidamento. Plausibilmente, esso andrà a rappresentare stabilmente quella quota di elettorato «anti-sistema», ampia ma non maggioritaria, la cui presenza è una costante nella storia d’Italia.

Repubblica 1.11.15
Camusso:“Il lavoro significa dignità Renzi lo capisca”
“Purtroppo anche in Italia pur di avere un reddito ci si piega a qualunque cosa”
Susanna Camusso, leader Cgil, è stata invitata da Nanni Moretti alla proiezione di “La legge del mercato” al cinema Nuovo Sacher di proprietà del regista
intervista di Roberto Mania


ROMA «Sì, questo film dovrebbe vederlo pure Renzi. Forse capirebbe che la lotta alla disoccupazione è la vera priorità». Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, ha visto il film “La legge del mercato”. Nanni Moretti, padrone di casa al Nuovo Sacher di Roma, le ha presentato Vincent Lindon, cinquantacinquenne, protagonista del film, vincitore della Palma d’ora a Cannes quale migliore attore. “La legge del mercato” è un film diverso, per costi (solo 1,6 milioni), per attori (solo Lindon è un professionista), per tecnica (il ritorno al cinemascope). È insieme una finzione e un documentario. È un film politico, contro la brutalità dei nostri tempi, contro la disoccupazione che annichilisce la dignità. Contro la disumanità dei target aziendali. Racconta la nuova classe operaia che trasmigra dalla fabbrica ai supermercati, dall’industria al terziario, passando per la disoccupazione. In totale solitudine. Non c’è il sindacato. Le istituzioni balbettano improbabili corsi di formazione. E i disoccupati lottano tra loro, in competizione per un posto, giovani, anziani neri, bianchi, donne, uomini. In tutta Europa i disoccupati sono 20 milioni; in Italia sono tre milioni. Il tasso di disoccupazione medio nel Vecchio Continente è del 10,8%, in Italia dell’11,8. Gli ultimi dati dell’Istat segnano un incremento (da agosto e settembre) anche degli inattivi: + 0,4%.
«È un racconto durissimo quello del regista Stéphane Brizé. Che fa male anche a me perché ti ricorda che la disoccupazione abbrutisce », sostiene Camusso. Lindon è Thyerry Taugourdeau, operaio cinquantenne che viene licenziato per supposti motivi economici. Echeggia il nostro Jobs act. Anzi questa storia francese sembra disegnata intorno al Jobs act italiano: licenziamenti facili, demansionamenti, controllo video dei lavoratori, flessibilità, precarietà. Alla fine Thyerry (sposato, con un figlio disabile) accetta di fare il vigilante in un grande supermercato: controlla i clienti ma anche i suoi colleghi. Accetta per lavorare, per continuare a pagare la scuola con il sostegno al figlio che vuole andare al Politecnico, per continuare a pagare il mutuo, per non dover vendere la mobil-home vicino al mare che a lui e alla moglie dà la sensazione di essere ceto medio. Finché non si ribella e se ne va lasciando nel suo armadietto gli abiti di quel lavoro. Dopo aver più volte detto che lui “non vuole un’elemosina”. «Alla fine – dice Camusso – Thyerry perde, perde dal punto di vista del sistema, ma ritira fuori la sua dignità. Perché pur di avere un reddito ci si piega a qualunque cosa, infatti. Ed è questo che anche nel nostro Paese si continua a non capire. È un clima culturale che ci ha portati progressivamente alla svalorizzazione del lavoro.. Non dimentichiamoci che per vent’anni abbiamo avuto il presidente-operaio. E oggi Renzi usa la contrapposizione tra chi sta dentro il mercato del lavoro e chi fuori, ma non parla di occupazione. Ci si occupa delle regole, o della sregolazione del lavoro, non dell’economia, di come creare nuova occupazione. Questo è il punto. Chi perde il lavoro, invece, è come Thyerry: ricattabile, quasi un “oggetto” in mano ad altri. E chi è senza lavoro è solo e circondato dal cinismo: quello delle banche, che da noi non danno i mutui se sei precario e che ne “La legge del mercato” suggeriscono a Thyerry di vendere la casa. Il cinismo dei direttori aziendali che puntano esclusivamente agli obiettivi di bilancio che vuol dire pure licenziare (anche se questo porterà ad un suicidio) se si accorgono di un furto di buoni sconti e di una impropria ricarica di punti. Il cinismo, infine, delle Borse che brindano ai licenziamenti. Questo è la realtà che non vogliamo vedere. Ma è la condizione di chiunque perde il lavoro. Così il film di Brizé ha quasi una funzione educativa. Anche per l’Italia che ha tolto il lavoro dalla narrazione collettiva, anche per il nostro premier Renzi».

il manifesto 1.11.15
Medici, insegnanti e statali. Arriva l’autunno caldo
Lavoratori. Il 13 la scuola, il 21 i metalmeccanici della Fiom, il 28 il pubblico impiego: manifestazioni per tutto il mese di novembre
E non si esclude lo sciopero generale


L’autunno caldo sembra finalmente essere arrivato e nel mese che si apre oggi ci aspettano proteste, scioperi e manifestazioni. Si parte proprio oggi, ed essendo domenica, a scioperare non potevano essere altri che i lavoratori del commercio. Il 3 toccherà ai dipendenti della Ericsson, mentre dal 5 al 28 si articolano le proteste dentro la Telecom (60 minuti alla fine del turno e blocco degli straordinari).
Ma a fare scintille sono soprattutto i lavoratori del pubblico impiego e della scuola: è noto che nell’ultima settimana, grazie al risibile stanziamento deciso dal governo Renzi sul rinnovo del contratto (dai 200 ai 300 milioni, cioè 8 euro lordi in più al mese, leggi ben 5 netti), i sindacati sono tornati ad alzare il tiro, annunciando mobilitazioni e manifestazioni, senza escludere lo sciopero generale.
Ma se i confederali della scuola hanno deciso di confluire nella manifestazione nazionale indetta dal pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil per il 28 novembre, uno sciopero della scuola però lo vedremo comunque, e ben due settimane prima: si fermano gli insegnanti, gli Ata e tutte le altre figure che aderiscono a Unicobas, Anief, Cub, Cobas, Usi Surf.
E non basta: il 20 novembre sarà l’Usb a mobilitarsi, con pubblico impiego e scuola, tutti insieme, come sarà poi per i confederali per la già citata manifestazione del 28.
Il 21 novembre è prevista la manifestazione della Fiom contro la legge di stabilità. Il sindacato guidato da Maurizio Landini si augura che tutta la Cgil decida di mobilitarsi, arrivando a proclamare uno sciopero.
Il 24 novembre tocca ai trasporti: in particolare, i dipendenti Enav aderenti a Anpcat e Fata-Cisal. Dalle 21 del 26 alle 18 del 27 si fermeranno invece i lavoratori di Fs, Trenitalia, Rfi, Trenord aderenti a Usb, Cat e Cub (escluso il personale della divisione Cargo).
Il 28 novembre, quindi, si conclude in bellezza con il pubblico impiego e la scuola, in piazza con Cgil, Cisl e Uil a Roma. «È con i contratti che si rilancia il cambiamento. E se per far arrivare il messaggio servirà andare allo sciopero generale, noi siamo pronti», hanno spiegato nei giorni scorsi Rossana Dettori, Giovanni Faverin e Giovanni Torluccio, segretari di Fp-Cgil, Cisl-Fp e Uil-Fpl.
L’offerta di 8 euro lordi viene ritenuta offensiva dai sindacati, soprattutto se si considera il fatto che i contratti sono ormai bloccati dal 2009, e che nel mezzo c’è stata una sentenza della Corte costituzionale che sollecita il governo a tutelare il potere di acquisto dei lavoratori pubblici.
Il 28 novembre si mobilitano anche i medici: per la sanità, tra tagli e riforme, il momento è delicatissimo. Manifestazione e fiaccolata unitaria a difesa della sanità pubblica, per dire no «al sottofinanziamento che porta allo smantellamento e al razionamento dei servizi al cittadino, agli obblighi amministrativi che tolgono tempo alla relazione di cura, a una politica ostile al medico e poco attenta alla sicurezza delle cure; sì, invece, a equità e pari opportunità di accesso». Anche i medici, senza risposte, andranno allo sciopero.

Corriere 1.111.15
Ma i diritti dei pazienti?
L’Europa e le regole sui riposi negli ospedali pubblici
I sindacati: «È una grande conquista»
Con i nuovi turni dei medici servirebbero 20 mila assunzioni. I rischi per la salute dei malati
di Giuseppe Remuzzi


Angela è molto malata, ha bisogno del suo dottore più che in passato. La portano in ospedale, «ancora un momento e comincerò a star meglio» pensa mentre è in ambulanza. Dopo le formalità dell’accettazione la portano in reparto. Il suo dottore lo incrocia sulla porta, entra, lui se ne va; dove? A casa, a riposare. Per la fatica? No, per legge.
Cosa sta succedendo? Vediamo. Fra qualche settimana i medici dovranno adeguarsi alla direttiva europea 93/104/Ce del 23 novembre 1993 modificata il 22 giugno 2000 «concernente alcuni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro». Com’è che a una direttiva del ’93 si dà seguito solo adesso? I dottori degli ospedali da quella direttiva sono sempre stati esclusi per deroga voluta dai governi che si sono succeduti da allora a oggi. Qualcuno però ha fatto ricorso e così l’Europa ha avviato per noi una procedura d’infrazione.
Per chi lavora in ospedale cambia tutto, a partire dalle norme che regolano il turno di notte. Dopo la notte di solito si va a casa. Qualcuno a dire il vero restava in ospedale fino a mezzogiorno e anche di più per contribuire alle attività del mattino, specie se la notte era stata «leggera» e ci si era potuti riposare un po’. Tutto questo non si potrà più fare. Intendiamoci, che i medici debbano riposarsi dopo aver lavorato di notte è giusto ma la legge europea impone che chi lavora di notte debba starsene a casa anche prima di cominciare il suo turno, cioè ti chiedono di riposare prima di essere stanco e lo devi fare per 11 ore di fila. «Una grande conquista, tutela i diritti dei lavoratori» a detta dei sindacati. E si capisce. Ma nel nostro lavoro di diritti ce ne sono anche altri, quelli degli ammalati. Prendiamo un grande ospedale e riferiamoci, tanto per fare un esempio, a una divisione di Ematologia che cura 300 nuovi ammalati di linfoma all’anno, 80 di mieloma, 50 di leucemia acuta; per molti di questi ammalati la cura comprende anche il trapianto di midollo e quei medici ne fanno 110-130 all’anno. Poi ci sono i day-hospital per la chemioterapia (4-5 al giorno) e le visite ambulatoriali (25 mila all’anno). Per fare tutto questo 11 medici bastano appena, ma se ne togli due per un reparto così diventa quasi impossibile andare avanti. Non si potrà più accogliere tutti, qualche ammalato resterà senza cure e senza cure, di malattie così, si muore.
È solo un esempio, potrei parlarvi dei miei colleghi che fanno il trapianto di fegato ai bambini o di rene agli anziani o di quelli che lavorano in rianimazione o in dialisi. Con i turni imposti dalla legge si allungheranno le attese e gli ammalati dovranno vedere un medico sempre diverso e raccontargli ogni volta la loro storia e i loro problemi daccapo. È la cosa peggiore che ci sia. Per Anaao e Assomed basta assumere il «personale» che serve e si risolve tutto. Ma davvero il nostro Paese in questo momento si può permettere di assumere 20 mila medici in più? Non lo so, non penso. Se c’è il blocco del turnover e non si riesce a sostituire nemmeno chi è in congedo per gravidanza sarà per un problema di soldi. O no?
C’è una soluzione sola a me pare, fare quello che si può con le risorse che abbiamo e farlo nel miglior modo possibile. Perché uno che comincia il suo turno di guardia alle 8 di sera, la mattina non deve poter stare in reparto o fare il suo ambulatorio come abbiamo sempre fatto? O anche solo stare lì a studiare? Non si diventa bravi medici a giorni alterni e per fare bene il nostro lavoro bisogna studiare sempre, ci vuole passione e tanto tempo. E poi non siamo tutti uguali, non penso che debba stabilirlo la legge quanto si può o si deve lavorare. Per legge si dovrebbero dare indicazioni di massima che andrebbero applicate con un po’ di buon senso in rapporto alle circostanze e alle necessità. E poi lasciare che siano i medici e chi dirige gli ospedali a decidere cosa fare in una certa circostanza o in un’altra, i giorni nel nostro lavoro non sono tutti uguali. E poi lavorare in una sala operatoria dedicata a certi interventi complessi o occuparsi di malati di tumore è diverso che stare in un ambulatorio di dermatologia. Qualcuno dirà «la legge è legge e va rispettata». Davvero? Anche quando mette a rischio la salute della gente?

Corriere 1.11.15
Sicilia, una tragedia a statuto speciale
Paradossi. Illustri uomini dell’isola sono alla guida delle più alte cariche istituzionali del Paese, ma la Regione è vessata da scandali mafiosi e ritardi ormai cronici nelle infrastrutture Per favorire un nuovo senso di responsabilità e lo sviluppo bisogna mettere in discussione anche l’autonomia (che ha fallito)
di Aldo Cazzullo


Distratti dal penoso tormentone di Roma, quasi non ci si accorge della tragedia di una terra non meno importante nel definire l’identità del Paese, nel segnarne l’immagine all’estero, nel costituirne la grandezza e la miseria, il mito e il sangue: la Sicilia.
Parlare di tragedia non è eccessivo. L’ex governatore Cuffaro in galera per mafia. Il suo successore Lombardo sotto processo per mafia. Ma, quel che è peggio, l’alternanza politica non ha portato a un vero cambiamento nei costumi, nell’amministrazione, nella legalità. Le inchieste della magistratura stanno spazzando via la nuova classe dirigente dell’isola. Certo occorre attendere le sentenze definitive. Ma già uno dei simboli della lotta alla mafia, l’imprenditore Antonello Montante, è indagato per reati di mafia, l’ex presidente della Camera di commercio Roberto Helg è condannato in primo grado a 4 anni e 8 mesi per concussione, gli arresti si susseguono — da ultimo il presidente di Rete ferroviaria italiana Dario Lo Bosco —, l’impressione è che il peggio debba ancora venire; mentre Rosario Crocetta cambia giunta ogni sei mesi, affondando sempre più in una melma dove i veleni del passato si mescolano a un disastro amministrativo senza precedenti. Autostrade inaugurate decine di volte sono interrotte per il crollo di viadotti che nessuno ripara. Sulle ferrovie meglio tacere. Messina, una città di 240 mila abitanti, è rimasta senz’acqua per una settimana. A Palermo consiglieri regionali, che si chiamano l’un l'altro deputato e onorevole e guadagnano più di Obama e della Merkel, traghettano lo stesso sistema di potere da una legislatura all’altra, replicando il triste spettacolo di trasformismo che conferma la profezia di Tomasi di Lampedusa su un cambiamento destinato ad alimentare retoriche ma a non arrivare mai nei fatti. Neppure sfiorati dagli scandali, eppure impotenti di fronte a un disagio sociale giunto alla soglia della disperazione, i sindaci delle due grandi città, Leoluca Orlando ed Enzo Bianco: gli stessi di vent’anni fa. In queste condizioni, se si votasse domani i grillini vincerebbero a mani basse; e non ci si potrebbe proprio stupire.
Il paradosso è che la Sicilia non ha mai contato tanto nel Paese. Sono siciliani il presidente della Repubblica, il presidente del Senato, il ministro degli Interni, il commissario che governerà la Roma del Giubileo, lo scrittore più letto d’Italia (se è per questo, la letteratura del nostro Novecento da Pirandello appunto a Camilleri è soprattutto siciliana; e parlando di grandi artisti non si può dimenticare Franco Battiato, che si illuse all’inizio accettando di entrare nella giunta Crocetta per poi subito disilludersi). Ma non è in questione ovviamente l’importanza della Sicilia per l’Italia, né il talento del popolo siciliano. E neppure l’enorme potenziale di sviluppo, che fa ancora più rabbia. Un solo dato: la Sicilia ha circa gli stessi chilometri di coste delle Baleari, ma ha un decimo dei suoi turisti; mancano voli diretti per il Nord Europa, proprio in questi giorni in cui a Manchester, a Kiel, a Copenaghen, a San Pietroburgo è inverno, mentre a Palermo, a Catania, a Noto, a Pantelleria è ancora quasi estate.
Ma non ci si può limitare alla denuncia. E non è soltanto il governo centrale a dover intervenire con urgenza. La Sicilia deve riconquistare la sua centralità nel dibattito pubblico. E non dobbiamo aver paura di nulla, neppure di mettere in discussione cose all’apparenza scontate, come l’autonomia dell’isola, che all’evidenza ha fallito.
Tre siciliani di formazione e idee molto diverse — Pietrangelo Buttafuoco, intellettuale critico della destra italiana, Claudio Fava, tra i fondatori di Sinistra ecologia libertà e figlio di una vittima della mafia, Fabrizio Ferrandelli del Pd, unico a dimettersi dall’Assemblea regionale dopo l’addio di Lucia Borsellino alla giunta — hanno lanciato una campagna per superare lo statuto speciale e aprire una nuova stagione di responsabilità e sviluppo dell’isola. È un’ipotesi su cui confrontarsi seriamente.

Repubblica 1.11.15
Israele scende in piazza per dire stop all’odio Clinton: “Tocca a voi”
di F. S.


TEL AVIV. La piazza era colma quasi come in quel maledetto 4 novembre 1995, quando tre colpi di una Beretta 84F sparati da un estremista religioso misero fine alla vita del premier Yitzhak Rabin mentre lasciava un palco del tutto simile a quello eretto ieri sera per il ventesimo anniversario del suo assassinio, che ha significato forse anche la morte del processo di pace che lui stesso aveva avviato. Nessun simbolo politico né bandiere di partito nella piazza, svetta qualche cartello con un’unica parola: “Pace”. A ricordare venti anni dopo quel sogno forse infranto definitivamente gli amici di allora che furono con Rabin gli artefici di quella distensione che portò alla firma della pace alla Casa Bianca nel 1993. L’anziano presidente emerito Shimon Peres, che allora era ministro degli Esteri, l’ex premier Ehud Barak che quel testimone provò a raccogliere con scarso successo, l’ex presidente americano Bill Clinton. «Tocca a voi decidere se i rischi della pace sono inferiori a quelli che si corrono allontanandosi da essa — ha detto l’ex presidente Usa — ma dovete lavorare con i vostri vicini». Anche il presidente Barack Obama, che ha speso buona parte del suo doppio mandato alla ricerca di una spinta che potesse far ripartire il dialogo fra israeliani e palestinesi, ha voluto mandare un suo videomessaggio per dire che la speranza non è finita. Ad ascoltarli decine di migliaia di persone, tantissimi giovani e ragazzi che di quella stagione di speranze hanno solo sentito parlare.
Oggi, nel bel mezzo di una nuova protesta palestinese sanguinosa e violenta, sono in molti in Israele a chiedersi se la pace sarà mai possibile. Lo scontro sull’eredità di Rabin è ancora duro fra liberali e conservatori, laici e religiosi, ma nessuno sa davvero cosa sarebbe successo se Rabin fosse sopravvissuto ai colpi sparati da Yigal Amir, un giovane assassino arrivato dai ranghi più oscuri della religione, fatta di un’avanguardia di ebrei zeloti, elitari e fanatici, cresciuti in yeshiva isolate sulle colline della Cisgiordania. In quei mesi del 1995 l’opposizione guidata da Benjamin Netanyahu inscenava manifestazioni dove Rabin era ritratto con la kefiah palestinese o in uniforme nazista. Per i ferventi religiosi era un traditore da uccidere. Ma era quasi impensabile a quel tempo in Israele pensare che un ebreo potesse uccidere un altro ebreo. Gli estremisti religiosi minacciano ancora i politici, incitano alla violenza e attaccano ebrei laici e arabi. Puntano alto. Come al presidente Reuven Rivlin, che anche ieri sera ha denunciato il clima di razzismo e odio.

Repubblica 1.11.15
“Ti hanno ucciso, ma la strada dei due Stati è ancora aperta”
A 20 anni dall’omicidio che ha cambiato la storia del Medio Oriente, l’ex presidente Shimon Peres ricorda il Nobel


Caro Yitzhak,ilkiller non ha vinto il tuo sogno di pace è ancora vivo
VENT’ANNI sono passati da quando le tre pallottole di un ignobile assassino ebreo hanno spezzato la vita di Yitzhak Rabin, lasciando un vuoto enorme nel cuore del popolo. Ricordo quel momento come se fosse oggi. Ed anche il bagliore di speranza negli occhi delle decine di migliaia di cittadini, radunati nella piazza per far sentire il loro entusiastico appoggio contro la violenza e per la pace.
Ricordo il viso raggiante di Yitzhak, il tremito nella voce mentre cantava insieme ad un pubblico entusiasta «lasciate sorgere il sole, cantate un canto alla pace».
Mi manchi, come manchi a tutti i cittadini dello Stato d’Israele e la tua mancanza è sentita ogni giorno, tutti i giorni. Manchi ai nostri figli, che non vogliono solo studiare, ma anche conoscere il significato di uno Stato ebraico e democratico. Manchi ai soldati e alle forze di sicurezza, che oggi sono dispiegati nelle strade del Paese, giorno e notte, per proteggere i nostri cittadini contro gli attentatori – sei stato per loro un simbolo di combattente senza macchia e senza paura.
Manchi alle madri e ai padri che hanno nostalgia di un leader come te e non hanno perduta la speranza in una vera pace.
I vicoli della Città Vecchia di Gerusalemme, nei quali hai marciato conducendo l’esercito ad una vittoriosa battaglia, oggi colano sangue, mentre le pietre del Muro del Pianto stillano lacrime. Lacrime di nostalgia e di afflizione. Ma nella Gerusalemme afflitta vive la speranza vera di Sion, il cui spirito resiste e porterà alla redenzione.
Anche oggi, Yitzhak, non possiamo né abbiamo il diritto di dimenticare l’incitazione selvaggia contro il primo ministro eletto, la violenza verbale rivolta contro il condottiero che aveva portato la vittoria.
Il tuo assassinio, Yitzhak – per un delitto nato fra di noi – è un segnale di avvertimento anche oggi: l’odio intestino gratuito è pericoloso quanto un’ostilità organizzata esterna.
Israele deve estirpare alla radice ogni fenomeno di assassinio a sfondo politico, sia che si tratti di un leader eletto, che di un semplice cittadino o di un bambino che non ancora assaporato la vita. Oggi, vent’anni dopo l’omicidio, affermo che il criminale che ha tentato di distruggere la democrazia israeliana e la speranza di pace è un assassino e non un vincitore. E questo assassino deve marcire in carcere fino al suo ultimo giorno.
Ti hanno ucciso, leader amato e fidato, ma la strada da te indicata rimarrà aperta e piena di vita. Dobbiamo continuare a costruirla e a rafforzarla per unificare il popolo, a percorrerla finché arriveremo alla meta e non andare per la strada dell’istigazione e della frattura.
Rabin sapeva che vi era gente che respingeva la sua linea politica, anche all’interno. Nemmeno per un momento pensò che leadership significasse arrendersi ai pericoli, agli attacchi, all’istigazione, offuscando l’obiettivo principale: il mantenimento di una maggioranza ebraica per garantire il futuro di Israele, in quanto Stato ebraico e democratico. Yitzhak Rabin è andato per la strada di Ben Gurion: sapeva che un leader non ha il tempo per rimandare decisioni. Il cavallo galoppante della storia non concede pause di convenienza.
Come Ben Gurion afferma nella sua eredità spirituale, che l’esistenza di Israele in quanto Stato ebraico e democratico ha la precedenza sul qualsiasi altra alternativa, sapevi anche tu che il nemico è il nemico e bisogna combattere senza compromessi il terrorismo omicida.
Ma sapevi anche che la pace si fa a dispetto delle difficoltà e proprio con i nemici. Eri convinto che il supremo interesse sionista e nazionale dello Stato d’Israele imponesse un compromesso territoriale, ma non un compromesso storico; che una soluzione fondata su due Stati nazionali per i due popoli fosse quella che ci può assicurare la maggioranza nel nostro paese ed il nostro futuro di stato ebraico e democratico, invece di un Paese che vive in situazione di perenne belligeranza.
Il governo Rabin è riuscito ad avvicinare l’uno all’altro i sui cittadini, ebrei, arabi, drusi, beduini, cristiani e musulmani. Ha fatto il possibile per incrementare l’uguaglianza ed il senso di comunità civile, ha investito risorse nelle infrastrutture del settore arabo, tendendo la mano alla coesistenza. Il governo ha portato allo stesso livello gli assegni famigliari destinati ai bambini, senza fare differenze di appartenenza etnica o religiosa. I rapporti di Yitzhak con gli Stati Uniti sono arrivati al loro apice, sia da parte dell’amministrazione americana, sia per l’appoggio bi-partisan offerto dai democratici come dai repubblicani. Molti paesi hanno imparato che, andando a Washington, conveniva passare da Gerusalemme.
Nell’ambito politico-diplomatico, durante il primo governo Rabin fu raggiungo l’accordo a interim con l’Egitto; durante il secondo, si arrivò al trattato di pace con il paese arabo a noi più vicino, la Giordania e furono poste le fondamenta per una soluzione basata su “due Stati per due popoli”. Il mondo ha portato rispetto ad Israele per la sua unicità, per la sua democrazia e per la sua rara combinazione fra coraggio militare, destinato alla difesa, e coraggio civile, destinato alla pace.
In questi giorni sentiamo la mancanza della leadership di Yitzhak, che sapeva che uno statista non si misura dalla propaganda, bensì dalla capacità di prendere decisioni giuste e coraggiose, anche se difficili. Una leadership in grado di risvegliare la speranza di pace in un popolo che vuole la pace. Il popolo ti ha amato, Yitzhak, ed anche i tuoi rivali hanno imparato, nel tempo trascorso da quando sei stato ucciso, che la tua leadership era giusta ed indispensabile e che la sua mancanza è sentita e risveglia una profonda nostalgia.
Il tuo percorso nella vita è ancora il nostro percorso e su questo continueremo ad avanzare, innalzando due bandiere sventolanti: la bandiera della sicurezza e la bandiera della pace.
(Traduzione di Mila Rathaus)

Il Sole 1.11.15
Yitzhak Rabin, 4 novembre 1995
La storia d’Israele si spezzò
L’omicidio del premier che trattò coi palestinesi segna un prima e un dopo nel Paese. «Pace», chi osa più dirlo oggi, ad alta voce?
di Giulio Busi


C’è una storia dei vivi, compiuta da chi lotta oppure fugge dagli eventi, e con le proprie scelte, o con i rifiuti, modifica il destino suo e quello di chi gli sta attorno. E c’è una storia dei morti, un racconto che comincia “dopo”, e che talvolta ha influsso profondo, sconvolgente.
Yitzhak Rabin, assassinato in una piazza di Tel Aviv il 4 novembre di venti anni fa, appartiene all’una e all’altra storia.
La sua vita di comandante militare, vincitore in guerra, e di politico di successo (fu due volte primo ministro), è piena, significativa, memorabile. La sua fine violenta non è solo tragedia privata e neppure un fatto pubblico che riguardi soltanto Israele, o il cosiddetto Medio Oriente. I tre colpi che il venticinquenne Yigal Amir gli scaricò addosso con la Beretta calibro 9, nella Piazza dei Re d’Israele, sono una frase, scritta alla fine del Novecento, in una lingua che in parte ci sfugge, ma che intuiamo grave, foriera di sciagura.
A giudizio di molti, quell’omicidio taglia in due, con un solco affilato, la storia israeliana. Significa la perdita d’innocenza, nel senso della compattezza e appartenenza a un “noi” solidale. Fino a quella sera di novembre, che un giovane ebreo potesse uccidere il primo ministro dello Stato ebraico era eventualità impensabile per quasi l’intero Israele.
In quel “quasi”, tuttavia, si nasconde una delle chiavi di lettura del sillabario di violenza che tanto fatichiamo a decifrare.
Quando premette il grilletto a distanza ravvicinata, Amir non era ai margini della società. Cresciuto in una famiglia di origine yemenita, aveva assolto il servizio militare in una unità d’élite, i Golani. Frequentava con profitto la Bar Ilan, università di prestigio. Per due anni, era stato studente di diritto, con buon successo. Certo, aveva idee politiche estreme. Secondo Amir, l’accordo con l’Olp, sottoscritto nel 1993 da Rabin e da Peres, ministro degli Esteri, equivaleva a un tradimento. La frustrazione s’era trasformata in lui in odio, l’antagonismo politico in desiderio di rivalsa. Bisognava fermare i traditori, sosteneva, e Rabin prima degli altri. Della sua intenzione di ucciderlo non faceva mistero. L’aveva detto al fratello, ad alcuni amici, se n’era vantato con qualche ragazza. L’aveva persino ripetuto a un informatore dei servizi di intelligence, infiltrato tra gli estremisti. Che ne prese nota, ma non approfondì le minacce. Dopo, durante l’inchiesta sull’attentato, sostenne di non aver creduto che Amir parlasse sul serio, che potesse davvero essere pericoloso. Parecchi hanno visto nel coinvolgimento di un uomo dello Shin Bet, l’agenzia per la sicurezza interna, e nell’inefficacia della prevenzione, un’omissione volontaria, o addirittura un complotto.
E pure, la decisione di trattare con Arafat aveva sollevato ondate di avversità. Le manifestazioni contro Rabin s’erano infittite. I cartelli lo ritraevano nei panni di Hitler o con la kefiah da palestinese: quello che era stato un eroe di guerra veniva ora svilito, in certi ambienti, come un nemico del proprio popolo. Yigal Amir non era l’unico ad augurarsi la fine violenta di Rabin.
A posteriori, dopo l’assassinio, si è cercato di dipanare la trama dei sospetti, e di ripercorrere il clima teso, di violenza verbale e fisica cresciuto in quei mesi. Per alcuni, e tra di loro Leah Rabin, la vedova di Yitzhak, quell’odio avrebbe sostanzialmente armato la mano dell’attentatore. Secondo altri, il dissenso, anche estremo, non significò in alcun modo la legittimazione di un omicidio, la cui responsabilità ricade solo su chi lo perpetrò, o ne fu complice.
Yigal Amir, condannato all’ergastolo, è ancora in carcere. Il fratello Hagai, ritenuto fiancheggiatore e complice, ne è uscito dopo aver scontato 16 anni. La sua pagina Facebook conta quasi duemila amici, il reinserimento nella vita quotidiana non gli è stato difficile.
La storia dei morti, quella narrazione oscura in cui Rabin campeggia con tanto, triste rilievo, ha valore anche, e soprattutto, per quello che non è stato, per ciò che la violenza ha reso impossibile.
Se Rabin non fosse stato ucciso, recita una variante di questa storia ipotetica, il processo di pace sarebbe continuato con efficacia, tanti lutti avrebbero potuto essere scongiurati.
È solo uno scenario non verificabile, che sconfina nel mito. Come accade nei miti, però, i non-morti, e la non-violenza, che la storia dei vivi ci ha negato, sono profondamente “veri”, ci turbano, ci sconsolano.
Nel suo ultimo discorso dal palco del raduno per la pace, pochi minuti prima di essere freddato, il vecchio soldato ripercorse le ragioni che l’avevano spinto a una decisione che, ben si capiva, gli era costata molto. Con la sua voce baritonale, in un ebraico semplice, di frasi brevi, chiare, quell’uomo schivo e introverso consegnò all’uditorio, e a noi, la sua vicenda personale. «Per ventisette anni, disse, ho combattuto perché non vedevo un’opportunità di pace. Ora, invece, la vedo».
Dopo un intermezzo, ecco una, tra le ragioni del compromesso. «Credo che la violenza mini i fondamenti della democrazia di Israele».
Pochi sono ancora convinti che la storia sia maestra di vita. E se anche lo fosse, insegnante di verità, deve aver avuto allievi ben cattivi.
Persino chi ritiene che Rabin, al di là della sua morte, si sbagliasse o s’illudesse, per ingenuità o per calcolo, può farla risuonare tra sé, quella parola, breve, rischiosa, a volte letale. «Pace», chi osa più dirlo oggi, ad alta voce?

Corriere 1.11.15
Che ruolo gioca la Turchia
Perché l’Europa, la Russia e i vicini guardano alle elezioni
10% La soglia di sbarramento che un partito deve superare in Turchia per entrare in Parlamento. In Germania è 5%, in Danimarca 2%
Test cruciale per il leader di Ankara
L’Occidente critica la deriva autoritaria, ma l’emergenza profughi rimescola le carte. E dà al Sultano un asso in più
di Elisabetta Rosaspina


ISTANBUL «Fareste meglio a occuparvi delle elezioni nei vostri Paesi»: a poche ore dalla chiusura della campagna elettorale, Recep Tayyip Erdogan, 62 anni, ha rimbalzato così le critiche della stampa estera e le preoccupazioni degli analisti e degli osservatori internazionali, che sospetta in blocco di oscure connivenze con «una mente suprema», diabolica e ostile a lui e al suo partito, l’Akp. Come presidente della Repubblica, al di sopra delle parti, Erdogan non dovrebbe intervenire nella campagna elettorale, ma nelle ultime settimane la sua presenza sugli schermi televisivi statali è dilagata, pari quasi a quella del suo partito, rispettivamente 29 e 30 ore in 25 giorni, mentre agli avversari sono rimasti i ritagli di tempo: 5 ore ai repubblicani del Chp, 70 minuti ai nazionalisti dell’Mhp, 18 minuti a quei «rompiscatole» dei filocurdi dell’Hdp che, da giugno, gli rompono le uova nel paniere.
La partita è troppo importante perché il Sultano la lasci giocare ai suoi gregari, cominciando da Ahmet Davutoglu, «il primo ministro stagista», come è beffardamente definito da internauti impudenti il candidato ufficiale del partito islamico della Giustizia e dello Sviluppo. Dai 175 mila seggi turchi, questo pomeriggio, non uscirà soltanto un verdetto sui precari equilibri interni del Paese, ma sul futuro di tutta la regione: questione ben chiara nelle cancellerie europee, alla Casa Bianca come al Cremlino. Chi governerà la Turchia nei prossimi quattro anni dovrà, innanzitutto, riuscire a restare in sella a una nazione divisa, sempre più irrequieta e insofferente; e, nello stesso tempo, pilotare con mano ferma i compiti militari e politici che il resto del mondo si attende da Ankara, spesso a dispetto anche degli umori popolari.
Il prezzo della stabilità
Sarà una responsabilità, ma anche una grande fonte di potere, che Erdogan non intende cedere o delegare a nessuno. «La stabilità sono io — ha messo in chiaro Erdogan con Angela Merkel, venuta a visitarlo un paio di settimane fa —. Io e soltanto io». Forse le parole rivolte alla cancelliera tedesca non erano esattamente queste, ma il senso, sì: solamente un governo monocolore può reggere il timone della barca nel mare in tempesta, non certo il caos di una cogestione in cabina di comando. Ed è meglio che la barca non si rovesci, anche per la tranquillità dell’Europa dove potrebbero approdare in massa buona parte dei 2 milioni e 138.977 rifugiati siriani ospitati dalla Turchia a un prezzo quasi insostenibile per le sue casse: 8 miliardi di dollari in poco più di 4 anni. All’Unione Europea — questo il pensiero che corre tra le cancellerie — non conviene tirare troppo la corda su «quisquilie» come la democrazia o la libertà di stampa, se alla Germania 125 mila profughi sembrano già troppi, o alla Serbia, 109 mila, o alla Svezia, 83 mila, o all’Italia, 2.200.
La scommessa sbagliata
E Bruxelles pensi piuttosto a dividere le spese. Neppure Erdogan, sui conti in tasca agli altri, si è dimostrato molto forte: «Sulle primavere arabe, anzi, ha proprio sbagliato — riflette il professore di Relazioni Internazionali all’Università Bilgi di Istanbul, Ilter Turan —. Ha pensato che i cambiamenti in Egitto o in Siria fossero irreversibili e ha preso posizione contro Assad, con il quale aveva buone relazioni. O ha accolto gli oppositori del regime iracheno di al-Maliki. La Turchia si è intromessa in conflitti interni di altri Paesi. Una scelta pericolosa, che non ha affatto rafforzato il suo ruolo strategico nella regione» .
Neanche il legame con Mosca è solido: «Con la Russia c’è un rapporto ambivalente di dipendenza reciproca ma anche di divergenza, soprattutto per quanto riguarda la lettura della guerra in Siria. Erdogan e Putin hanno in comune soprattutto un’idea di governo», valuta il docente.
L’Occidente
L’Isis, la lotta al terrorismo, la questione curda, l’emergenza degli sfollati di guerra: non sono temi che riguardano l’Occidente? «Sì, ma non per questo la Turchia assumerà una posizione di potere permanente. Serve nei negoziati, è un fatto di cooperazione internazionale. L’Europa non considera la Turchia una parte inseparabile, accusa la deriva islamista del governo, ma non ha fatto molto per fermarla. Chiedete a Angela Merkel o a Nicolas Sarkozy», suggerisce il professor Turan.

La Stampa 1.11.15
Far votare i profughi siriani
L’ultima mossa di Erdogan
Turchia oggi alle urne: distribuite migliaia di carte di identità
di Maurizio Molinari


La Turchia torna oggi al voto nel diffuso timore di «brogli» e «trucchi» da parte del partito di Recep Tayyp Erdogan determinato a ottenere la maggioranza assoluta che gli sfuggì cinque mesi fa.
Seggi presidiati
Il Partito democratico del popolo (Hdp), sorpresa delle ultime consultazioni, afferma che molti dei suoi osservatori incaricati di presidiare i seggi nelle province in bilico «sono stati arrestati» mentre gli altri due partiti d’opposizione, i repubblicani (Chp) ed i nazionalisti (Mhp), hanno assegnato a un totale di un milione di iscritti il compito di «presidiare i seggi» per impedire ai funzionari dell’Akp il partito del presidente di «manomettere il risultato». Sul fronte opposto anche l’Akp parla di «frodi» e «coercizioni» possibili, dentro e fuori i seggi, imputandole come afferma il vice-premier Yalcin Akdogan a imprecisati «nemici della Nazione» con un vocabolario che evoca i «terroristi del Pkk e di Isis» bersaglio di molteplici operazioni militari e arresti in tutto il Paese.
Dietro il duello di denunce preventive su possibili brogli c’è la lotta all’ultimo voto da cui può dipendere il risultato e la fine dell’era Erdogan: se il 7 giugno l’Akp mancò, per la prima volta dal 2002, la maggioranza assoluta in Parlamento fermandosi al 40,9% dei voti, questa volta la differenza può dipendere da un margine minimo di preferenze fra lo 0,1 e lo 0,3 conquistate da uno dei quattro maggiori partiti in lizza. Gli ultimi sondaggi disponibili danno l’Akp del premier Ahmet Davutoglu ancora lontano dal quorum di 276 deputati e questo spiega perché nella piazza Taksim di Istanbul i giovani dell’Hdp abbiano dei chioschi mobili, dove cantano e ballano in attesa di un risultato destinato «ad aprire una nuova stagione per il nostro Paese» come afferma Sali, 29 anni.
Kemal Kilicdaroglu, leader dei repubblicani eredi del padre della nazione Ataturk, ritiene che «a urne chiuse l’Akp sarà obbligato a dividere il potere come in questi cinque mesi Davutoglu si è rifiutato di fare» e offre da subito la disponibilità ad un «governo di coalizione nazionale». Ma Erdogan, capo dello Stato e leader assoluto del partito islamico Akp, spera di farcela nelle urne ad incassare la «super maggioranza» grazie all’«alta affluenza» prevista da tutti gli osservatori.
Fra i rifugiati a Istanbul
Per capire di cosa si tratti bisogna entrare nella Chiesa armena di Meryem Ana a Samatya, un angolo di Istanbul popolato da rifugiati siriani in fuga dalla guerra civile che in molti casi hanno carte d’identità turche nuove di zecca. «Grazie a questi documenti potranno votare afferma uno dei sacerdoti armeni di Meryem Ana, chiedendo l’anonimato e indovinate a chi daranno la preferenza?». L’ipotesi di un massa di voti di profughi siriani a favore del partito Akp, soprattutto nei distretti del Sud dove sono concentrati, fa dire a Enes, trentenne militante dell’Hdp seduto ad un tavolino di «Gedliki» a Nisantasi, che «Erdogan è disposto anche a far votare chi non è turco pur di continuare ad occupare il nostro Paese».
Il resto è nei numeri del dispiegamento di forze militari: 255 mila soldati e 130 mila poliziotti per «proteggere le elezioni da chiunque tenterà di influenzare le opinioni dei votanti» promette Akdogan.

Repubblica 1.11.15.
La scrittrice
È incredibile quanto sia cambiato questo Paese con il Sultano ma l’opposizione c’è , io continuo a sperare
Vogliono schiacciare la nostra libertà ma non riusciranno a spaventarci
di Esmahan Aykol


TEZER ÖZLÜ, la scrittrice, una volta disse: «Questo Paese non è la nostra patria: è la patria di quelli che vogliono ammazzarci ». Lo scrisse in una lettera subito dopo il massacro di piazza Taksim nel maggio del 1977, quando 34 persone furono uccise. Ancora oggi, nessuno degli autori di quella strage è stato catturato e processato.
Dopo le ultime elezioni, a giugno, più di settecento persone sono state uccise in attentati terroristici, o dalle forze di sicurezza turche o dai guerriglieri curdi del Pkk. Recentemente, il 10 ottobre, abbiamo assistito al peggiore attentato terroristico di sempre, quando due attentatori suicidi di Adiyaman, nel Kurdistan, a quanto pare membri dello Stato islamico, hanno ucciso 102 persone, in prevalenza di etnia curda, nel corso di una manifestazione per la pace ad Ankara. Le bombe sono cadute su ragazzi, su persone che cantavano per la pace… Dopo che le notizie hanno cominciato a circolare, il Governo, nel tentativo di coprire le sue negligenze, ha imposto un blackout mediatico sugli attentati di Ankara: ma non ha cambiato granché, visto che viviamo in un costante blackout mediatico a causa della censura. La nostra fonte di informazione più preziosa, come al solito, è Twitter, e quei pochi giornali di sinistra e filocurdi che hanno dichiarato di non voler rispettare il divieto. Secondo queste notizie, lo Stato aveva indizi a sufficienza sugli attentatori. Erano sulla lista dei soggetti pericolosi dell’Organizzazione nazionale di intelligence, il Mit, e anche la polizia li conosceva. Hanno semplicemente deciso che non gli importava? In un Paese dove tutto l’apparato statale, con i tribunali, i servizi segreti, le forze di polizia e l’esercito, è mirato a un unico scopo, mantenere al potere un unico uomo, è possibile.
Ma è ancora peggio di così. Tayyip Erdogan e il suo partito, gli islamisti dell’Akp, hanno creato un clima politico che sta legittimando la violenza contro gli oppositori del loro Stato di polizia. Lo Stato sta diventando sempre più violento verso i curdi, visti come il pericolo politico maggiore, e gli scontri con la guerriglia curda del Pkk sono la principale fonte di violenze nelle province curde.
Non ci siamo ancora ripresi dallo shock della strage di Ankara, ed è facile perdere il controllo sentendo Erdogan che dice: «Se date la colpa a me, siete con i terroristi». Stiamo tutti cercando di mantenere la calma e non perdere la speranza fino alle elezioni che si terranno oggi. I sondaggi sembrano indicare che il 1° novembre ci troveremo con una situazione del tutto simile a quella che già abbiamo, con nessuno dei partiti che avrà la maggioranza sufficiente per formare il Governo da solo. Anche solo un piccolo calo dei consensi per l’Akp (che ha preso il 40,9 per cento alle elezioni di giugno) avrebbe un impatto psicologico enorme.
È incredibile quanto è cambiato il Paese nei tredici anni di potere incontrastato dell’Akp. I mezzi di informazione sono stati sistematicamente messi a tacere, giornalisti e oppositori sono stati incarcerati, il sistema scolastico è stato trasformato, convertendo molte scuole pubbliche nelle cosiddette imam-hatip, scuole professionali che formano imam per le moschee. Tayyip Erdogan e l’Akp si sono creati il proprio elettorato, negli ultimi tredici anni. (Alle elezioni del 2002, l’Akp aveva preso il 34,63 per cento dei voti: dopo, la percentuale è cresciuta a ogni elezione.) Ci sono margini, quindi, per sperare che le cose cambino in meglio.
Tezer Özlü aveva ragione: la Turchia è la patria di molti che vogliono ammazzarci. Ma com’è scritto su un enorme cartello che ho visto l’altro giorno appeso in una stradina di Beyoglu, a Istanbul: «Siamo in lutto. Non siamo spaventati».
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere 1.11.15
La Francia di Vichy Le due anime del regime
risponde Sergio Romano


Leggendo il bellissimo libro di Irène Némirovsky, Suite francese , mi è sorto un dubbio su quello che fu realmente la Francia di Vichy durante la guerra. Potrei conoscere il suo parere?
Franco Federici

Caro Federici,
Vi furono nella Francia di Vichy e fra i suoi maggiori esponenti almeno due correnti. La prima, più moderata e pragmatica, pensava che la Germania avrebbe vinto la guerra e che la Francia avrebbe conservato, almeno in parte, il suo antico status europeo soltanto se avesse saputo trovare formule di convivenza con il vincitore. La seconda apparteneva a quella parte della società francese che attribuiva la sconfitta ai vizi e alle colpe di una repubblica rissosamente parlamentare, teatro di scandali affaristici, laica, blasfema e massonica. Molti intellettuali pensavano che soltanto un regime autoritario d’ispirazione fascista e nazista avrebbe curato i suoi mali. Entrambe queste correnti erano convinte che il rischio maggiore per la Francia e l’Europa fosse il contagio bolscevico e che soltanto la Germania avesse i mezzi per estirpare il male.
Fra queste due correnti vi erano divergenze che sarebbero diventate, col tempo, sempre più palesi. Ma il prestigio nazionale del maresciallo Pétain le persuase, per almeno due anni, a lavorare insieme. La collaborazione divenne più difficile grazie alla evoluzione della guerra. L’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, nel giugno 1941, liberò i comunisti francesi dalla condizione equivoca in cui avevano vissuto sino a quel momento. Non più costretti a tenere conto dei rapporti d’amicizia che il Patto Molotov-Ribbentrop dell’agosto 1939 aveva creato fra il Reich e l’Urss, poterono schierarsi risolutamente contro l’occupante. Cominciarono allora gli attentati, i boicottaggi, le operazioni di guerriglia e, naturalmente, le rappresaglie tedesche: un meccanismo che ebbe l’effetto di ingrossare gradualmente le file della Resistenza.
La Germania intanto cominciava a registrare in Russia e in Africa del Nord le sue prime sconfitte. Stalingrado ed El Alamein persuasero parecchi collaboratori di Vichy a staccarsi dal regime per riporre le loro speranze nelle Forze francesi libere del generale de Gaulle. Nel campo filo tedesco accadeva esattamente l’opposto. Ormai legati alla sorte del regime, i più accaniti collaborazionisti si battevano anche e soprattutto per se stessi. Si costituì una Divisione Charlemagne, composta da volontari che combatterono sul fronte russo e più tardi a Berlino durante gli ultimi giorni del Reich. Nacque il 30 gennaio 1943 una Milice française che aveva per compito principale la caccia ai resistenti. Nell’ultima fase del regime di Vichy si combatté in Francia una guerra civile, simile per molti aspetti a quella che si combatteva negli stessi mesi in Italia.

La Stampa 1.11.15
Sinatra chiese alla mafia di uccidere Woody Allen
Un libro rilancia l’accusa
È una biografia del regista che sta per uscire negli Usa
di Vittorio Sabadin


Il cantante Frank Sinatra avrebbe chiesto nel 1993 alla mafia di uccidere Woody Allen per punirlo dell’oltraggioso comportamento del regista nei confronti della compagna Mia Farrow, che aveva scoperto la relazione con la sua figlia adottiva Soon-Yi.
La Farrow, che era stata sposata per due anni con Sinatra, lo aveva chiamato disperata per chiedergli aiuto e The Voice, il cui carattere non ammetteva mezze misure, aveva contattato gli amici del Mob perché gli dessero una bella lezione, o magari qualcosa di più.
La clamorosa rivelazione è contenuta nel libro di David Evanier Woody, The Biography, che uscirà negli Stati Uniti fra una settimana e del quale il Daily Mail ha avuto una anticipazione. Evanier, che si dichiara un ammiratore di Woody Allen, afferma di avere avuto accesso a testimonianze raccolte in ambienti vicini alla mafia e tra attori e registi di Hollywood.
La stessa Mia Farrow, nella causa contro Allen per le molestie a Soon-Yi, aveva testimoniato che un suo ex marito aveva proposto di fare spezzare le gambe al regista, ma non aveva specificato se si trattava di Frank Sinatra o del compositore André Previn, con il quale aveva adottato la bambina coreana. Subito dopo, aveva comunque detto al giudice che «si trattava solo di uno scherzo».
La Farrow ha sempre descritto Frank Sinatra come un grande tenerone, che nascondeva un carattere dolce dietro a una maschera da duro. Lo definiva un campione della «Sicilian propriety», la decenza e il decoro siciliani che si basano su di un particolare senso della giustizia e non sopportano gli oltraggi. Nel suo libro, Evanier cita la testimonianza di Len Triola, un produttore di concerti, che ripete quanto gli aveva detto il cantante Frankie Randall: il suo grande amico Sinatra era davvero deciso a tutto e ripeteva in continuazione che desiderava di vedere Woody «rubbed out» (cancellato, ucciso, nel gergo della criminalità) e «clipped» (tagliato, eliminato).
Ol’ Blue Eyes era furibondo per come Woody Allen si era comportato e per le foto pornografiche Polaroid di Soon-Yi che la Farrow diceva di avere trovato nel suo studio. E poi aveva sempre sospettato che Woody avesse voluto prendersi gioco di lui con il personaggio di Lou Canova, il cantante vicino alla mafia protagonista del film del 1984 Broadway Danny Rose. In ogni caso, anche se avevano divorziato ormai vent’anni prima, Frank era ancora molto legato a Mia Farrow. Ogni giorno telefonava a tre persone: a sua moglie, a sua figlia Nancy e a Mia.
Frank avrebbe dunque chiamato i vecchi amici di Las Vegas, scoprendo però che molti erano morti o erano in prigione. I nuovi capi non erano disponibili a un’azione così clamorosa, che avrebbe portato solo guai: non si uccide un regista famoso perché tradisce la moglie, anche se lo fa con la figlia adottiva. Woody Allen, che è accusato dalla Farrow di avere molestato anche un’altra figlia adottiva, Dylan, ha sempre avuto con le donne rapporti molto più complessi di quelli che ci mostra nei film. Si è sposato la prima volta a 20 anni, ancora vergine, e ha divorziato da due mogli prima di incontrare Diane Keaton, con la quale ha avuto una relazione, e Mia Farrow, che non ha mai sposato ma che è stata la sua compagna per 12 anni.
Si dice che abbia ripetutamente tradito ogni donna con la quale è stato e la sua relazione più seria si è alla fine dimostrata proprio quella con Soon-Yi, che ha sposato nel 1997 e che è ancora sua moglie. Ma, in fatto di tradimenti, forse anche Mia Farrow ha qualcosa da farsi perdonare: il figlio che ha avuto quando stava con Woody, Ronan, ha due bellissimi occhi azzurri e ancora si discute se somiglino a quelli del regista o a quelli di Ol’ Blue Eyes.

La Stampa 1.11.15
Se una bistecca può mettere fine all’India pluralista
di Roberto Toscano


Agenti di polizia fanno irruzione nelle cucine di un ristorante per verificare se vi si cucina un alimento proibito. Siamo forse nella Ginevra di Calvino, un regime di «dittatura contro il peccato» in cui si reprimeva ogni segno di edonismo non solo sessuale, ma anche estetico e gastronomico? O forse nell’Arabia Saudita contemporanea, dove gli agenti del «Comitato per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio» sorvegliano e colpiscono i comportamenti devianti dei sudditi del regno?
E invece no. Siamo nell’India contemporanea, nell’India democratica.
È accaduto la settimana scorsa a New Delhi, dove l’operazione di polizia ha interessato la sede di rappresentanza dello Stato del Kerala nella capitale federale.
Gli agenti intervenivano dietro segnalazione di uno dei movimenti dell’induismo radicale, l’Hindu Sena, secondo cui nel ristorante della «Kerala House» si sarebbe servita carne bovina.
Niente di nuovo, si potrebbe dire. Sono molti gli Stati indiani in cui la macellazione dei bovini è proibita, e fra l’altro la stessa Costituzione indiana, al suo articolo 48, stabilisce che lo Stato, nel quadro dell’impegno per sviluppare agricoltura e allevamento, «prenderà misure tese a proibire la macellazione di vacche e vitelli». Finora tuttavia questa proibizione risultava tutt’altro che universale, con Stati (fra cui, incidentalmente il Kerala, che oggi protesta per l’incursione nella sua sede della capitale) e riferita alla macellazione piuttosto che al consumo. In alcuni Stati, infatti, la vendita di carne bovina è libera purché la macellazione sia avvenuta altrove, mentre spesso nei menù dei ristoranti il manzo viene presentato, spesso in modo fraudolento, come bufalo – che non rientra nella proibizione. Ma soprattutto proibizione teorica e prassi tollerante tipiche di un Paese così vasto, variegato, plurale – rendevano finora la questione più simbolica e teorica che pratica.
Da quando invece Narendra Modi si è insediato nella carica di Primo ministro le cose sono profondamente cambiate. Modi non è solamente leader del Bjp, partito di centro-destra, ma milita fin dall’adolescenza in un movimento integralista, l’Rss, la cui ideologia, l’«Hindutva», si basa sulla pretesa non solo di imporre al Paese l’egemonia politica dell’induismo, ma anche di uniformarlo ai canoni etici e ai precetti, comprese le proibizioni alimentari, della tradizione indù.
Gli equilibri, fatti di decentramento e tolleranza, che hanno finora permesso la continuazione e la vitalità della straordinaria scommessa della democrazia indiana, risultano oggi minacciati da una spinta all’uniformità che può solo essere portata avanti con l’autoritarismo e la repressione. Il Chief Minister (governatore) dello Stato di Haryana, lo ha detto senza equivoci: «I musulmani possono continuare a vivere in questo Paese, ma dovranno rinunciare a mangiare carne bovina».
Il Primo ministro Modi evita di usare linguaggi analoghi, e continua invece a focalizzarsi sull’economia, contando sull’appoggio della classe imprenditoriale, frustrata dalla inettitudine politica degli ultimi governi del Partito del Congresso. Ma la sua presenza al vertice del Paese ha dato un segnale non equivoco ai militanti, anche quelli più violenti ed estremisti. Si sentono autorizzati, ad esempio, a condurre campagne di mobilitazione per esigere di estendere la proibizione della macellazione dei bovini agli Stati non-proibizionisti, e soprattutto ad esasperare la questione facendo montare il fanatismo popolare. Le conseguenze sono evidenti, e tragiche. Il mese scorso un musulmano è stato linciato in un villaggio a pochi chilometri di distanza dalla capitale perché qualcuno ha denunciato che nel suo frigorifero c’era carne di vacca. Un’atrocità che Modi ha tardato a condannare, e che evidentemente vorrebbe minimizzare, mentre episodi analoghi di violenza omicida vengono segnalati in altre parti del Paese.
L’offensiva induista si estende anche ad altri campi, come la campagna per la «conversione di ritorno» all’induismo che prende di mira musulmani e cristiani. Per i radicali dell’Hindutva è oggi possibile ristabilire, con una miscela di incentivi e pressioni, l’omogeneità religiosa indiana – secondo loro storicamente spezzata dalla violenza degli invasori musulmani e successivamente dal proselitismo, in un contesto coloniale, dei missionari cristiani. Si tratta di un disegno basato, come sempre accade nelle narrazioni integriste, su una memoria storica più mitica che reale, dato che ad esempio l’islam si è diffuso in India a partire dai porti del Sud per l’influenza dei mercanti arabi prima che dal Nord del Paese come effetto delle invasioni musulmane. Inoltre la versione monolitica dell’induismo proposta (e imposta) dai militanti integristi dell’Hindutva non corrisponde alla verità storica di una spiritualità variegata e plurale capace di abbracciare edonismo e ascetismo, tradizioni locali fra le più varie, forti differenze nel rituale e nella mitologia. L’induismo dell’Rss, oggi in fase di offensiva politico-ideologica, è invece una versione che viene, paradossalmente, dalla rivisitazione ottocentesca del colonialismo britannico, da una sorta di assimilazione con le religioni abramiche: lo dimostra la proposta di alcuni intellettuali induisti secondo cui, al posto della grande ricchezza di testi che caratterizzano la tradizione indù, andrebbe privilegiato e promosso dal punto di vista dottrinale e pedagogico un solo «Libro Sacro», il Bhagavad Gita.
Proprio perché questa offensiva politica e di potere s’intreccia con dati che si riferiscono alla storia e alle idee, lo scontro vede oggi in prima linea il mondo intellettuale. Storici, scrittori, artisti, gente del cinema, si stanno mobilitando per opporsi a una deriva che minaccia di distruggere la grande creazione politica di Gandhi e Nehru: l’India plurale, democratica, profondamente religiosa ma laica.
La più recente presa di posizione è quella di oltre cento scienziati, che hanno denunciato «la promozione di un pensiero irrazionale e settario da parte di importanti esponenti del governo». Lo scontro, in India, sta diventando sempre più aspro, con episodi di squadrismo induista contro esponenti del pensiero laico e liberale, e anche casi di omicidio politico.
I democratici indiani, e non solo gli intellettuali, temono oggi che l’India – come risultato dell’offensiva politico-culturale dell’induismo integrista diventi sempre più simile a un «Pakistan indù», ovvero un Paese dove la presenza di una religione di Stato rende impossibile un autentico pluralismo – anzi, la stessa democrazia.

Corriere 1.11.15
L’obiettivo di vivere sempre più a lungo
di Danilo Taino


Le aspettative di vita crescono in tutto il mondo: medicina e conoscenza stanno facendo passi avanti straordinari. Ma cosa succederà se a un certo punto la scienza inizierà a correre più dell’invecchiamento? Vivremo per sempre? La generazione fortunata che assisterà all’allungamento delle aspettative di vita più veloce del ritmo al quale si muore, raggiungerà l’immortalità? La questione è stata posta da uno studente di 17 anni, Henry Cole, alla rivista Significance , bimestrale della britannica Royal Statistical Society e della American Statistical Association. La risposta è che per ora aumenta la media di quanto vive la popolazione: altra cosa è il limite massimo di età raggiungibile, il quale non ha dato segni di cambio significativi.
   Sulla base di quello che si sa ora — ma la medicina può produrre salti di paradigma oggi non valutabili — Significance ricorda alcuni studi basati sulla teoria dei valori estremi, una branca della Statistica che si occupa dei valori molto grandi o molto piccoli ai due estremi di una scala di distribuzione delle probabilità. Uno studio condotto in Olanda una ventina d’anni fa ha stabilito che l’età massima raggiungibile varia tra 113 e 124 anni. Il record di durata, in effetti, appartiene a una signora francese morta nel 1997 «all’età di 122 anni e 167 giorni », Jeanne Louise Calment. Uno studio sull’età dei decessi in Gran Bretagna guarda invece alla tendenza e indica che il tetto finale non è cambiato molto negli scorsi 50 anni, semmai si è un po’ abbassato: nel 1961 era 109-115 anni per gli uomini e 109-111 per le donne, nel 2011 di 110-112 anni per i maschi e di 108-109 per le femmine.
   Ciò che è aumentato non è il numero di anni di vita possibile ma il numero di persone che si avvicina a questo estremo. Sempre nel Regno Unito, nel 1961 solo il 5,59% delle donne morte aveva raggiunto e superato i 90 anni. La quota è salita al 10,5% nel 1981 e al 25,5% nel 2011 . Il trend è simile per i maschi anche se su percentuali inferiori. La statistica ci dice insomma che la tendenza media a vivere più a lungo è un dato di fatto e che ci sono ottime probabilità che la quota di ultranovantenni cresca ulteriormente. Ma chiarisce che sull’immortalità, al momento, non ci sono svolte significative. Anche a Henry Cole, non dà molte probabilità di superare i 120: il diciassettenne può solo sperare nella meravigliosa imprevedibilità statistica della scienza.

La Stampa 1.11.15
Addio a Sergio Donadoni
l’archeologo che salvò Abu Simbel
È morto a 101 anni il grande egittologo. Con Curto recuperò i templi minacciati dalla nuova diga di Assuan

Spiegò che l’antico Egitto non fu una civiltà funerea
di Vittorio Sabadin


Sergio Donadoni, il più grande egittologo italiano, è morto ieri a Roma a 101 anni, gli ultimi dei quali segnati da un po’ di amarezza per lo sconfortante degrado al quale sono ridotte molte cose che amava. Era nato a Palermo il 13 ottobre del 1914 da una madre che insegnava inglese e da un padre, Eugenio, brillante storico della letteratura italiana che a 7 anni già gli faceva leggere l’Iliade. Avrebbe potuto seguire le orme paterne ed eccellere in qualunque settore del vasto mondo della cultura. Scelse l’antico Egitto perché sua madre un giorno lo accompagnò al British Museum di Londra, dove per la prima volta osservò da vicino le meraviglie di quella favolosa civiltà, nella quale «tutto sembrava costruito per essere eterno».
Conseguita la maturità a 16 anni, aveva vinto il concorso per entrare alla Scuola Normale di Pisa dove era stato accolto da Giovanni Gentile, amico del padre. Si era laureato nel 1934 con un altro grande egittologo, Annibale Evaristo Breccia, direttore dal 1904 del Museo Greco Romano di Alessandria d’Egitto. Dopo la laurea, due anni di borsa di studio a Parigi, i più formativi. Era la città di Jean-Francois Champollion, Auguste Mariette e Gaston Maspero, i tre mostri sacri dell’Egittologia, ma anche il luogo dove negli anni precedenti la guerra si radunava molta intelligenza europea. Donadoni divenne amico del fisico Bruno Pontecorvo, uno dei ragazzi di via Panisperna allievo di Enrico Fermi, e del filologo Gianfranco Contini, uomo di sterminate conoscenze. Uno degli incontri più importanti fu quello con Christiane Desroches, una grande donna conquistata all’archeologia dalla scoperta della tomba di Tutankhamon da parte di Howard Carter: fu la prima donna responsabile di uno scavo in Egitto e durante l’occupazione di Parigi fu lei a sottrarre ai nazisti i reperti egizi del Louvre, portandoli al sicuro nelle zone non occupate.
Quando Donadoni tornò in Italia, Breccia gli propose di sostituirlo al Museo di Alessandria. In Egitto, l’amore per i resti di quella grande civiltà divenne indissolubile. Andava in tram a Giza e da lì un altro tram lo portava nella campagna: al capolinea, le piramidi si stagliavano sullo sfondo, incorruttibili ed eterne. Fu lui a cercare per primo di smantellare l’immagine funerea dell’antico Egitto, sempre associata a tombe e mummie. Tutto quello che vedeva intorno a sé testimoniava intelligenza, cultura, vita.
Nel 1960, quando Christiane Desroches denunciò al mondo che la diga di Assuan avrebbe ricoperto di acqua i templi della Nubia e che bisognava fare qualcosa, Donadoni fu scelto come componente della commissione istituita dall’Unesco e lavorò per salvare i templi di Ellesija e di Abu Simbel con Silvio Curto, un altro grande egittologo scomparso a 96 anni un mese fa. Ha scavato ad Antinoe, a Medinet Madi nel Fayum e alla tomba di Sheshonq, raffinando le tecniche, l’organizzazione e il metodo. «Era un uomo – ricorda l’archeologo Alessandro Roccati, che ha lavorato con lui – di grande intelligenza e di grande apertura mentale. Sempre costruttivo, pronto all’amicizia piuttosto che alla rivalità. Per quasi un secolo è stato il decano degli archeologi, non solo in Italia, ma in tutta Europa». Sua moglie, Anna Maria Roveri Donadoni, è stata dal 1984 al 2004 sovrintendente del Museo Egizio di Torino, ma lui non ha mai voluto legarsi a una città particolare. Un anno fa, al compimento dei 100 anni, aveva raccontato in un’intervista del suo recente ritorno in Egitto e della ragione per la quale preferiva vivere di ricordi: «Ho visto solo desolazione. Lo dico con il cuore spezzato: che epoca è mai la nostra?».

La Stampa TuttoLibri 31.10.15
“Studenti, siete voi i giudici di Auschwitz”
da un’intervista di Primo Levi


Nel suo libro non si trovano espressioni di odio nei confronti dei tedeschi, né rancore, né desiderio di vendetta. Li ha perdonati?
«Come mia indole personale, non sono facile all’ odio. Lo ritengo un sentimento animalesco e rozzo, e preferisco che invece le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile, nascano dalla ragione (…) Proprio per questo motivo, nello scrivere questo libro, ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi». (…)
Come è possibile che il genocidio, lo sterminio di milioni di esseri umani, abbia potuto compiersi nel cuore dell’Europa senza che nessuno sapesse nulla?
«Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo ha molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al mondo di ieri presenta un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L’informazione è oggi «il quarto potere» (…) In uno Stato autoritario non è così. La Verità è una sola, proclamata dall’alto».
C’erano prigionieri che fuggivano dai lager? Lei perché non è fuggito?
(…) «I prigionieri che tentarono la fuga, per esempio da Auschwitz, furono poche centinaia, e quelli a cui la fuga riuscì qualche decina. L’evasione era difficile ed estremamente pericolosa: i prigionieri avevano i capelli rasi, abiti a righe subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e silenzioso; non avevano denaro, erano fisicamente debilitati, e in generale non conoscevano il polacco, che era la lingua locale».
Come si spiega l’odio fanatico dei nazisti contro gli ebrei?
«Forse quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: «comprendere» un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrebbe mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, e insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole e le loro opere non ci riescano più comprensibili. (…) Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare».

La Stampa TuttoLibri 31.10.15
Italo Calvino
“Alla fine del mondo con il Viaggiatore”
da un’intervista di Nico Orengo


Da quando è uscito Se una notte d’inverno un viaggiatore (Italo Calvino) appare rasserenato, ringiovanito, e dice che per la prima volta si sente contento. (…)
È vero (...) che il Lettore e la Lettrice a cui rivolgi apparentemente tante cure sono in realtà il Critico e la Critichessa?
«No, protesto. Il mio non è un libro fatto apposta per i critici. E d’altronde il fatto che l’accoglienza dei comuni lettori sia molto buona lo prova (80 mila copie in meno di un mese). Il tema del libro non è la semiologia o la narratologia ma il piacere di leggere un romanzo, il piacere di “vedere come finisce”. Ludmilla è una lettrice di romanzi che ha un suo spirito critico come tutti i veri lettori e di volta in volta corregge, precisa il suo gusto, esclude dei tipi di narrazione e ne cerca degli altri, ma sempre continua a credere a quel particolare rapporto che c’è tra il romanzo e il lettore». (…)
Immagina un lettore che non abbia mai letto nulla di tuo e cominci con questo libro. Accetti di farti conoscere da lui, senza maschere né difese?
«Credo che nel Viaggiatore un personaggio autobiografico non ci sia e che le mie preferenze e antipatie possono saltar fuori solo incidentalmente. Un giorno o l’altro mi deciderò a scrivere un libro direttamente autobiografico, o almeno a raccogliere schegge di “vissuto”. In realtà il Lettore in tanti suoi aspetti sono io». (…)
Per chi avesse nostalgia di un romanzo di Calvino tutto intero, vorresti raccontare la storia completa di uno dei dieci «incipit»?
«Il seguito di quelle dieci storie non lo so, però alcune in una prima stesura mi erano venute troppo brevi e ampliandole mi accorgevo che potevano andare avanti per la loro stessa forza interna. Alcuni poi (e qualcun altro l’ha notato) sono racconti chiusi in sé; non so se questo nel disegno del libro sia un fatto positivo o negativo. Tengo particolarmente all’ultimo, quello della fine del mondo per cancellazione, che mi pare sia proprio compiuto e voglia dire anche qualcosa». (...)
Anche «II castello dei destini incrociati»e «Le città invisibili»sono composti da una cornice più dei frammenti. Non ti senti schiavo di una formula?
«Bè... bè... no, anzi sento sempre di più il bisogno di costruire il libro come qualcosa di chiuso e se potessi cercherei di trovare delle cornici anche per tutti i miei racconti precedenti. Del resto Balzac, contemporaneamente al suo scrivere ininterrotto, progettava e riprogettava dei containers che erano gli schemi della Commedia Umana. Ma quello lì sì che era davvero uno scrittore produttivo... eh., eh... già».

La Stampa TuttoLibri 31.10.15
Josè Saramago
“Devo il Nobel ai nonni analfabeti”
da un’intervista di Paolo Collo


Sicuramente, per uno come José Saramago, parlare di «avventura della lettura» è quanto mai appropriato. Come potrebbe essere altrimenti per uno che nel 1998 si aggiudica il Premio Nobel per la Letteratura, ma che ha incominciato a diventare noto come scrittore solo dopo aver compiuto i 60 anni. Per uno che a Stoccolma ha il coraggio di dire: «L’uomo più saggio che io abbia conosciuto in vita mia non sapeva né leggere né scrivere. Alle quattro di mattina si alzava dal pagliericcio e usciva nei campi, portando al pascolo la mezza dozzina di scrofe della cui fertilità si nutrivano lui e sua moglie». Sono i suoi nonni materni, entrambi analfabeti. E nelle notti d’estate nonno Jerónimo (...) gli raccontava storie di leggende, apparizioni, spaventi, morti, zuffe, memorie… storie di avventure. (...)
Ma sentiamo lui, José Saramago, dall’alto dei suoi 80 anni, cosa dice se lo si interroga sulla sua «avventura della lettura». «È una lunga storia. Sono nato in una famiglia di contadini analfabeti, in una casa di campagna dove non c’era neppure un libro. Libri che fossero miei, in tutto una mezza dozzina, non li ebbi prima dei 19 anni, acquistati con i soldi che mi feci prestare da un amico… La mia prima “biblioteca” fu costituita da una “antologia”, un grosso libro di scuola del corso di portoghese grazie al quale incomincia a penetrare nell’ “intimo” la letteratura, leggendo racconti e poesie, brevi brani di romanzi. Dopo due anni di liceo, per le cattive condizioni economiche in cui versava la mia famiglia, dovetti iscrivermi a un istituto tecnico, dove frequentai un corso da serralheiro mecânico, professione che poi esercitai per un certo periodo di tempo. La mia “educazione letteraria” avvenne in una biblioteca pubblica di Lisbona, e sempre di notte, dato che durante il giorno dovevo lavorare. Non c’era nessuno che mi consigliasse cosa leggere e cosa non leggere. Per cui, per me, quella biblioteca fu come un’isola deserta dove, senza l’aiuto di nessuno, dovetti scoprire i percorsi migliori su cui incamminarmi. Leggevo anche cose che non capivo, ma ho sempre letto tutti i libri fino alla fine. E avevo 23 anni quando scrissi il mio primo romanzo».
Dai primi libri a oggi è cambiata la sua «avventura della lettura»? «Non è cambiata poi molto. Col passare del tempo sono diventato meno “vorace” ma quanto alle scelte che faccio continuo a essere molto “anarchico”. Di solito leggo contemporaneamente due o tre libri. Adesso leggo meno narrativa. Mi interessano di più i saggi, la storia, la filosofia, e cerco anche di avventurarmi sul terreno della scienza, in particolare dell’astronomia e dell’astrofisica. Credo che farei l’astrofisico se potessi reincarnarmi».

Repubblica 1.11.15
Storia
L’uso pubblico di una disciplina che resiste al caos della rete
di Giovanni De Luna


Uno storico che parla in prima persona, che si propone con la consapevolezza che i gesti e le parole sono parte essenziale della sua lezione esattamente come i contenuti che sviluppa, è uno che ha accettato di scendere nella grande arena dell’uso pubblico della storia, raccogliendo una sfida che ha come posta in gioco la capacità di costruire quelle rappresentazioni del passato in grado di diffondere sapere storico. Da questo punto di vista, sembra quasi che restituire una faccia e un corpo agli storici sia una reazione all’impalpabilità del web, a una virtualità che ha progressivamente disincarnato la storia per consegnarla in maniera confusa e dimessa al mondo piatto e grigio della rete.
Riguardo alla televisione, la rottura con i ruoli tradizionali è stata ancora più drastica. Gli inizi erano stati tutt’altro che promettenti, con l’accusa alla Tv di impoverire il senso del tempo e della storia nell’uomo moderno scagliata da chi vide (Mac Luhan) l’epoca del villaggio globale contrassegnata da una marcata contiguità tra luoghi e culture che in precedenza apparivano lontanissime tra loro, avviluppate da un tempo diafano, sottile, appiattito sull’istante, da consumarsi febbrilmente e voracemente. Questo non impedì ad alcuni storici prestigiosi di transitare direttamente dall’accademia ai palinsesti della Tv: in Francia, alla fine degli anni Settanta, Fernand Braudel e George Duby collaborarono assiduamente a fortunate serie televisive, ispirandosi ai temi della loro produzione scientifica. In quelle esperienze, però, non si avvertiva nessuna consapevolezza delle implicazioni insite nel passaggio dalla scrittura all’audiovisione: trasportare di peso nell’universo televisivo le regole stilistiche e argomentative del racconto scritto non era certamente la soluzione più adatta per alimentare un fecondo interscambio. I due mondi restarono sostanzialmente separati alimentando, da un lato, l’indifferenza o il disprezzo di quelli che consideravano l’apparire in Tv una gravissima infedeltà nei confronti della propria disciplina, dall’altro, il senso di delusione di quelli che avevano accettato di collaborare e che, abituati a comunicare attraverso la parola scritta, si erano trovati smarriti rispetto ad un altro tipo di linguaggio, fatto di immagini, parole, musica, e di un diverso senso del tempo e del ritmo.
Oggi tutto questo appare superato e tra gli storici si è diffusa la consapevolezza che si possa utilizzare anche la Tv per raccontare la storia in modo efficace e credibile. Consapevolezza confermata dal successo che ha una trasmissione come “Il tempo e la storia” che la Rai ha scelto di trasmettere su una rete generalista in una fascia oraria in precedenza occupata da una soap opera. La sfida per uno studioso è acquisire familiarità con le specificità del modello narrativo televisivo e confrontarsi con le possibili contaminazioni tra questo e quello del racconto storico tradizionale, in una sintesi che offra allo storico uno strumento originale, in grado di sciogliere le contraddizioni e i dubbi del passato. Il crocevia di questo passaggio sembra essere proprio la personalizzazione del suo ruolo. Perfino nei manuali (roccaforti della tradizione) sono comparse le fotografie degli autori, quasi a volere dare alla parola scritta il tono colloquiale e disteso dello studio televisivo e rendere riconoscibile un’autorialità anche fisicamente palpabile.
Resta una considerazione sul tributo che la storia e gli storici pagano a uno spirito del nostro tempo segnato da una progressiva individualizzazione delle forme in cui la cultura viene prodotta e viene consumata. La storia, uscita dall’accademia, si è imbattuta in questa deriva, ne è stata avvinta, conquistata e ha preteso che gli storici offrissero al pubblico anche i loro vissuti e la loro personalità. D’altronde lo aveva scritto tanti anni fa Edward Carr: leggendo un libro di storia occorre innanzi tutto prestare attenzione allo storico, per «sentire che cosa frulla» nella sua testa: «Se non sentiamo niente, o siamo sordi o lo storico in questione non ha nulla da dirci».
L’autore, storico, è consulente scientifico della trasmissione “Il tempo e la storia”

Corriere La Lettura 1.11.15
Sigmund Freud
Un drammaturgo erede di Shakespeare
La biografia di Freud di Élisabeth Roudinesco
L’uso della cocaina, le sfide feroci con i colleghi, le lettere alla moglie
Il mito dello psicoanalista oggi sopravvive ancora in talent e serie tv
di Giancarlo Dimaggio


Leggo l’ultima biografia di Freud con una domanda che mi risuona nella testa: cosa ha permesso all’immagine di quest’uomo di sopravvivere con tanto successo alle sue stesse idee? Perché se a X-Factor Mika si improvvisa psicologo, neanche male, Fedez commenta: «Gli è stato infuso qualche gene di Freud durante la notte da qualche alieno»? Lo osservo agire.
Freud che scrive lettere alla futura moglie Martha, protestando perché non sente il suo amore casto ricambiato con la stessa intensità. Freud che sperimenta la cocaina confidando di stare per compiere una scoperta scientifica rilevante. Freud e l’avversario, il nemico-amico di cui sempre avrà bisogno, un doppio nel quale specchiarsi e un traditore dal quale difendersi. Lo stampo: il nipote John, compagno di giochi dell’infanzia. L’esempio più compiuto: Jung. Quasi li vedo a Brema, nel 1909, pronti ad imbarcarsi alla conquista dell’America. Al ristorante, Jung interrompe l’astinenza dal vino dopo anni. Freud lo interpreta come un atto di fedeltà a lui. A cena Jung racconta di leggende: corpi mummificati di uomini preistorici. Freud per tutta risposta ha una sincope. Al risveglio, spiega a Jung e Ferenczi, uno dei suoi allievi più brillanti — la psicoanalisi di oggi gli somiglia — che il racconto indica come in Jung alberghi il desiderio di un figlio di uccidere il padre. Jung reagisce rabbiosamente: accusa Freud di delirare. Sulla nave continuano un gioco che mille volte ho visto fare nei primi anni della mia formazione: l’interpretazione reciproca. Non richiesta. Un modo raffinato di insultarsi. Jung racconta un sogno: due crani umani sul suolo di una grotta. Freud insiste: desideri la mia morte. Jung dissentiva. Si delineava la rottura. Freud che in quello stesso viaggio si diverte all’idea di come le sue idee sulla sessualità umana avrebbero scandalizzato gli americani, ai suoi occhi anime semplici e puritane. A Central Park Freud ha un problema urinario, cose che in viaggio succedono. Jung rintuzza e interpreta: desiderio di attirare l’attenzione.
Nella biografia scritta, con troppi dettagli, da Élisabeth Roudinesco, Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro , scene come queste si susseguono senza pause. La costruzione della «Società psicologica del mercoledì». Le battaglie intellettuali contro gli eretici: Adler, Reich. Il senso perenne della scoperta, il piacere della costruzione di un sistema di pensiero. La hybris del non volerla ricondurre ad altro: non psicologia, non neurologia, non semplice filosofia. Psicoanalisi. Aveva l’intelligenza e l’ambizione sufficienti, e il carattere testardo e tirannico lo aiutavano. La curiosità febbrile della scoperta di un mondo nascosto nei meandri dei lapsus e dei sogni delle sue pazienti isteriche. La convinzione di offrire una cura efficace, potente, inaudita.
Il ruolo di Freud nella psicoterapia moderna è diventato marginale. Molte correnti di psicoanalisi seguono pratiche lontane dal maestro. Le psicoterapie dinamiche, di matrice psicoanalitica, hanno riferimenti più freschi. Ero a Montreal il mese scorso, per il congresso sui disturbi di personalità — la diagnosi che riceverebbero oggi tanti dei pazienti da lui trattati. Nessun collega lo ha citato, neanche quelli che lavorano all’Anna Freud Centre. Per capire come curare l’animo si pesca in laghi diversi. La psicoanalisi è in crisi tremenda, di praticanti e di pazienti. Leggiamo i fenomeni clinici inforcando lenti differenti. Roudinesco riporta una delle osservazioni di Freud più studiate, il gioco «Fort-Da». Protagonista il nipotino Ernst, diciotto mesi. Quando la madre si assentava giocava col rocchetto legato alla cordicella. Lo lanciava emettendo un «ÔÔÔÔÔ» che significava «Fort», partito. Poi lo richiamava a sé con un «Da», ecco. Secondo Freud era un modo di padroneggiare il dolore, esprimere sentimenti ostili e vendicarsi della madre. Una spiegazione che ormai consideriamo contorta. Meglio leggerla nel linguaggio di John Bowlby, ideatore della teoria dell’attaccamento e psicoanalista mal tollerato dalla sua comunità quando emerse. Il bambino soffre, normalmente, per l’allontanamento della madre. Si arrabbia? Niente di strano se gli si toglie l’oggetto d’amore indispensabile. Il gioco del rocchetto simulava l’allontanamento della madre, la convinzione che la madre sarebbe tornata e la gioia anticipatoria. Poi la madre morirà. Il bambino ha bisogno di mantenere il legame simbolico. Allontana il rocchetto e lo recupera. Ha bisogno di farlo, il dolore della perdita è troppo intenso. E forse in famiglia non lo avevano aiutato a esprimerlo, ci chiederemmo con curiosità attuali.
Freud che si scontra con Pierre Janet, lo psicologo che prima di lui spiegò i sintomi isterici. Janet lo sfida nel 1913 a Londra: io ho formulato da anni i concetti di analisi psicologica e subconscio. E meglio. Janet è oscurato da Freud, diventa una nota a margine dei libri di psicologia per decenni. Bowlby faticò a restare nella società di psicoanalisi. Hanno avuto la loro rivalsa, la psicoterapia che pratichiamo è quella ispirata a Janet e Bowlby, molto più che a Freud.
A questo punto la domanda mi ritorna in mente. Come mai nessuno ha preso il suo posto nell’immaginario collettivo? Cosa ha permesso a Freud di sopravvivere alla messa in mora delle sue idee? Molte riposte possibili, nessuna decisiva. Una tra tante: Freud come erede di Sofocle e Shakespeare. La tragedia riscritta in forma di sistema di pensiero. Per dire, in linea ereditaria, dopo di lui c’è Il padrino . Ma il mondo dell’arte inizia a guardare altrove, anche se Woody Allen è produttivo, Bertolucci indimenticabile e Dalì contrabbanda sogni perturbanti negli studi professionali. Freud sopravvive ne In treatment — versione americana, i consulenti italiani non sono all’altezza del compito — storie di uno psicoanalista aggiornato che riesegue alcuni canoni dell’analisi classica (la serie televisiva, con Sergio Castellitto, è trasmessa da Sky).
Gli sceneggiatori aprono altri libri. Inside out , splendido: un trattato di psicologia cognitiva delle emozioni reso narrazione. Lie to me : le espressioni facciali tradiscono la verità, le emozioni non mentono. La teoria di Paul Ekman — e Darwin — diventata strumento investigativo. Criminal minds: analisi del comportamento psicopatico basato sulle scienze della personalità.

Corriere La Lettura 1.11.15
Antigone aveva torto
La donna che vuole seppellire il fratello opponendosi alla norma di Creonte ha attraversato i secoli
Nel Novecento è esploso il caso
L’appello al volere divino puà alimentare il fanatismo
Ma la difesa delle leggi rischia di sfociare nella tirannia dei valori
Soltanto il dialogo consente la convivenza
di Mauro Bonazzi


Uno spettro si aggira per l’Europa ma non è quello del comunismo: è quello di Antigone, l’eroina del mito, la compagna di chi oppone la propria coscienza all’oppressione del potere, la resistente. È un mito che ha attraversato indenne i secoli e che è esploso nel Novecento, nell’ora dei totalitarismi. Come ad esempio nella pièce di Bertolt Brecht, che ambientò la tragedia in una Berlino cupa, piena di SS, con i disertori impiccati per le strade, e Creonte intabarrato in un cappotto militare. Le due guerre erano state esperienze troppo dure: anche in un racconto di Marguerite Yourcenar le strade di Tebe tremavano al passaggio dei carri armati. Le forme di oppressione del resto sono molteplici: per il pensiero femminista Antigone è la rivendicazione dell’alterità femminile, irriducibile alle logiche del potere maschile. Altri avrebbero potuto celebrarla come la giovane che non accetta di sottostare all’eterno dominio delle vecchie generazioni.
La tragedia di Sofocle, il punto di riferimento per tutte queste riprese, racconta però una storia meno edificante, se si ha la pazienza di leggerla.
C’è stata una guerra. Eteocle ha salvato la città sacrificando la vita in un combattimento mortale con il fratello Polinice, il traditore della patria. La decisione del nuovo sovrano, Creonte, è prevedibile: il primo sarà seppellito con tutti gli onori, la memoria del secondo sarà esecrata con la proibizione che sia seppellito nei confini della città. Tutti quelli che depongono corone di fiori il 25 aprile capiscono perché; e con loro il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, quando decise che il cadavere di Osama Bin Laden fosse gettato in mezzo al mare per evitare che la sua tomba diventasse meta di pellegrinaggio. I morti contano.
Ma Antigone rifiuta e seppellisce il fratello. Perché? Dubbi non ce ne sono. Per Antigone la legge di Creonte non vale nulla: «Questo editto non Zeus proclamò per me né Giustizia». Il mondo degli uomini, con i suoi valori e le sue regole, non conta; solo il mondo degli dei conta; le leggi umane non sono niente rispetto alle «leggi non scritte, incrollabili, eterne, divine».
Mai una volta, in tutta la tragedia, Antigone fa menzione della guerra che ha rischiato di distruggere Tebe, la sua città: non è cosa che possa interessarla. Antigone è «autonoma», alla lettera: si dà le leggi e i valori (in greco nomos ) da sola (in greco autos ). Nulla può resistere all’urto delle sue convinzioni: l’universo religioso e il mondo della città sono separati nettamente.
L’ombra del gesto di Antigone si allunga fino a noi. Sarà forse eccessivo evocare i fanatismi religiosi che insanguinano tanta parte del mondo. Ma è difficile non pensare a tutte le Kim Davis (l’impiegata americana finita in carcere per aver rifiutato la licenza matrimoniale a una coppia di omosessuali) che oppongono la loro fede religiosa alle leggi dello Stato. O alle posizioni di chi, sull’onda di vicende come quella del pensionato che ha ucciso un ladro a Vaprio d’Adda, invoca un diritto assoluto all’autodifesa che sconfina nel farsi giustizia da soli. Anche questo è Antigone, e non è molto rassicurante, per chi pensava che simili conflitti fossero ormai un ricordo del passato.
Forse converrebbe togliere a Creonte il cappotto militare e considerare con più attenzione le sue ragioni.
L’obiettivo di Creonte, in fondo, era quello di costruire un mondo in cui gli uomini potessero convivere. Lo sapeva bene il grande filosofo del diritto austriaco Hans Kelsen, di cui l’editore Quodlibet ha appena ripubblicato la lezione di congedo dall’insegnamento, tenuta a Berkeley nel 1952, Che cos’è la giustizia? . Una domanda vitale per uno che a Berkeley era arrivato esule, in fuga dal terrore nazista. La giustizia è il risultato di scelte condivise, che stanno alla base della società umana, non un’imposizione calata dall’alto.
Era una proposta che ben si confaceva al nuovo mondo democratico che stava sorgendo dalle ceneri della Seconda guerra mondiale. Gli uomini, scriveva Kelsen, sono sempre stati dominati dal bisogno di credere in verità assolute. Ora, finalmente, stavano imparando a liberarsi da questa ossessione, impossibile da realizzare. Sarebbe bello dividere tra buoni e cattivi, tra bianchi e neri; nel mondo degli uomini, però, tutto è più complicato: la giustizia assoluta è «una delle eterne illusioni dell’umanità» e nessuno può pretendere di possederla. Occorre imparare la tolleranza per costruire uno spazio comune. Anche Creonte ha le sue ragioni. La tragedia di Sofocle, però, andava ancora oltre, sollevava domande ancora più inquietanti.
Le idee di Kelsen costituiscono un valido antidoto contro i fanatismi che troppo spesso avvelenano la vita in comune degli uomini. Ma riescono a salvare questo nuovo mondo umano da se stesso, dalla spirale di violenza che sempre può innescarsi? Sofocle racconta non una, ma due storie, entrambe tragiche nella loro solitudine: e su entrambe bisogna riflettere. C’è Antigone, certo, che morirà per il suo gesto di ribellione, e ancora più per il suo ostinato rifiuto del mondo umano: Antigone non si oppone soltanto a Creonte; disprezza la sorella, non parla quasi al fidanzato che per lei si ucciderà.
Ma non c’è solo Antigone. Non meno importante è la parabola di Creonte, che da buon politico si trasformerà in tiranno, un despota che per salvare la sua città finirà per distruggerla. Messo di fronte alla sfida di Antigone, per paura che la disobbedienza di una sola persona possa riaprire le porte al caos, Creonte s’irrigidisce nella difesa dei valori della città, diventa intollerante, rifiuta il confronto, si rifugia nella violenza e finisce per fare il deserto intorno a sé. È una storia più sfuggente ma anche più interessante per noi. Perché questa degenerazione dalla politica alla forza? Era inevitabile?
Proprio negli anni in cui Kelsen teneva le sue ultime lezioni a Berkeley, in Germania si riaffacciava sulla scena il giurista e politologo Carl Schmitt, dopo un periodo di forzato silenzio dovuto alla sua compromissione con il regime nazista. Apparentemente era poca cosa, la partecipazione a un seminario ristretto e la pubblicazione di un piccolo saggio, La tirannia dei valori . In realtà era una lucidissima diagnosi di quello che stava succedendo; ed era anche una risposta al problema di Creonte.
Il mondo moderno si era progressivamente emancipato dal peso di princìpi assoluti, Dio o il Bene, che venivano imposti in modo autoritario. Benissimo. Il nuovo mondo, il nostro mondo, era quello dei valori, che gli uomini liberi si danno consapevolmente e responsabilmente. Benissimo. I valori, però, sono molteplici, relativi, spesso incompatibili. I valori confliggono. Ma qual è, allora, la validità di un valore rispetto all’altro? I valori valgono, osservava Schmitt giocando sull’etimologia della parola, finché valgono: un valore «non è nulla se non s’impone; la validità deve continuamente essere attualizzata, cioè essere fatta valere. Chi dice valore vuol far valere e imporre». «Non appena l’imporre e il far valere diventano una cosa seria, la tolleranza e la neutralità si ribaltano nel loro opposto, cioè in ostilità».
In assenza di fondamenti, il rischio è che l’unica legittimità di un valore consista nella forza di chi lo propone; e il pericolo è che per farli valere si ricorra alla violenza, ricadendo nel fanatismo, in opposizioni non negoziabili: la tirannia dei valori, appunto, come quella descritta nella parabola di Creonte, il politico diventato tiranno per difendere i valori della comunità dalla sfida di Antigone. Oggi, questa tirannia si traduce nel conformismo, nell’erigere se stessi a misura di tutte le cose per paura del confronto con gli altri. Di fronte alle grandi sfide che si stanno profilando all’orizzonte, è una situazione ancora più complicata di quella che Creonte ha cercato vanamente di controllare.
Si ritiene che la modernità sia nata quando la religione è stata spazzata via e Creonte ha preso il posto di Antigone, confinando le sue esigenze morali e religiose nello spazio del privato. Ma è una ricostruzione superficiale, che non rende conto della realtà in cui viviamo. Piuttosto si dovrebbe riconoscere che tanto Creonte quanto Antigone hanno ugualmente ragione e ugualmente torto: esprimono punti di vista legittimi, che possono degenerare in fondamentalismi ugualmente nocivi. I danni delle varie Antigoni non serve quasi ricordarli; la scoperta dei tempi più recenti è che neppure Creonte è in grado di trovare una soluzione ai nostri problemi. Gli opposti estremismi non portano da nessuna parte. Niente di nuovo sotto il sole: erano gli stessi problemi di cui si discuteva duemilacinquecento anni fa.
Oggi, ampliando il discorso, si parla del conflitto tra Atene (Creonte) e Gerusalemme (Antigone), tra la ragione e la rivelazione. Sono due ordini di senso diversi e inconciliabili, che si combattono sempre senza mai prevalere. La ragione non può escludere la rivelazione (l’esistenza di Dio non può essere provata, ma neppure confutata), ma la rivelazione non può dimostrare se stessa (l’esistenza di Dio non può essere confutata, ma neppure provata). Una tensione ineliminabile rimane.
A pensarci bene, però, questa tensione non è poi un male, perché ci costringe alla discussione, impedendoci di cadere in una visione unilaterale, e dunque dottrinaria, della realtà. Dialogare, confrontarsi: quello che Antigone e Creonte non sono stati capaci di fare. Del resto, non è proprio questa tensione che fa la specificità della nostra civiltà europea ed occidentale? Fino ad oggi, con alti e bassi, siamo stati capaci di conservare un equilibrio tra queste spinte divergenti. Non era facile. E domani? Questa è la domanda di Sofocle, a cui dobbiamo dare una risposta pratica.

Corriere La Lettura 1.11.15
Riscrivere i classici
Gli dei dell’Olimpo sono poco celesti. E forse i veri barbari siamo noi
Un’antichità fosca in “Le ateniesi” di Alessandro Barbero. Non è il solo caso
di Daniele Giglioli


Il classico è ciò che crediamo di sapere. «È un classico» si dice di qualcosa troppo noto, scontato, prevedibile, un’opera ma anche una circostanza, magari minima, tipo l’ennesimo ritardo di un treno o un guasto in metropolitana. Rispetto e noia, deferenza e sconforto. Chi ci libererà dei greci e dei romani?, si chiese sarcasticamente un poeta all’alba della Rivoluzione francese, quando l’antichità veniva sistematicamente saccheggiata per ricavarne pose di virtù repubblicana e odio per la tirannide (il pugnale di Bruto! il rigore di Licurgo! la congiura di Catilina!). Il mondo è vuoto dopo i romani, sospirava Saint-Just, l’Arcangelo del Terrore, in certi suoi appunti non destinati alla pubblicazione. Che la nostra modernità politica, nel momento in cui si sforzava di creare una situazione totalmente inedita, ricorresse al mondo classico per ricavarne esempi e insegnamenti, è un fenomeno di cui non bisognerebbe smettere troppo presto di stupirsi. Lo stupore è il miglior antidoto alla noia.
Questo per dire quanto stupore nasce in me quando non provo noia nel leggere, ai giorni nostri, l’ennesima riscrittura di qualche storia o mito classico. Passino i peplum , i kolossal come Il gladiatore , confezionati a fini di onesto intrattenimento. A stupirmi è chi lo fa sul serio e ci riesce, come per esempio Alessandro Barbero nel suo ultimo romanzo, Le ateniesi (Mondadori), ambientato ad Atene al tempo della guerra del Peloponneso, per metà smagliante cronaca della messa in scena della Lisistrata di Aristofane, irresistibile commedia in cui le donne stanche di guerra ricattano sessualmente i mariti negandogli le gioie del talamo per obbligarli a fare la pace, per metà cupa storia di violenza e stupro ai danni di due fanciulle libere ma povere per mano di tre arroganti ragazzotti aristocratici. L’Atene di Barbero non è quella di Pericle, o meglio non è quella che il luogo comune pretenderebbe che sia: è divisa, diffidente, violenta, tormentata, attraversata dal conflitto di classe e dalla lotta tra i sessi, esemplare più per i suoi aspetti sinistri che per quelli luminosi (tra cui Aristofane, a petto del quale tutti gli attuali vignettisti, comici e autori di satira possono andare a nascondersi). Ma soprattutto è strana e sorprendente, non contaminata dalla plumbea coltre di uniformità che porta a dire ma sì, è poi sempre la stessa storia, gli antichi erano proprio come noi.
Perché non è vero. Gli antichi erano diversi, meno familiari che estranei. Ciò che davvero conta è ciò che ci divide da loro. Niente li tradisce di più, niente li rende meno nutrienti della pigra retorica circa il fatto che sono «le nostre radici». Se è vero, si tratta di radici contorte.
Faccio un altro esempio: qualche anno fa, Baricco ha riscritto l’ Iliade eliminando completamente la presenza degli dèi. Il risultato è alquanto dubbio, ma non per una supposta infedeltà all’originale. Con ogni storia ogni autore può fare ciò che vuole. Ma quella storia lì senza gli dèi non si capisce, e per ragioni non immediatamente ovvie. Il punto è che gli dèi di Omero sono fatui, superficiali, ridicoli, spregevoli; si mescolano alla tragedia degli uomini per capriccio, divertimento, puntiglio; cambiano casacca, tifano, intrigano, bisticciano come comari e la sera si ritrovano tutti a banchettare sull’Olimpo. È la loro miseria etica a far risaltare la grandezza, il coraggio, il dolore, l’eroismo degli uomini e delle donne mortali, che pagano di persona lo spettacolo offerto a quelle banderuole. La gloria umana rifulge nell’infamia degli dèi.
Nel primo testo scritto della cultura occidentale, là dove ci aspetteremmo di trovare i fondamenti della religione greca, vediamo invece un cielo che sarebbe più pietoso, e più dignitoso, se fosse vuoto. Gli dèi di Omero quando non fanno rabbia fanno ridere. Nell’ Odissea non gli va molto meglio, e nell’ Eneide a guardar bene nemmeno; con qualche azzardo si potrebbe sostenere che nell’intera tradizione epica il piano del divino non è quello più nobile e interessante (gli importa più di Dio o del suo orgoglio, a Orlando che muore a Roncisvalle? non sono più affascinanti i diavoli degli angeli in Tasso o in Milton?). Strano ma vero, verificabile ad apertura di pagina. Eliminarli significa privarsi non solo di un formidabile effetto di contrasto, ma anche di una stranezza, di una anomalia, di un punto cieco da cui c’è molto da imparare.
Ecco allora perché le riscritture del mito e dell’antico veramente riuscite sono quelle in cui a quel mondo viene restituita la sua opacità, la sua enigmaticità, la sua distanza, lo smarrimento che suscita più che la sua esemplarità vera o presunta. Capolavori come La morte di Virgilio di Hermann Broch, Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, Giuliano di Gore Vidal o Il mondo estremo di Christoph Ransmayr (dove si evoca l’esilio del poeta Ovidio sul Mar Nero) non si presentano come il facile travestimento di verità sempre sapute ma come lo specchio oscuro in cui, attraverso ciò che non sappiamo di loro , intravediamo ciò che non sappiamo di noi . Non è la minor prova della genialità mitopoietica di Pasolini il fatto che la Grecia dei suoi film non sia quella apollinea delle cartoline, ma quella barbarica e crudele dei delitti e dei sacrifici umani. E quando il padre della psicoanalisi, Freud, ha ripreso in mano il mito di Edipo, non lo ha fatto per conciliare ma per turbare i sonni del suo secolo (prova ne è che in tanti se ne turbano ancora), così come continua a turbarci il Dioniso di Nietzsche.
Radici contorte. Enigmi più che soluzioni. Differenze che stimolano l’intelligenza e accendono l’immaginazione. È la cosa più preziosa che gli antichi hanno da insegnarci. Una lezione di alterità tanto più necessaria quanto più il mondo globalizzato sta diventando uno solo a prezzo di avvicinarci a velocità vertiginosa esseri umani e forme di vita molto difficilmente conciliabili con la nostra. Pensiamo davvero di affrontare la sfida del confronto con i migranti che si avviano a ripopolare l’Europa, oppure con l’India e con la Cina, raccontandogli qualche favola edificante sulla democrazia? Non converrà invece guardare dietro alla parola, chiedersi quando nasconde oltre e più di quanto dice? Capita spesso di pensare agli stranieri extraeuropei come a barbari i quali, si sa, non hanno ancora raggiunto «il nostro livello di sviluppo».
Miope strategia. Molto più utile esercitarsi a rovesciare la prospettiva immaginando gli antichi come dei barbari, degli stranieri tra noi. Riscoprire quanto siano barbare le nostre radici sarà forse inquietante, ma di certo non sarà noioso.

Corriere La Lettura 1.11.15
Il rinvio
Posticipare appare un sollievo, ma farlo all’infinito è devastante Soprattutto in politica, dove «decisionista» è un atto d’accusa
di Donatella Di Cesare


Che sia una data differita, un impegno posticipato, una scelta procrastinata, rinviare appare spesso un sollievo. Il che non stupisce, se solo si pensa al ritmo accelerato della vita quotidiana, al vortice delle scadenze che si affastellano. Negli ultimi anni non sono mancati esperti di diversi settori che hanno suggerito metodi ed elaborato strategie per fronteggiare le urgenze sempre più numerose e sempre più improrogabili. Il filosofo americano John Perry, che ha lavorato a lungo all’Università di Stanford, è giunto a teorizzare addirittura una «procrastinazione strutturata». Se da un canto Perry critica il modello dominante dell’«attivista» che ha la meglio su tutti gli impegni, giocando persino d’anticipo, dall’altro loda il rinvio che non è dettato necessariamente da pigrizia, né è di per sé improduttivo. Se si considerano gli esempi di artisti, scrittori e poeti, il rinvio potrebbe persino dischiudere il tempo della creatività.
Ma tutte queste recenti teorie hanno trovato poca risonanza in Italia. Il che è a dir vero tutt’altro che sorprendente. Non perché la vita non abbia un ritmo frenetico, come negli altri Paesi occidentali. Ma perché il nostro Paese è da sempre, e non di rado inconsapevolmente, la «patria» dei «temporeggiatori di professione». Chi non ricorda la figura quasi mitica di Quinto Fabio Massimo, soprannominato Cunctator, perché inaugurò la strategia del temporeggiamento? Le forze nemiche ne furono logorate e Roma venne salvata. Da allora l’arte, molto latina, di prendere tempo, di indugiare in attesa del momento opportuno e delle circostanze favorevoli, fa parte del nostro patrimonio culturale. È insomma un’abilità che si impara già a scuola e in famiglia, e che caratterizza la nostra forma di vita.
Non c’è dubbio che temporeggiare, originariamente una strategia bellica, possa dare ottimi risultati in alcuni contesti, da quello della diplomazia a quello delle scelte personali. Ma è altrettanto certo che la nobile arte del rinvio può scadere facilmente in un meschino tergiversare, in un volontario sottrarsi a ogni decisione. Il rinvio può allora essere la porta d’ingresso non già della creatività, bensì della paralisi.
Nella politica e, più in generale, nella sfera pubblica, il rinvio, visto come un’arte, ma ritenuto anche una sorta di irrinunciabile saggezza, ha avuto e continua ad avere effetti devastanti. Dagli ambiti più circoscritti fino alle sedi istituzionali — come non pensare al Parlamento? — il rinvio è la via d’uscita più frequentata, la prima ratio , anziché l’ultima, l’espediente a cui si ricorre spesso e volentieri, senza troppi scrupoli.
Non è giudicato un danno che dopo una lunga riunione non si arrivi ad alcuna conclusione. Né appare deleterio non scegliere. Può capitare, anzi, che le poche decisioni prese vengano rimesse in dubbio il giorno dopo e che, nel segno del temporeggiamento, e del rinvio infinito, si ricominci sempre daccapo, come se nulla fosse. Nella sfera pubblica questo fenomeno, più diffuso di quanto non si immagini, è sotto gli occhi di tutti. Se il sollievo derivante dal rinvio sembra un sentimento largamente condiviso, con un malcelato sospetto viene guardato chi si assume il difficile compito di scegliere. Fioccano allora i rimproveri di «attivismo» o «decisionismo». E così nella politica, dove il rinvio per il rinvio ha assunto negli ultimi decenni forme parossistiche, si finisce per preferire quasi chi tergiversa, nicchia e posticipa, piuttosto che chi si risolve ad agire.
La decisione è sempre e ovunque dolorosa, nella sfera pubblica e in quella privata. Come suggerisce l’etimologia, decidere, dal latino de-caedere , significa «tagliare», eliminando tutte le alternative. Ogni decisione è perciò un taglio. E non ci si può sottrarre, se nella vita, com’è giusto che sia, si deve passare all’azione. Altrimenti si resterebbe sempre immobili. Ma certo ogni taglio è anche un rischio, e l’errore è sempre in agguato. Chi decide corre il pericolo di sbagliare, si espone continuamente alla critica.
In fondo esistere è decidere. Non c’è forse parola che renda meglio l’intensità, il peso, la fatica dell’esistenza. Proprio nella decisione, quell’istante deliberativo che prelude all’agire, emergono con più chiarezza peculiarità e carattere di ciascuno. La decisione è la nostra impronta, il timbro che lasciamo nella vita. Decidere vuol dire non solo assumere l’esistenza, farsene carico, ma anche accettare che il tempo sia finito, che a un certo punto si esaurisca, che giunga al termine.
Perciò il rinvio infinito è riprovevole sotto ogni aspetto, esistenziale, etico, politico. Dà infatti l’illusione che il tempo, il proprio e l’altrui, sia sempre disponibile. La sentenza del tribunale che arriva dopo innumerevoli rinvii — quando arriva! — è alterata dal sapore amaro del «troppo tardi», porta con sé l’esperienza negativa di un tempo già trascorso, di cui si è stati defraudati. La giustizia deve giungere al momento debito, deve essere anche giusta nel tempo.
L’elogio della decisione non è apologia del decisionismo. Non si deve fraintendere. E come ciascuno può decidere solo dopo aver deliberato con se stesso, così una comunità è chiamata al dialogo e al confronto — questa è la democrazia — prima di scegliere. Se il compromesso è d’obbligo, il taglio della decisione diventa a un certo punto inevitabile, a meno di non condannarsi a vivere in condizione di inerzia, in uno stallo prolungato. Una comunità non è tale se non ha il senso del tempo e non sa proiettarsi verso mete condivise.
Forse la «dolce vita» del passato era legata all’arte del rinvio, era connessa con una certa leggerezza — quella lodata da Italo Calvino — nel fronteggiare impegni e obblighi. Ma era un’epoca diversa. E il rinvio si coniugava con una profonda, salda umanità, dalla cui angolazione si guardava agli altri prima che a se stessi. Il rinvio era parte di una forma di vita, venuta meno, dove indugiare era la sosta di un incontro, la pausa di una riflessione.
Adesso il rinvio appare piuttosto il gesto di chi, di fronte all’emergenza, sceglie cinicamente di salvare se stesso. E mentre, fra incertezza e corruzione, contempla il naufragio, preferisce — come ha osservato in un suo saggio il filosofo Hans Blumenberg — la posizione immobile dello «spettatore». Rinvia per non agire, per mettersi al riparo dal declino, per aggirare conflitti e dispute, ma anche per evitare ogni responsabilità. È un modo per tenersi «fuori alla mischia» delegando ad altri la sopravvivenza dei legami sociali. Come se quel declino, prima o poi, non dovesse coinvolgerlo. Il rinvio sembra rivelarsi allora l’ultima, esasperata, mediocre forma di autoconservazione.

Corriere La Lettura 1.11.15
Antibiotico misto a veleno. Ecco i danni dell’austerità
di Amartya Sen


Nel discorso alla Banca mondiale nel maggio 2011, sostenevo che l’impatto di un’austerità indiscriminata sulla crescita economica sarebbe stato molto destabilizzante per le economie europee. La storia è piena di esempi di spaventosi dissesti in seguito all’attuazione di drastici tagli di spesa e di misure di rigore in tempi di alta disoccupazione e basso sfruttamento delle risorse produttive. Nel suo esordio, la Grande Depressione degli anni 30 venne affrontata proprio allo stesso modo, con esiti deleteri, che spinsero John M. Keynes a lanciare un monito contro la follia di tali politiche.
Ci sono molte somiglianze con lo stato di desolazione in cui versa oggi l’economia europea. Sulle misure da adottare, l’opinione dei decisori europei è stata un’altra. Ma oggi, a conti fatti, i pretesi risultati delle politiche di austerità nel ridurre il peso di deficit e debito si rivelano pessimi. È importante chiedersi per quali ragioni il dibattito economico si sia così appiattito nell’incensare i poteri terapeutici dell’austerità. Avere ignorato i moniti di Keynes è un fattore importante. Ma c’è stata anche una strana confusione tra l’esigenza di promuovere riforme istituzionali e l’esigenza di austerità. È indubbio che l’Europa abbia bisogno ormai da tempo di riforme istituzionali (fisco, pensioni...). Ma si deve distinguere tra la necessità fondata di riforme e quella presunta di un rigore indiscriminato. Mescolando le due cose in un’unica formula, è diventato difficile parlare di riforme senza al contempo parlare di tagli alla spesa pubblica in ogni settore. È come se a un malato che chiede un antibiotico per debellare la febbre venisse data una compressa di antibiotico mischiato a veleno per topi: impossibile assumere l’uno senza assorbire anche l’altro.
Se si sostengono le riforme economiche, si deve accettare anche l’austerità (così ci è stato ripetuto), ma in realtà non c’è nessuna buona ragione per mescolare i due elementi in un’unica formula. Numerosi Paesi in Europa hanno ancora bisogno di riforme, ma non hanno affatto bisogno di altre misure di austerità. Oltre duecento anni fa Adam Smith sosteneva che una buona politica economica deve prefiggersi due obiettivi: «Primo, mettere i cittadini in grado di produrre un congruo reddito e procacciarsi di che vivere; secondo, fornire allo Stato o alla comunità introiti sufficienti a garantire i servizi pubblici». Il padre dell’economia moderna e migliore araldo del sistema di mercato non aveva alcun dubbio su come e dove lo Stato dovesse corrispondere alle esigenze di una società sana. Per generazioni, il dibattito pubblico ha sempre più avvalorato e sostenuto le ampie vedute di Adam Smith. Ci sono buone ragioni per pensare che sarebbe successo anche oggi, se solo si fosse lasciato spazio a un dialogo pubblico aperto e informato, anziché assoggettarlo alla presunta superiorità di giudizio dei leader finanziari, con la loro sconcertante ristrettezza di vedute riguardo all’umana società e il loro disinteresse per le esigenze di una democrazia deliberativa.

Corriere La Lettura 1.11.15
Danton
Pareva un leone: cercò di frenare Robespierre ma ne fu vittima
di Giuseppe Galasso


Georges-Jacques Danton era nato ad Arcy-sur-Aube, in Champagne, a circa 30 chilometri da Troyes, il 26 ottobre 1759. Le sue radici nella provincia francese sono confermate dalle sue origini in quel tessuto sociale semplice (agricoltori, artigiani, piccoli borghesi di varia professione, piccolo clero, di poco o di molto al di sopra della marea dei poveri), che era l’inesauribile retroterra da cui traeva le sue reclute la metropoli parigina.
Dopo una sommaria istruzione ad Arcy e studi senza gran profitto al seminario di Troyes, Danton approdò nella primavera del 1780 a Parigi. Era un uomo molto alto e di grande corporatura, dalla voce possente. Da bambino era stato ferito al labbro e al naso. Il volto portava evidenti i segni del vaiolo. Non era un uomo avvenente. Statura, aspetto e voce gli davano, però, un notevole carisma fisico, al quale aggiunse quello di un’eloquenza trascinante. Michelet lo definì «contemporaneamente leone e uomo». Certo, attraeva molto le donne.
A Parigi, fu prima praticante, poi avvocato in proprio. Grazie al matrimonio con Antoinette-Gabrielle, figlia di François Charpentier, proprietario del Cafè Parnasse o Cafè de l’École, ebbe i mezzi per comprare l’ufficio di avvocato nel Consiglio del re, ma non ebbe mai un vero successo professionale. Si completò in quegli anni il suo profilo culturale e nacque il suo interesse per la politica, ma già a questo proposito i pareri su di lui divergono di molto. Per alcuni la sua formazione culturale fu modesta e non andò oltre un livello medio allora diffuso. Per altri, invece, non fu così. Ma Danton sapeva di latino, e la sua vigorosa eloquenza fa ritenerne non sporadiche le frequentazioni culturali.
Ancor più contrapposti sono i pareri sulla sua azione e le sue opinioni politiche. Per gli storici della rivoluzione più radicali Danton fu fino al luglio 1789 «mite, modesto e silenzioso». Solo dopo si rivelò quel tribuno e uomo di azione che fu fino alla morte, e fu anche assente nelle giornate cruciali della rivoluzione, apparendovi la vigilia o l’indomani, e brillando davvero solo nell’agosto 1792 e nel marzo 1793, quando la rivoluzione apparve in estremo pericolo. Per altri (Michelet, gli storici legati alla tradizione democratica francese) egli fu il grande eroe e uomo d’azione della rivoluzione, che ne salvò le sorti nel momento di maggiore rischio e tentò di dare ad essa la prospettiva del Terrore come inevitabile esigenza di una provvisoria dittatura patriottica, che doveva aver chiaro l’obiettivo finale di un regime di libertà.
La cronaca di quegli anni non permette di ingigantirne ed eroicizzare l’azione, ma certo lo mostra tra i protagonisti decisivi della rivoluzione e fra i più chiaroveggenti sulla necessità e i modi di concluderla. Fu attivo fin dal primo momento. Aveva fondato nel 1790 il Club dei Cordiglieri, che fu il suo primo luogo di influenza politica. Ebbe varie cariche, e fu poi tra i maggiori promotori della giornata del 10 agosto 1792 e della decadenza della monarchia. Ministro della Giustizia nel governo girondino allora formato, esorbitò di molto dai suoi compiti ministeriali, promuovendo la reazione all’invasione austro-prussiana della Francia, che pareva prossima al successo. Non si oppose ai massacri del settembre 1792, e a Parigi fu eletto alla Convenzione, dove votò per la morte del re. Gli attacchi, anche sul piano morale, dei Girondini, irritati del suo comportamento da giacobino nel loro governo, contribuirono a portarlo nelle braccia dei Montagnardi. Fece votare la creazione del Comitato di salute pubblica, di cui fu a capo dall’aprile al luglio 1793. Non ebbe parte nell’eliminazione dei Girondini, ma cercò di moderare gli eccessi giacobini. Il 10 luglio 1793 fu perciò escluso dal Comitato di salute pubblica, in cui entrò invece Robespierre.
Si fece allora da parte. Era diventato ricchissimo, fornendo così ampia materia alla sua immagine di uomo corrotto; e, vedovo, sposò il 1° giugno 1793 la sedicenne Louise Gely, che alcuni accusarono della sua rovina, perché lo avrebbe indotto a preferire le gioie domestiche e campestri di Arcy alla bolgia parigina. Poi, quando Desmoulins per suo suggerimento iniziò sul suo giornale una campagna contro il Terrore, Robespierre fece arrestare nel marzo 1794 lui e i suoi amici, come aveva fatto con la sinistra giacobina. In un processo, in cui gli accusati non poterono neppure difendersi, vi fu la prevedibile condanna, eseguita il 5 aprile. Contrapposta in positivo o in negativo a quella di Robespierre, la memoria di Danton fu, come si è detto, combattuta e controversa. Quella lettura sinottica è, però, sempre meno persuasiva. Appare sempre più chiaro che la rivoluzione non poté fare a meno di Robespierre, e non diede a Danton, al di là delle sue personali deficienze, il tempo di definire e realizzare le sue intuizioni su quella che poteva essere, e poi fu, la conclusione della rivoluzione. Non era la prima volta, nella storia, di un simile duplice non , e non sarebbe stata l’ultima.

Corriere La Lettura 1.11.15
La mezzaluna sul Gange
L’avanzata vertiginosa dell’islam nella città santa dell’induismo (e non solo)
di Aldo Cazzullo


Non si sa se e quando i cavalli dei maomettani si abbevereranno nel Tevere, come vaticina padre Rosario, il confessore di madre Teresa. Si sa quando la mezzaluna islamica sorgerà sul Gange: domattina.
L’alba a Varanasi, la San Pietro dell’induismo, è da sempre il momento più sacro della giornata: i sadhu dal corpo dipinto scendono al fiume insieme con gli occidentali figli o nipoti dei fiori, per pregare la dea Ganga e il dio di cui è innamorata non corrisposta, Shiva. Ma ora al sorgere del sole la città si sveglia con il muezzin e con il suo richiamo imperioso, lo stesso che risuona dal Marocco all’Indonesia: «Allahu akbar...».
I più preoccupati tra gli indù dicono che di moschee a Varanasi ormai ce ne sono duemila. Forse esagerano, ma certo sono centinaia. Il visitatore europeo vi entra liberamente: l’imam dà per scontato che sia un convertito, e gli propone di pregare insieme nella direzione della Mecca, che qui è occidente. La comunità è pacifica e ospitale. Controlla l’artigianato tessile: produce sari coloratissimi, ma le sue donne girano sempre più spesso in burqa nero. Di fatto vive in una sorta di apartheid, la stessa che nei villaggi separa le caste indù: ogni comunità ha la sua pompa d’acqua, il suo pozzo, la sua scuola.
«Il punto è che i musulmani sono, e saranno, sempre di più — dice Rashmi Banji Deo, la rani , principessa, di Jaisalmer, che come molte famiglie reali ha casa a Varanasi —. In India ogni giorno nascono centomila bambini. E gli islamici, a differenza di noi indù, non conoscono la pianificazione familiare. Già ora le statistiche indicano che sono il 14 per cento della popolazione: 175 milioni. Ma in realtà sono di più, considerando ad esempio gli emigrati dal Bangladesh a Calcutta e nell’Assam, e crescono in modo esponenziale. Oggi nelle scuole non accettiamo le bambine con il velo: lo devono togliere e poi lo rimettono all’uscita. Ma fino a quando saremo in grado di proteggere il sogno indiano della convivenza tra culture e religioni diverse?».
Il confronto tra islam e induismo è un tema secolare. Prima degli inglesi il subcontinente fu dominato dagli imperatori Moghul, alcuni tolleranti e altri spietati distruttori di templi. La «partizione» tra India e Pakistan scatenò una guerra civile da centinaia di migliaia di morti, interrotta solo dall’emozione per l’assassinio di Gandhi, ucciso non da un musulmano ma da un estremista indù: oggi i suoi discendenti sono al governo, attraverso l’Rss, braccio ideologico del partito del premier Narendra Modi.
Modi è stato capo del governo del Gujarat, ma ha scelto come collegio elettorale proprio Varanasi, a rivendicare il carattere induista della città santa. Il Gujarat nel 2002 fu sconvolto dai pogrom anti-islamici, dopo che i musulmani avevano assalito un treno di attivisti indù: migliaia di morti, innumerevoli stupri e sevizie. Modi non si affannò per fermare la strage. Ancora due settimane fa ha definito il linciaggio di un miscredente che aveva mangiato carne bovina «un caso sfortunato». Ma è proprio il suo radicalismo a confortare gli indù timorosi per la propria identità. Anche perché quasi ogni giorno i quotidiani danno notizia della chiusura di siti o pagine Facebook legati all’Isis: un fantasma remoto, per ora.
A Varanasi ha casa anche Sudarshan Kumar Birla, che tutti chiamano SK, patriarca di un impero da 60 miliardi di dollari, con Ratan Tata il grande vecchio dell’imprenditoria indiana. Suo bisnonno lasciò il Rajastan a dorso di cammello per cercare fortuna a Mumbai. Suo nonno, Raja Baldeodas Birla, vero fondatore dell’azienda, si ritirò a 55 anni: un indovino gli aveva predetto la fine imminente, e lui si fece costruire un palazzo sul Gange, dove si ritirò ad aspettare la morte. Raja Baldeodas Birla aspettò la morte per quarant’anni: morì quasi centenario, e fece in tempo ad accumulare una saggezza che ha trasmesso al nipote. «Per secoli indù e musulmani hanno vissuto spalla a spalla — dice SK —. Siamo tutti esseri umani; le contrapposizioni nascono dalle manovre della politica. Certo, se sommiamo ai musulmani di casa nostra quelli che premono alle frontiere orientali e occidentali, in Pakistan e in Bangladesh, superiamo il mezzo miliardo di persone». In pratica un musulmano su due vive nell’«India indivisa», il territorio governato dagli inglesi prima della partizione del ferragosto 1947. Il senso di accerchiamento genera qualche ansia pure al miliardo di indù e alle minoranze cristiane, sikh, buddhiste, ebraiche, jainiste.
I musulmani sono per tradizione vicini al Congresso, il partito secolare dei Gandhi. Ma ora, di fronte al declino della dinastia che in questi giorni Sonia tenta di tamponare con una frenetica campagna per le elezioni nello Stato del Bihar, qualcuno comincia a votare per l’odiato Modi. Nel West Bengala i musulmani sono 25 milioni e sostengono il capo del governo locale Mamata Banerjee, donna di potere alleata di Modi. Mentre l’unico Stato in cui i musulmani sono maggioranza, il Kashmir, è dilaniato da una guerra che sembra non avere mai fine. Il premier pachistano Nawaz Sharif aveva partecipato all’insediamento di Modi, suscitando la speranza di una nuova stagione. Ma i negoziati sono fermi, e la frontiera delle grandi montagne resta una frattura aperta nel cuore dell’Asia.
Nel maggio 1995 un gruppo di guerriglieri islamici occupò il santuario di Sharar-i-Sharif, il simbolo della coesistenza nella valle del Kashmir tra indù e musulmani, che visitavano insieme la tomba di Sheik Nurudin, il profeta del sufismo, l’uomo che scriveva: «Dio è ovunque e ha mille nomi/ ma non c’è foglia d’erba/ che non lo riconosca./ Siamo venuti insieme sulla terra/ perché non spartire gioie e dolori?». L’esercito indiano attaccò, il santuario bruciò. Scrisse Tiziano Terzani: «Tutto è andato in fumo e con quello se n’è andata l’ultima speranza d’un compromesso nel Kashmir». Vent’anni dopo la sua profezia purtroppo non è stata smentita. E non si è ancora richiusa la ferita di Ayodhya, dove gli indù distrussero la moschea che «profanava» la città natale di Rama. Mentre a Bodhgaya, nel luogo dove Buddha raggiunse l’illuminazione dopo aver respinto gli assalti di Mara, il demone dell’illusione, sorge da secoli un’indisturbata moschea. E quando gli inglesi riscoprirono dopo quasi un millennio i templi erotici di Khajuraho, gli indiani costruirono all’ingresso un tempio sincretista, con una cupola islamica, uno stupa buddhista e una torre indù.
L’università di Varanasi è frequentata dagli indù. I musulmani vanno ad Aligarh o ad Allahabad. Come ovunque, c’è grande interesse per l’Italia. Pratishta Singh ha avuto qui la cattedra di Letteratura italiana; ora insegna a Delhi. Spiega che la grande prova di coesistenza sono le sfide a cricket tra India e Pakistan. I suoi allievi musulmani tifano India. Se l’India vince, si festeggia tutti insieme. Ma se vince il Pakistan, i musulmani si chiudono in casa; altrimenti rischiano di prendere un sacco di botte. «Poi non dobbiamo stupirci se gli islamici hanno sempre più rabbia. E se gli indù, pur essendo ancora dominanti per numero, potere e ricchezza, hanno sempre più paura». Diceva Borges che l’India è più grande del mondo; ma è dura far posto a tutti.

Il Sole Domenica 1.11.15
A colloquio con Ala al-Aswani
La grande illusione d’Egitto
di Ugo Tramballi


Lo scrittore, vittima della restaurazione del generale al-Sisi, descrive un Paese stanco dove la rivoluzione ha fallito. Ma avverte: i giovani aspettano la prossima occasione
La realtà fu evidente l’anno scorso, quando uscì Come abbiamo fatto un dittatore?, una raccolta di articoli pubblicati sui giornali egiziani. Normalmente il problema di Ala e del suo editore era di selezionare le centinaia d’inviti a dibattiti di presentazione e serate per la firma del libro, cercando un pretesto plausibile per coloro cui dire no. Anche quella era una forma di arte.
Questa volta, per la prima volta, non arrivò alcun invito, né gruppi di lettori invocarono la sua presenza per la firma. Silenzio assoluto. Fu così che Ala al-Aswani, dentista apprezzato e scrittore, il più famoso fra gli arabi viventi, capì di essere entrato in un cono d’ombra profonda, insuperabile come una cortina di ferro. Fu principalmente una conferma perché già i suoi commenti settimanali sul quotidiano «Al Masry al-Youm» erano scomparsi dalla prima pagina e poi dal resto del giornale: lui li mandava, secondo contratto, ma non uscivano. Lui non chiedeva e dalla redazione non arrivavano spiegazioni. Anche qui silenzio assoluto. «Poi un amico mi ha spiegato di aver tentato di convincere chi pensava di poter tentare di convincere che in fondo la mia era una firma importante», racconta al-Aswani. «La risposta era sempre no. In realtà non c’era una decisione formale: per me come per molti giornalisti della televisione, d’improvviso scomparsi dal video. Era così e basta, tutti sapevano e nessuno decideva davvero».
L’autore di Palazzo Yacoubian (Feltrinelli, 2006), Chicago (2008) e Cairo Automobile Club (2014) non ha scoperto a 58 anni di essere in quel cono d’ombra. «Sono seguito, ascoltato e tenuto sotto controllo da quando ero all’università. Il potere ai tempi di Hosni Mubarak aveva una formula: tu dici quello che vuoi, io faccio quello che voglio. Ma ora è peggio. C’era tutta una macchina dello Stato profondo che non ha mai smesso di funzionare anche dopo la caduta di Mubarak. Solo dopo la rivoluzione di piazza Tahrir abbiamo capito che in Egitto il problema non era lui ma il potere. Avevamo un vecchio regime, ora abbiamo il vecchio regime e i rivoluzionari in prigione».
Lo scrittore e il generale: Ala al-Aswani e Abdel Fattah al-Sisi. Il potere del presidente che ha tolto la divisa ma governa con durezza, efficienza ed efficacia come se il Paese fosse la sua caserma, con il consenso della maggioranza degli egiziani stanchi delle illusioni rivoluzionarie e spaventati da ciò che accade in Medio Oriente. E lo sguardo dello scrittore per natura libero. «Ho incontrato al-Sisi due volte, quando era il capo dei servizi segreti militari. Una volta mi ha invitato a discutere di un mio articolo. Abbiamo parlato per tre ore, era molto amichevole e ha elogiato il mio lavoro. Poi più nulla».
In un certo senso, l’unico momento in cui gli scritti di Ala al-Aswani non erano samizdat è stato fra la rivoluzione del gennaio 2011 e il breve governo dei Fratelli musulmani fino al giugno 2013. Mai i giornali erano stati così pieni di articoli e critiche entusiastiche come quando uscì nel 2013 Cairo Automobile Club, tradotto mirabilmente l’anno dopo in italiano da Elisabetta Bartuli. Eppure al-Aswani era un severo critico di Mohammed Morsi, il presidente di allora. «È solo perché i Fratelli musulmani non avevano avuto il tempo di colpire la libertà di espressione», spiega lo scrittore.
Ala al-Aswani ha lasciato il suo piccolo studio dentistico nel centro del Cairo, a Garden City. Ora vive a Città Sei Ottobre, un centro residenziale 30 chilometri distante da quelle strade caotiche e quei palazzi scrostati che sono la quinta dei suoi racconti. Le otturazioni al piano di sotto, la scrittura a quello di sopra. Entro il 2016 dovrebbe essere pronto La repubblica come se, il nuovo romanzo dedicato alla rivoluzione che ha esaltato e disilluso lui, gli egiziani e il resto del mondo. Ci sarà molto di personale in questo libro. «È il racconto sulla differenza fra realtà e illusione», spiega. «In una democrazia sembri quello che sei; in una dittatura hai un’immagine e una realtà. E le due cose sono molto diverse. La mia idea è che una dittatura ti spinge a essere ipocrita. Il capo vince le elezioni con il 98% dei consensi. L’intervistatore si congratula e il capo risponde: è stato difficile, sarà un impegno gravoso che sono costretto ad accettare. Tutti sanno che è una bugia ma tutti diventano ipocriti. È da quando sono bambino che vedo queste cose in Egitto».
L’assicurazione sulla vita creativa dello scrittore davanti al potere senza fine dell’ex generale e alla sua restaurazione, sono i libri che al-Aswani vende in tutto il mondo: le sue opere sono tradotte in 35 lingue e pubblicate in cento Paesi. Non scrive più su «Masry al-Youm» ma ha una rubrica mensile sul «New York Times», le sue riflessioni sono pubblicate sul «Guardian», «Le Monde», «El Pais», «L’Espresso». «Mi accusano di essere un agente della Cia, del Mossad, dell’Iran, del Qatar, della Turchia, a seconda delle vicende geopolitiche dell’Egitto». Ma le provocazioni si fermano qui.
Per spiegare perché un popolo tranquillo come l’egiziano fosse d’improvviso sceso in piazza Tahrir, una volta al-Aswani usò la metafora del cammello: un animale che non si arrabbia mai ma quando accade, morde. Ora anche lui deve constatare che la rivoluzione ha perso, il regime ha vinto e il cammello è tornato placido. «La gente pensa che al-Sisi stia salvando il Paese dal diventare un’altra Libia o un’altra Siria. Ma presto capiranno di non poter avere una vita decente senza cambiare. Solo il 20% degli egiziani era sceso in piazza, accade così in tutte le rivoluzioni. Ma non puoi capirne il significato se non ne comprendi la dimensione generazionale: in ogni casa i genitori pensano al lavoro, al salario da portare a casa. Ma i loro figli sono rimasti dei rivoluzionari. Se guarda le statistiche sulle elezioni presidenziali dell’anno scorso, i giovani non sono andati a votare, stanno aspettando la prossima occasione. In Egitto è accaduto qualcosa che non può più essere cancellato».

Il Sole Domenica 1.11.15
La parola alla scienza
Gay si nasce o si diventa?
di Paolo Legrenzi


Nel racconto La stagione dei tacchini, dalla raccolta Le lune di Giove, Alice Munro tocca molti dei problemi generati dagli orientamenti sessuali minoritari. L’ambiente culturale: «Al tempo non era concepibile – non a Logan nell’Ontario, almeno non alla fine degli anni Quaranta – che l’omosessualità potesse superare confini molto angusti. Le donne, di sicuro, credevano che fosse un fenomeno raro e ben delimitato». La categorizzazione sociale: «Una volta applicata l’etichetta scattava, specie nelle donne, una discreta dose di tolleranza per quelle persone e i loro rispettivi talenti … : Poveretto ! – dicevano. Non fa del male a nessuno». Un’implicita teoria delle cause: «Davano proprio l’impressione di credere, quelle signore, che il fattore determinante fosse la propensione per la cucina e per l’uncinetto...». E, infine, l’assenza di discriminazioni: «Non intendo stabilire se Herb fosse omosessuale o no, in quanto non ritengo la questione di alcuna utilità».
Rispetto a questa stravagante tolleranza sono diffuse, anche nei Paesi occidentali considerati avanzati, credenze che vanno a formare una pseudo-teoria. Essa funziona così: 1) la maggioranza delle persone è attirata dall’altro sesso; 2) quello che fa la maggioranza è normale, quello che fanno le minoranze è anormale; 3) l’anormale è una devianza statistica e anche funzionale; 4) una devianza funzionale è una malattia; 5) la malattia va curata; 6) se l’origine è biologica, la cura deve essere biologica (il fondatore dell’intelligenza artificiale, Alan Turing, si è suicidato mentre veniva “curato” chimicamente); 7) se l’origine è psicologica, la cura deve essere psicologica.
Purtroppo ognuno dei sette anelli della catena si aggancia, a sua volta, a pregiudizi diffusi nel senso comune. Il documentato saggio di Simon LeVay fa invece il punto scientifico sulla questione (va apprezzato che l’editore italiano abbia tenuto il glossario e l’indice analitico degli argomenti, spesso tralasciati nelle traduzioni).
Nel 1991 LeVay, lavorando come neuroscienziato al Salk Institute di San Diego, scoprì che l’ipotalamo una regione del cervello deputata, tra le altre cose, a regolare la sessualità è leggermente diverso nei maschi omosessuali rispetto a quelli eterosessuali. Il grande pubblico venne colpito dal lavoro uscito su «Science»: se un omosessuale è fatto così, perché colpevolizzarlo?
Passare dalla tolleranza all’accoglienza vera, però, non è automatico. Si possono accettare coppie lesbiche o gay. Poi però si vieta loro l’adozione di un figlio, quasi che il figlio stesse bene o male non per l’affetto e le cure dei genitori ma per il loro orientamento sessuale. Anche Freud ci ha messo lo zampino. Sulla scorta delle sue idee, a lungo si è ritenuto che l’omosessualità fosse causata da padri assenti o da madri morbosamente attaccate ai propri figli al punto da fermarne lo sviluppo psicosessuale. E tuttavia una eventuale correlazione tra il comportamento dei genitori e l’orientamento sessuale dei figli non prova necessariamente le tesi freudiane. L’assenza del padre può essere conseguente al rifiuto di un figlio considerato “anormale”. Quale è la causa e quale è l’effetto?
Alla fine di questo ricco e complesso ventaglio di studi, la catena si frantuma: c’è un’influenza continua tra fattori genetici e condizioni ambientali. Pensiamo, per esempio, all’effetto di vicinanza uterina nei roditori. I feti femmina che si trovano vicini ai feti maschi captano testosterone da questi ultimi e diventano parzialmente mascolinizzati nel loro comportamento sessuale. È nota l’ampia diffusione di comportamenti bie omosessuali tra gli animali, dalle oche selvatiche ai bonobo. La vera differenza con gli esseri umani è che non emergono cattiverie da parte di tali animali verso quelli che mettono in atto comportamenti non eterosessuali.
I lavori scientifici analizzati da LeVay dimostrano che molti processi di sviluppo sono di natura probabilistica. Come spiegare altrimenti il diverso orientamento sessuale di gemelli monozigoti? Se uno di questi è gay, c’è un 50% di probabilità che il suo gemello sia gay o etero. Non c’è quindi una causa ultima di natura genetica: i due gemelli si sviluppano nello stesso utero e nello stesso tempo. Le Vay conclude che è come se venisse lanciata una moneta biologica. Probabilmente questo lancio avviene anche nello sviluppo delle persone che non hanno un gemello.
In una popolazione darwiniana la diversità, su cui il caso può agire, ha sempre un effetto benefico. Gli omosessuali dovrebbero quindi essere accolti, non tollerati. Si arriva ad apprezzare la loro diversità esercitando il pensiero critico. Si può tuttavia percorrere un’altra strada, quella di Alice Munro. La protagonista della Stagione dei tacchini, quando ripensa a Herb, capisce il fascino di raggiungere un’intimità proprio con chi non la concederà mai. Per due vie diverse, quella scientifica e quella degli affetti, si colgono i benefici della diversità.
Simon LeVay, Gay si nasce? Le radici dell’orientamento sessuale, traduzione e cura di Luca Rollè e Nicola Carone, Raffaello Cortina Editore, Milano pagg. 300, € 27,00

Il Sole Domenica 1.11.15
Bambini filosofi, il futuro è vostro
di Armando Massarenti


Un rapporto pubblicato dalla Education Endowment Foundation dimostra che insegnare la filosofia ai bambini di 9-10 anni può avere effetti molto positivi sul rendimento scolastico. In 48 scuole del Regno Unito, per un anno 3mila bambini sono stati indotti a riflettere e discutere di temi filosofici, prima in piccoli gruppi, poi coinvolgendo l’intera classe, a partire da immgaini o articoli di giornale. La ricerca è stata ricordata da Carla Guetti, della direzione generale del Miur, in un convegno che si è tenuto a Venezia, a Ca' Foscari, con molti filosofi coordinati da un team (Livio Rossetti, Luigi Perissinotto, Luigi Vero Tarca, Stefano Maso, Dorella Cianci, Laura Candiotto) sul «Diritto alla filosofia». Se un tale diritto esiste, e se verrà consolidato nel contesto della Buona scuola, i risultati della ricerca inglese ci mostrano assai chiaramente quali vantaggi possa offrire. Etici e conoscitivi. I bambini filosofi, soprattutto quelli più svantaggiati, imparano più rapidamente a leggere a scrivere e sono più bravi anche in matematica. Non solo: diventano anche assai meno litigiosi perché imparando ad argomentare tenendo conto del punto di vista altrui.

Il Sole Domenica 1.11.15
Aleksandr Lurija (1902-1977)
La parola disintegrata
Le analogie tra il caso clinico commovente del tenente russo Zaseckij e il destino di un popolo vittima del regime staliniano
di Silvano Tagliagambe


La storia di Zaseckij, il protagonista del caso clinico analizzato da Aleksandr Lurija nel suo studio biografico Un mondo perduto e ritrovato, pubblicato da Adelphi con prefazione di Oliver Sacks e postfazione di Luciano Mecacci, commuove a affascina per quello che racconta e per le analogie che se ne possono tracciare con il destino di un intero popolo. Il giovane tenente dell’Armata rossa, ferito nel 1943 sul fronte russo occidentale da un proiettile tedesco che gli penetra in profondità nel cervello, cancellando la percezione di una parte del corpo e pregiudicando sia la comprensione del linguaggio che la memoria, lotta tenacemente per vent’anni per riappropriarsi della propria identità e ricostruire il racconto della sua vita riuscendo a scrivere, tra mille difficoltà e superando grandi sofferenze, tremila pagine in cui ci ha lasciato la testimonianza del suo calvario.
Non sarebbe mai riuscito a ricomporre le parti isolate in cui era polverizzato e spezzettato ciò che era rimasto nella sua memoria, dando a esse un ordine e un significato, se non fosse stato seguito con pari tenacia e straordinaria competenza da un neuropsicologo, Lurjia appunto, che si era reso conto che il modo migliore di comprendere lo sviluppo delle funzioni mentali era quello di integrarlo con lo studio della loro disintegrazione. Aiutato, in questa sua visione, da una concezione della scienza medica basata su un’idea integrata tra corpo e psiche nella genesi delle malattie, ereditata dal padre Roman Al’bertovi?, uno dei più noti gastroenterologi russi dell’epoca, e per questo refrattaria a ridurre a schemi astratti la ricchezza della persona umana nella sua unicità.
Lurija è stato uno dei grandi protagonisti della scienza russa del ’900 e ne ha vissuto e subito le contraddizioni e le tragedie che hanno portato, soprattutto dal 1934 in poi, a dissipare le sue migliori energie in una storia che si sviluppa anch’essa lungo il confine tra uno sforzo eroico di ricostruzione di una società in decomposizione e l’incomprensibile distruzione di vite umane e di intere linee di pensiero. Di questa repressione Lurija è stato testimone diretto e vittima, non solo perché, nel 1952, fu accusato di far parte del cosiddetto «complotto dei medici» ebrei ai quali si imputava il tentativo di attentare alla vita di Stalin, ma per il fatto che la dura repressione del regime colpì, oltre alla ua famiglia, con la sorella Lidija, una psichiatra, a lungo detenuta in un lager e il marito di lei fucilato nel 1937, anche il suo maestro e amico Lev Vygotskij, incluso nella lista nera dei nemici del partito e del popolo e morto di tubercolosi a soli trentotto anni.
Anche il pensiero di Vygotskij – e sta proprio qui il senso dell’analogia proposta all’inizio – può essere considerato l’esempio di «un mondo perduto e ritrovato». Se Zaseckij aveva perso l’uso della parola, per cui era condannato a leggere solo sillabando, in seguito all’impatto di un proiettile nemico, Vygotskij fu colpito dai «nemici della parola», per riprendere quanto scrisse profeticamente nel 1921 il poeta Osip Mandel’stam, suo caro amico: «le differenze sociali e i contrasti di classe impallidiscono dinanzi alla divisione odierna degli uomini in amici e nemici della parola, in agnelli e capri». I nemici della parola, i capri, si impegnarono a decostruire il senso dell’opera principale del grande psicologo, Pensiero e linguaggio, attraverso corposi tagli, la “semplificazione” dei passi troppo filosofici, l’aggiunta di nuovi vocaboli, la soppressione di altri, la riscrittura di intere frasi, l’eliminazione e l’introduzione arbitraria di corsivi: un lavoro incredibile di censura e “ricomposizione”, che ha finito con l’allontanare in maniera impressionante l’autore del testo dal Vygotskij reale. C’è voluta la paziente e competente ricostruzione filologica di Mecacci per restituirci questo classico del pensiero psicologico, di un’attualità ancora stupefacente, nella sua versione originaria che rischiava di andare perduta. Ho avuto la fortuna di conoscere Luciano a Mosca nel 1970 mentre cominciava questa sua meritoria attività di recupero, entrambi lì con una borsa, lui del Cnr e io del Ministero degli esteri, impegnati ad addentrarci nei complicati meandri della cultura russa, lui in psicologia, io in fisica, e ne posso testimoniare la serietà e la passione.
Lurjia fu costretto ad assistere a questa distorsione e disintegrazione della parola dell’amico e a prendere anche parte a essa: forse questo può aiutarci a capire meglio le motivazioni profonde della febbrile e instancabile cura con cui si dedicò a restituire il linguaggio, orale e scritto, e la memoria a un giovane che li aveva perduti e per questo non riusciva più a organizzare il suo universo interiore. La storia di un mondo perduto e ritrovato è quella del tenente Zaseckij, ferito di guerra: ma era anche quella, ed egli ne era ben consapevole, di Lev Semënovi? Vygotskij e dei suoi lavori, vittime, come tanti altri scienziati e pensatori, della repressione staliniana. Anche per questo il libro pubblicato in questi giorni da Adelphi merita di essere letto e meditato.
Aleksandr Lurija, Un mondo perduto e ritrovato , Adelphi, Milano, traduzione di Mario Alessandro Curletto, pagg.233, € 18,00

Il Sole Domenica 1.11.15
Sinestesia audiovisiva
La musica che ispira Kandinsky
di Arnaldo Benini


Edgar Allan Poe, nel 1844, scrisse che quando sentiva il ronzìo di una zanzara vedeva un raggio arancione, e viceversa. È il primo resoconto della sinestesia, sovrapposizione di una stimolazione vera e di una, di qualità uguale o diversa, che in realtà non c’è. L’esperienza di Poe era inconsueta, perché, di regola, la sinestesia é unidirezionale. È l’incrocio involontario di due sensazioni diverse, provocato da una stimolazione sola. Della doppia esperienza sensoriale in seguito ad una sola stimolazione sono capaci non più del tre-quattro per cento degli esseri umani. Fra i sinestetici d’entrambi i sessi, ci sono molti musicisti, poeti, scrittori, pittori e persone sensibili. La sinestesia, a differenza dell’immaginazione, è involontaria e insopprimibile. Si sente, ad esempio, un suono e si vede una macchia, o si percepisce un odore. Un numero, una lettera o una parola, letti, sentiti o anche solo pensati, sono associati costantemente ad un colore, o una sensazione tattile è provocata da un odore. La sinestesia più frequente è la cromestesia: si vedono colori sentendo suoni, il colour (o coloured) hearing degli autori anglofoni. La sensazione illusoria è semplice: sentendo un suono si vedono macchie di uno o più colori, mai un volto, un’azione o un panorama. Una mamma vedeva macchie gialle sgradevoli quando il figlio neonato piangeva. Franz Liszt sconcertava gli strumentisti di Weimar, di cui era Kapellmeister, con incitazioni come «più rosa, qui», «questo è troppo nero» oppure «ora voglio tutto azzurro»: la musica che aveva in testa era comunicata come colore. Il compositore Alexander Skrjabin vedeva un colore se l’emozione della musica era intensa. Il colore, diceva, accentua la tonalità. Egli richiedeva che il suo Prométhée Le Poème du feu fosse accompagnato da luci con colori cangianti, per sottolinearne le tonalità. Seduto accanto a Rimsky Korsakov a Parigi, Skrjabin gli disse che la musica che stavano ascoltando gli appariva gialla. Per Korsakov era dorata. Un brano successivo era violetto per l’uno e verde per l’altro. Le sinestesie, certamente su base genetica (molti sono i casi familiari), sono così varie che non si può pensare ad un meccanismo nervoso omogeneo. La causa potrebbe essere un collegamento particolarmente intenso fra o all’interno dei meccanismi percettivi. La visualizzazione del cervello durante le sinestesie mostra l’attivazione delle aree primarie dello stimolo (ad esempio le aree sopra e sotto la fessura di Silvio in caso di parole, di aree parietali in caso di numeri, di aree temporali superiori in caso di suoni) e aree della sensibilità indotta. Nella cromestesia l’area visiva primaria (compresa quella spe-cifica dei colori) è attiva senza stimolo visivo esterno. Inoltre sono attive l’insula, intensamente connessa al sistema limbico, anch’esso assai attivo, e la corteccia prefrontale destra, probabile tramite alla coscienza. Esiste una connessione strutturale e funzionale intensa fra aree della sensibilità acustica, particolarmente attive ascoltando musica, e visiva. La base genetica non è stata identificata con certezza.
La pittura astratta nasce in Wassily Kandinsky che fino al 1910 dipinge meravigliosi panorami di piccolo formato con colori intensi come sinestesia della musica. Kandinsky descrive un’esperienza cromestetica impressionante. A Mosca, nel 1895, durante il Lohengrin di Wagner al teatro di Corte, «I violini, i bassi profondi, e soprattutto gli strumenti a fiato scriverà nel 1913 incorporarono per me tutta la forza del tramonto. Vidi nella mente tutti i colori, che avevo davanti agli occhi. Linee selvagge e fantastiche s’incrociavano di fronte a me. Non osai dire che Wagner aveva dipinto musicalmente “la mia ora” [...] ma mi convinsi che la pittura può sviluppare la stessa forza della musica». Commentando la scenografia per Quadri di un’esposizione di Modest Mussorgsky a Dessau nel 1928 (uno dei suoi capolavori), Kandinsky riferisce di forme che «mi stavano davanti agli occhi ascoltando la musica». Forme astratte trasmettono emozioni altrimenti inaccessibili: l’analogia con la musica è che entrambe suscitano emozioni intense senza linguaggio e riflessione. «Il tono musicale scrive Kandinsky ha un tramite diretto con l’anima». Nella cromestesia le aree cerebrali del linguaggio e della razionalità non sono attive. L’impressione del Lohengrin, racconterà la moglie Nina, assieme alla vista, a Mosca nello stesso anno, di un Covone di fieno di Claude Monet, di colori senza forma, non lo lasciò più. Fu, dice Nina, l’alba dell’astrazione. Über das Geistige in der Kunst del 1911 e Rückblicke del 1913 sono la summa delle sue riflessioni. La prima opera astratta (un acquerello con figure di più colori in un movimento vorticoso) é del 1910. Nel 1911, dopo un concerto di Arnold Schönberg a Monaco, Kandinsky dipinse una delle sue opere più famose, Impression III(Konzert), straordinaria opera sinestetica di un’esperienza musicale. Quadri come Fuga del 1914, e i grandiosi Gedankenklänge (Suoni del pensiero) e Gegenklänge (Controsuoni) del 1924, Drei Klänge (Tre suoni) del 1926 e Klangvoll (Sonoro) del 1929, assieme a varie Komposition e Improvisation e alla scenografia per l’opera di Mussorgsky del 1928, confermano l’ispirazione musicale di Kandinsky, verosimilmente spesso nella forma della sinestesia. «Il colore esercita un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto. [...] L’anima è il pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che ora con uno, ora con un altro tasto, fa vibrare l’anima umana», scrive in Über das Geistige in der Kunst. Non si conoscono esperienze cromestetiche dell’altro artefice dell’arte astratta, Paul Klee. L’affinità della sua pittura con la musica è però evidente, nonostante sia così diversa, per regolarità e disciplina, dalla libertà di tante opere di Kandinsky, suo collega al Bauhaus a Dessau fino al 1933 e amico di tutta la vita. Klee era un violinista provetto già da bambino. Amava soprattutto Bach e Mozart ma non disdegnava la musica contemporanea. Era amico di Ferruccio Busoni e a Dessau frequentò Béla Bartók, Paul Hindemith e Igor Strawinsky. Quadri come Im Bachschen Stil (Nello stile di Bach), e i meravigliosi Landschaft im Paukenton (Panorama al suono dei timpani), Polyphone Strömungen (Correnti polifoniche), Fuge in Rot (Fuga in rosso) e Notturno für Horn (Notturno per corno), dipinti fra il 1919 e 1929, furono composti probabilmente non per esperienza sinestetica (di cui non parlò), ma per analogia con l’emozione della musica. Nella grandiosa mostra di 200 opere di Kandinsky e Klee, che dal Centro Paul Klee di Berna è stata portata dal 21 ottobre alla Städtische Galerie im Lendbachhaus a Monaco di Baviera, una sala è riservata alla musica, dove si vede quanto l’ispirazione che muove i due artisti all’origine della pittura astratta sia l’espressione pittorica del trasporto musicale.
Klee & Kandinsky, fino al 24 gennaio 2016, Lenbachhaus, Monaco di Baviera

Il Sole Domenica 1.11.15
Sfide cliniche e digitali
Il nuovo alfabeto della psichiatria
di Valentina Mantua


Che Tom Insel fosse un innovatore era chiaro già nel 2013. Prima che la versione numero 5 del DSM, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, anche noto come “la Bibbia della psichiatria” fosse ancora pubblicato, l’NIMH (National Instituite of Mental Health) Americano, che lui dirigeva da ormai 10 anni, aveva annunciato una linea di ricerca totalmente opposta. Secondo Insel il DSM aveva perso la sfida dell’innovazione e non era per niente una Bibbia, quanto piuttosto un dizionario, che continuava a definire i disturbi mentali esclusivamente sulla base del consenso di esperti rispetto alla terminologia usata per nominare dei raggruppamenti di sintomi chiamati diagnosi categoriali, utili forse alle assicurazioni sanitarie e ai medici legali ma non alla vera psichiatria clinica.
In medicina, scrive Insel sul suo blog, «le diagnosi sono coadiuvate da esami di laboratorio e biomarcatori specifici, sarebbe come creare dei sistemi diagnostici basati sulla natura del dolore al petto o sulla qualità della febbre, il problema è la loro validità». In alternativa, il progetto dell’NIMH chiamato RDoC (Research Domain Criteria) proponeva di incorporare tutte le conoscenze disponibili riguardo la neurobiologia, la genetica, l’imaging, le scienze cognitive, nel processo diagnostico, con l’obiettivo di verificare come le diverse informazioni si aggregano tra loro e come questi aggregati, o domini, influenzano la risposta al trattamento. Non più quindi schizofrenia e depressione, ma anedonia, rallentamento psicomotorio, alterazioni della risposta emotiva e così via, un cambiamento di paradigma verso la medicina di precisione come è avvenuto per la ricerca sul cancro.
Tuttavia, nonostante l’ambizione di questo progetto e gli oltre 1,5 miliardi di dollari (sic!) d’investimento annuali a favore della ricerca sui disturbi mentali controllati dal NIMH, la settimana scorsa il professor Insel ha preso la decisione storica di passare al settore privato, e non verso una multinazionale farmaceutica come qualcuno si sarebbe aspettato, bensì ad Alphabet, un conglomerato di società nato dalla ristrutturazione di Google, tra le quali Life Science ha come interesse principale proprio la ricerca in psichiatria.
Dopo l’annuncio della nascita della piattaforma di ricerca Research Kit da parte di Apple, è diventato evidente che i colossi tecnologici con un’ampia disponibilità di capitale non si sarebbero solo “accontentati” del mercato dei gadget e delle APPs. Il settore salute vale un trilione di dollari, il 20% del Pil statunitense di cui la salute mentale costituisce la fetta più grande, in Europa la salute mentale rappresenta da sola il 4% del Pil. Ma oltre l’evidente interesse finanziario in un settore che invece vede decrescere gli investimenti da parte di Big Pharma, la sfida per i grandi della tecnologia è rappresentata dai Big Data. Genomica, imaging, studi clinici promossi da consorzi, generano una enorme quantità di dati e le aziende ipertecnologiche come Google e Apple hanno le competenze per estrarre e utilizzare la conoscenza nascosta da questi numeri enormi. La ricerca in psichiatria non può fare a meno dei big data e se la nosografia va reinventata bisogna poter contare proprio su grandi numeri per osservare pattern significativi. Questa consapevolezza è stata probabilmente alla base della decisione di Insel.
Anche i dati comportamentali possono risiedere ed essere analizzati solo su piattaforme digitali. Ne è un esempio la collaborazione tra IBM e la Columbia University che si proponeva di trovare un biomarcatore predittivo della conversione verso la psicosi di adolescenti ritenuti ad alto rischio. Invece di fare un’analisi genetica i ricercatori IBM hanno costruito un software che analizzava il linguaggio dei ragazzi durante il primo colloquio psichiatrico. Le incoerenze semantiche e la disorganizzazione si sono rivelati biomarcatori comportamentali in grado di predire al 100% quali di loro avrebbe sviluppato psicosi nei successivi tre anni. Un’area limitrofa di ricerca dove verosimilmente i biomarcatori diagnostici saranno di tipo comportamentali è rappresentata dall’autismo.
L’alfabeto della psichiatria sta per essere riscritto e se uno come Tom Insel ha accettato la sfida della tecnologia che suggella la trasformazione della biologia in informazione, è meglio stare attenti a quello che succederà. La metamorfosi globale della medicina da medico-centrica a paziente-centrica investirà anche il campo della salute mentale e si sentirà sempre di più parlare di Google o Apple e sempre meno di Janssen o Lilly a meno che, molto presto, non diventino la stessa cosa.

Il Sole Domenica 1.11.15
I 100 anni della relatività generale
Un capolavoro in tre atti
Nel novembre 1915 Albert Einstein presentò all’Accademia Prussiana delle Scienze la teoria rivoluzionaria alla quale stava lavorando dal 1905
di Vincenzo Barone


In una lettera del 10 dicembre 1915 indirizzata all’amico Michele Besso, Einstein disse di sentirsi «elice, ma un po’ distrutto». Ne aveva tutte le ragioni: con un incredibile tour de force era riuscito in poche settimane a completare il suo capolavoro, la relatività generale, universalmente considerata la più bella teoria della fisica. «Chiunque la comprenda non può sfuggire al suo fascino», si spinse a dire lui stesso, abbandonando la consueta riservatezza, il 4 novembre di quell’anno, nella prima delle comunicazioni inviate all’Accademia Prussiana delle Scienze (ne seguirono altre tre), in cui espose la teoria nella sua forma finale.
La creazione della relatività generale fu una gigantesca impresa intellettuale, che combinò, in un modo e in una misura che non si sarebbero mai più ripetuti, intuizione fisica, potenza matematica e solidità epistemologica. Essa rappresentò il culmine di un lungo lavoro, cominciato con la formulazione della relatività ristretta nel 1905, l’annus mirabilis in cui Einstein, «esperto tecnico di terza classe» all’Ufficio Brevetti di Berna, aveva sconvolto la fisica, concependo anche la teoria dei quanti di luce (tappa decisiva per lo sviluppo della meccanica quantistica) e la teoria dei moti molecolari (che contribuì alla definitiva affermazione dell’tomismo).
La teoria del 1905 era basata su un principio di simmetria, il principio di relatività, secondo il quale le leggi di natura hanno la stessa forma per tutti gli osservatori in moto uniforme. Venivano, in tal modo, spazzati via l’etere e i concetti di movimento e di quiete assoluti. Ma la restrizione agli osservatori in moto uniforme disturbava Einstein. «Ogni mente portata alla generalizzazione – scrisse sentirà la tentazione di azzardare il passo verso il principio generale di relatività», cioè verso un principio di invarianza delle leggi fisiche per tutti gli osservatori, indipendentemente dal loro moto, uniforme o accelerato. Ci volle quasi un decennio – costellato di idee geniali, ma anche di tentativi a vuoto e di delusioni – per raggiungere questo obiettivo.
Come ha fatto notare lo storico della scienza John Stachel, la costruzione della relatività generale è un’opera in tre atti. Il primo atto ha inizio nel 1907, quando Einstein concepisce quello che definirà poi il pensiero più felice della sua vita: l’idea che un osservatore in caduta libera non avverte alcun campo gravitazionale (perché la forza inerziale dovuta all’accelerazione del sistema annulla la gravità). In altri termini, accelerazione e gravità sono intercambiabili, nel senso che l’una simula o compensa l’altra. Questo “principio di equivalenza” mostra come l’estensione della relatività ai sistemi accelerati prenda la forma di una nuova teoria della gravitazione, e ha un notevole potere predittivo. Grazie a esso, Einstein scopre che la gravità deflette la luce. Nel 1911 quantifica l’effetto, calcolando la deviazione dei raggi luminosi provenienti da stelle lontane e “piegati” dalla gravità solare, ma, a causa dell’incompletezza della teoria, ottiene un valore sbagliato – come scoprirà in seguito (fortunatamente per lui, una spedizione organizzata per osservare il fenomeno in occasione dell’eclissi totale di Sole in Crimea nell’estate del 1914 viene bloccata dallo scoppio della Prima guerra mondiale).
Il secondo atto dell’impresa einsteiniana si svolge negli anni 1912-1913. Einstein intuisce allora il profondo legame tra gravità e geometria, e comprende che bisogna superare lo spazio-tempo piatto e statico della relatività ristretta per passare a uno spazio-tempo curvo e dinamico, un vero e proprio campo fisico il campo gravitazionale. È un cambiamento cruciale, ontologico: da semplice palcoscenico degli eventi, lo spazio-tempo diventa attore protagonista, in dialogo con gli altri attori, la materia e la luce. Ma per dar corpo a questa idea serve una matematica più sofisticata di quella del 1905: una matematica che, in quel momento, Einstein non possiede. Di ritorno a Zurigo, dopo una parentesi a Praga, si rivolge a un suo vecchio compagno di studi, il matematico Marcel Grossmann. Questi gli consiglia di studiare la geometria di Riemann, che permette di descrivere spazi curvi con un numero qualsiasi di dimensioni, e gli segnala i lavori di due studiosi italiani, Gregorio Ricci Curbastro e Tullio Levi-Civita, che hanno sviluppato una tecnica – l’analisi tensoriale – per effettuare calcoli su uno spazio curvo. Armato di questi nuovi strumenti matematici, Einstein si mette alla ricerca dell’equazione che governa la dinamica del campo gravitazionale (cioè dello spazio-tempo) e le sue interazioni. Adotta inizialmente un approccio basato su considerazioni di carattere fisico, ma la teoria che ne viene fuori ha seri difetti ed è presto abbandonata.
Si arriva così al fatidico novembre del 1915 – il terzo e conclusivo atto. Dopo due anni di stallo, Einstein opta per una strategia di ricerca diversa, più matematica. È la scelta giusta. Nell’arco di poche settimane, con un sforzo straordinario – stimolato dalla competizione con uno dei più grandi matematici dell’epoca, David Hilbert, che ha cominciato a lavorare sullo stesso problema –, arriva alla teoria definitiva. Ne dà notizia all’Accademia berlinese in una serie di quattro comunicazioni settimanali, nell’ultima delle quali, il 25 novembre 1915, presenta l’equazione fondamentale della nuova teoria: un capolavoro di essenzialità e di eleganza, scritto nel linguaggio di Ricci e Levi-Civita. L’equazione mette in relazione la curvatura dello spazio-tempo con la densità di materia e di energia: in presenza di masse e di sorgenti di energia, lo spazio-tempo si deforma, ed è questa deformazione che chiamiamo gravità. Geometria e fisica sono dunque legate inestricabilmente e si influenzano a vicenda.
Rifacendo i calcoli della deflessione della luce sulla base della nuova teoria, Einstein ottenne un angolo doppio rispetto a quello previsto qualche anno prima. Per osservare il fenomeno si dovette però aspettare l’eclissi totale di Sole del 1919, visibile nella fascia equatoriale. Due spedizioni britanniche, organizzate dall’astrofisico Arthur Eddington, diedero il risultato tanto atteso: la piccolissima deviazione misurata era in accordo con la predizione relativistica. “Rivoluzione nella scienza”, “Newton spodestato”, “Svolta epocale”, titolarono i giornali di mezzo mondo, segnando l’inizio della fama planetaria di Einstein. Il quale fu ovviamente molto soddisfatto del risultato. Ma, com’era nel suo stile, a una studentessa che gli chiedeva come avrebbe reagito se le osservazioni avessero contraddetto la teoria, rispose semplicemente: «Mi sarebbe dispiaciuto per il buon Dio, perché la teoria è corretta».

Il Sole Domenica 1.11.15
Lezioni d’amore
Cartesio appassionato
di Armando Massarenti


Il razionalista Cartesio che si appassiona delle passioni? È ciò che capita nel trattato Les passions de l’âme (Le passioni dell’anima, 1649), ultima grande opera del pensatore francese, nonché originale rielaborazione di alcuni tra i più importanti princìpi dal filosofo espressi riguardo al rapporto tra corpo e mente e, in generale, a proposito della natura dell’uomo. Come si dice, Cherchez la femme! Il merito di questo interesse, infatti, sarebbe secondo alcuni di una giovane donna, Elisabetta (nobile figlia dell’elettore del Palatinato), che avrebbe chiesto consigli su come vivere proprio al filosofo, con cui intratteneva un rapporto epistolare. Ma facciamoci consigliare anche noi da Cartesio, confortati da un precedente tanto illustre: che cosa dovremmo fare delle nostre passioni?
Un passo indietro è tuttavia d’obbligo. Chiediamoci: delle nostre passioni possiamo fare “attivamente” qualcosa o, come dice la parola stessa, sono qualcosa che subiamo passivamente, a differenza di altri moti dell’anima? «Dopo aver considerato tutte le funzioni che appartengono al corpo, è facile riconoscere che nulla rimane in noi se non i nostri pensieri, i quali sono principalmente di due generi, e cioè gli uni sono le azioni dell’anima, gli altri le sue passioni». Le passioni tuttavia si possono incanalare e guidare, grazie all’azione di un “centro di controllo” che forse è per Cartesio la facoltà tra tutte più potente, la volontà. E fin qui, a parte il piccolo omaggio che abbiamo voluto tributare al blockbuster psico-filosofico Inside Out, si tratta del Cartesio che ben conosciamo, teorico della separazione tra corpo e mente, etereo razionalista criticato da molti (il neuroscienziato Antonio Damasio su tutti) per il dualismo che avrebbe riversato come un’indelebile impronta sul pensiero occidentale.
Ma veniamo ora al risvolto inaspettato: le passioni, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, rivelano connessioni impreviste tra anima e corpo. Prendiamo l’amore, «emozione dell’anima che la incita a congiungersi volontariamente con le cose che stima buone». Proprio nei capitoli dedicati all’amore leggiamo: «Vi è tra la nostra anima e il nostro corpo un legame tale che, una volta che abbiamo collegato qualche azione corporea con qualche pensiero, l’una delle due cose non ci si presenta in seguito senza che ci si presenti anche l’altra». E il moto amoroso non è che una delle passioni “primitive” descritte quasi a suggerire una sorta di legge di unità del pensiero con il corpo. Le “passioni primitive” sono identificate come ingredienti fondamentali della nostra vita emotiva: la Meraviglia, l’Amore, l’Odio, il Desiderio, la Gioia e la Tristezza, ognuna collegata a spie corporee spesso ben poco equivocabili («tra i principali segni vi sono i moti degli occhi e del viso, i mutamenti di colore, i tremori, il languore, le lacrime, i gemiti e i sospiri»). E descritte con tale dovizia di particolari da portarci a dire che, in questo trattato di filosofia così peculiare, viene tentata una vera e propria fisiologia delle passioni.
È un Cartesio ben poco disincarnato, dunque, ben poco “cerebrale” verrebbe da dire, quello che incontriamo nelle pagine sulle Passioni dell’anima. «L’anima può avere i propri piaceri, ma quelli che ha in comune con il corpo dipendono interamente dalle passioni, sicché gli uomini che esse possono scuotere di più sono capaci di gustare la maggior quantità di dolcezza in questa vita». Cogito o non cogito, di una cosa Cartesio pare certo: «solo dalle passioni dipende tutto il bene e tutto il male di questa vita».

Il Sole Domenica 1.11.15
Massimo Teodori
Il rapporto (anomalo) Dc-Pci
di Piero Craveri


Il libro di Massimo Teodori, Il vizietto cattocomunista, si volge a indagare l’azione culturale e politica del Partito comunista nei riguardi dei laici e dei cattolici, a partire da Palmiro Togliatti, che fu artefice di una strategia che i suoi successori ereditarono ma non riuscirono poi a portare a termine. La polemica con la cultura liberale e democratica fu attuata in modo ferocemente denigratorio, come mostrano i corsivi che lo stesso Togliatti scriveva su «Rinascita». A riguardo va detto che per l’affermazione dell’“egemonia” comunista, il rovesciamento del fascismo non era presupposto sufficiente, bisognava radicalmente sostituire i fondamenti ideologici e culturali dello Stato nazionale, così come si era costituito nell’800. E la pubblicazione dei «Quaderni» di Gramsci fu la pietra miliare a cui Togliatti fece riferimento. Il limite delle riflessioni di Gramsci stava proprio nell’obiettivo del superamento dell’idealismo gentiliano e crociano. Uno storicismo comunista, da cui Togliatti avrebbe derivato la prospettiva, solo in parte eterodossa, della «via nazionale al comunismo». Ma mancava a quell’analisi storica una valutazione di quanto di nuovo, sia a livello teorico sia fattuale, era maturato nell’economia di mercato dopo la crisi del ’29. Fu l’abbaglio anche dello stalinismo che puntava, a non lunga scadenza, su un’inevitabile nuova crisi del capitalismo a cui, per un lungo tratto, anche il Pci rimase soggiogato, malgrado si aprisse allora un’epoca senza precedenti di sviluppo economico e sociale.
Anche per questo la polemica togliattiana si mostra, nelle pagine di Teodori, in tutto il suo rudimentale cinismo. La cultura laica era poi un riferimento sicuro contro ogni inclinazione totalitaria per lo stesso De Gasperi che si preoccupava delle diverse suggestioni che vedeva maturare proprio nel partito cattolico. La vicenda di Dossetti ne è un esempio, perché la “renovatio” cattolica che postulava quella politica, non quella interiore della coscienza religiosa, aveva a che fare con il principio di eguaglianza, generando sintonie confuse e profonde, che in seguito presero inclinazioni più tattiche, se si pensa che le coltivò anche Andreotti. E Togliatti ebbe una percezione chiara di ciò, puntando fin dall’inizio a un rapporto sempre più intrinseco con i cattolici. Tra il ’45 e il ’47 Togliatti sostenne la presidenza del Consiglio di De Gasperi, la liquidazione dei Cln, l’amnistia ai fascisti, trovò profonde sintonie con i cattolici alla Costituente e infine votò il Concordato. Dopo questo avvio, anche a seguito della rottura del 1947, il rapporto con la Democrazia cristiana rimase uno dei principali obiettivi della strategia comunista ed ebbe riscontri diversi nel mondo cattolico. Anche qui la disamina di Teodori è puntuale, investendo naturalmente Berlinguer e la sua idea del «compromesso storico», che invero non fu per i maggiori sostenitori della collaborazione con i comunisti, come Moro e La Malfa, un approdo definitivo della democrazia italiana. L’idea risente dell’influenza che su Berlinguer ebbe la vecchia diaspora dei comunisti cattolici, di cui Rodano era il mentore. Negli ultimi scritti di Rodano traluce che il modello a cui si ispirava era la Polonia, proprio mentre questa, con le sue lotte operaie, volgeva verso la democrazia. Era comunque una prospettiva politica che nulla aveva a che fare con i problemi italiani in quella fase ulteriore del capitalismo internazionale.
Teodori estende la sua analisi anche agli anni della seconda Repubblica, quando si ebbe una rottura di continuità del tradizionale rapporto tra comunisti e cattolici e, per questi ultimi, ciò che li condusse alla fusione nel Pd fu la necessità di sopravvivere politicamente piuttosto che quella di preservare la propria identità. Tuttavia, giustamente l’autore mette in luce l’influenza che ebbe la Conferenza episcopale, guidata dal cardinale Ruini, nella condizione di bassa legittimazione di tutte le forze politiche, e che riguardò ambedue gli schieramenti, assai negativa dal punto di vista della laicità nella politica italiana. Ma c’è da chiedersi se, riducendosi a potente lobby, la Chiesa cattolica se ne sia giovata. Nelle ultime pagine, dedicate a Renzi, i fondamenti di questa storia sembrano davvero ormai lontani.
Massimo Teodori, Il vizietto cattocomunista. La vera anomalia italiana, Marsilio, Venezia,
pagg. 174, € 14,00

Il Sole Domenica 1.11.15
Il congresso di Vienna
Metternich l’equilibrista
di Luigi Mascilli Migliorini


Il 18 luglio del 1814, tornando da Parigi, fa il suo ingresso a Vienna il principe di Metternich. La folla che lo accoglie trionfalmente riconosce in lui l’autentico vincitore di una lotta – quella contro napoleone – durata in Europa per più di due decenni, il salvatore di uno Stato e di una dinastia che in quei venti anni avevano rischiato più volte di scomparire. A teatro, la sera, lo accolgono le note dell’Ouverture del Prometeo di Beethoven. Omaggio – scrivono le gazzette – a un uomo che aveva saputo mantenersi saldo, nei principi come nell’azione politica, anche quando tutto, intorno a lui, sembrava naufragare e gli animi di chi lo circondava oscillavano, visibilmente impauriti. Ora, in quello stesso 18 luglio, il nemico che tanta fermezza aveva saputo abbattere, riuscendo là dove avevano troppe volte fallito i cannoni e le baionette, si gingillava nelle campagne di una minuscola isola dell’arcipelago toscano, organizzando con piglio imperiale la vita di una comunità di sudditi in miniatura, disincanti e pazienti come solo gli abitanti di un’isola del Mediterraneo riuscivano (e riescono) a essere. Nessuno, quel giorno, avrebbe potuto immaginare che la musica di Beethoven sarebbe nuovamente servita a celebrare la gloria di chi, dopo Waterloo e dopo un nuovo esilio e una nuova isola (sperduta questa volta in mezzo all’Atlantico) sarebbe apparso alle nuove generazioni dell’Europa romantica il vero, sofferente ed eroico Prometeo, del loro tempo. Ma nessuno, quel giorno, avrebbe neppure immaginato che il grande Congresso voluto con forza da Metternich a Vienna diventasse l’origine e il punto di riferimento di quello che – nell’alternarsi di guerre e di rivoluzioni – per un secolo si può chiamare l’equilibrio europeo.
Quando Henry Kissinger ne parla, nel suo celebre libro sul mondo nato dalla Restaurazione, non ha dubbi. Il Congresso di Vienna assicura per cento anni una pace, approssimativa ma duratura all’Europa, perché non trova le sue fondamenta in nessuna di quelle ingenue e rischiose aspirazioni alla pace universale che da subito corrodono l’edificio che si prova a costruire nel 1918 a Versailles. Vienna nasce da una asciutta valutazione delle forze in campo e dalla necessità di dare a queste forze un punto di equilibrio capace di impedire, in ogni momento, la tentazione di un’egemonia, quella tentazione che aveva afferrato, ma che aveva anche perduto persino un grande protagonista della storia come Napoleone. Un’Europa, dunque, plurale nella ricchezza dei suoi attori, ma fornita di una rapida sintesi di governo nelle cinque potenze a cui compete la responsabilità di “tarare” la bilancia del sistema internazionale ogni qualvolta il mutamento dei rapporti di forza chieda un aggiustamento di pesi e di misure.
Certo Metternich matura questo disegno nel quotidiano confronto (è anche per quasi quattro anni ambasciatore a Parigi) con il progetto egemonico di Napoleone. Giorno per giorno ne avverte il fascino, ma anche la bulimica pericolosità e l’interiore debolezza. Ma la vera lezione sull’equilibrio europeo egli l’aveva già appresa da bambino, nelle accoglienti terre della Renania dove era nato. Lì, in un lembo di Germania che è già quasi Francia, dove il francese e il tedesco si alternano nel suo parlare infantile, il giovane Metternich si nutre di quella convivenza di piccole patrie di cui, anche ben oltre i confini del Reno, è costellato quello che ancora si chiama il Sacro Romano Impero. E così, per sempre, egli conserverà una istintiva diffidenza per quelle sintesi rozze, ruvide ai suoi occhi, che sono le nazioni moderne. Non amerà nella Prussia una grettezza antica che la spinge ora a correre un’avventura di personale grandezza distruggendo l’armonica convivenza degli staterelli usciti da Vestfalia all’interno dei quali l’unità del popolo tedesco sembrava compiersi con assai minor pericolo collettivo delle parole d’ordine minacciosamente agitate dal romanticismo berlinese. Così come non arrivava a comprendere per quale motivo gli italiani, che avevano costruito nella diversità delle loro bandiere politiche, una straordinaria civiltà, sognassero un’unità che avrebbe fatto perdere la leggerezza creativa della loro antropologia profonda.
È anche in virtù di questa idea plurale dell’Europa e della sua storia che il Congresso di Vienna non sarà mai una pace di vincitori sui vinti come Versailles vorrà e saprà essere. L’equilibrio non si costruisce sull’annientamento del nemico, ma sulla sua pronta restituzione alle ragioni e alle pratiche di un sistema di relazioni. Aiutato da un altro figlio di quel tempo “prima della Rivoluzione” deliziosamente pigro e ferocemente lucido che è il principe di Talleirand, Metternich non solo riuscì a riportare la Francia post-napoleonica nel concerto delle grandi potenze, ma evitò che il narcisismo mistico dello zar di Russia, la rancorosa vendetta del re di Prussia, le ostinate ambizioni della Gran Bretagna, compromettessero sin dall’inizio – come accade cento anni dopo nei saloni di Versailles – ogni possibile convivenza tra vincitori e vinti, ogni possibile convivenza tra vincitori e vincitori.
Pochi, all’inizio, mentre passavano apparentemente inutili le frivole giornate di un Congresso “che danza ma non cammina”, come allora si diceva, compresero quanto stava accadendo. E quando lo capirono tutto era già accaduto. Vienna era diventata la capitale di un’Europa che, strattonata a Occidente e a Oriente, avrebbe trovato per un secolo nelle sue strade e nei suoi palazzi un morbido prima e poi melanconico punto d’incontro, anzi d’equilibrio.

Il Sole Domenica 1.11.15
Capolavori all’incanto
Pioggia d’oro sulla bella Danae
Uno spettacolare dipinto di Orazio Gentileschi andrà all’asta in gennaio a New York: stima 25-35 milioni di dollari
di Anna Orlando


Roma, 12 febbraio 1621. La cerimonia d’incoronazione di papa Gregorio XV si svolge la domenica di Sessagesima, al canto di Exsurge Domine. Alessandro Ludovisi, senza sentire il peso dei suoi sessantasette anni, varca trionfalmente la soglia dell’arcibasilica patriarcale e del palazzo lateranense. Erano in molti a onorarlo. Tra loro, era arrivato da Genova Giovan Antonio Sauli, membro di una celebre famiglia dei nobili “nuovi”, altrimenti detti “popolari”, che nel conclave aveva un cardinale, Antonio Maria, già arcivescovo nella sua città, Decano del Sacro Collegio.
Giovan Antonio amava l’arte e soprattutto la pittura. Nell’euforia di quei giorni, ebbe anche la ghiotta occasione di ammirare le novità che gli artisti da fuori avevano portato nell’Urbe. Fu allora che s’imbatté per la prima volta in «alcune tavole d’Orazio» Gentileschi – così narrano le fonti sei-settecentesche, da Raffaele Soprani e Giuseppe Carlo Ratti -, «delle quali restò talmente invaghito, che fece grandi istanze all’Autore, affinché venisse a lasciare in Genova qualche parte di sua virtù, promettendogli buone ricompense». Tanto fece, che «quà ritornando il Sig. Sauli, seco il condusse».
La meravigliosa Danae che verrà battuta all’asta Old Master Paintings di Sotheby’s a New York il 28 gennaio 2016, stimata 25-35 milioni di dollari, era tra i capolavori che il Sauli poteva mostrare agli ospiti nella sua antica domus magna genovese in San Genesio. Il capolavoro, che negli scorsi due anni è stato esposto al Metropolitan, passerà ora nelle sale di Sotheby’s a New York per una preview da venerdì prossimo fino all’11 novembre. Seguirà un tour da Los Angeles, a Hong Kong e Londra, qui visibile durante i giorni di esposizioni dell’importante sessione del vendite prenatalizie in Bond Street, per poi attendere il proprio destino a fine gennaio.
I passaggi di proprietà del quadro si possono seguire con una certa precisione fin dal 1621, anno in cui il Gentileschi licenziò la tela proprio a Genova, durante quel soggiorno presso i Sauli in cui si favoleggia della fugace presenza in città anche della sua figlia pittrice, Artemisia. Non fu quella l’unica tela che Orazio dipinse per il Sauli, le cui disponibilità economiche erano l’ultimo dei problemi del committente. La sua famiglia, peraltro di origine toscana come il pittore, era ben radicata nella classe dirigente genovese fin dal XV secolo. Aveva primeggiato nel commercio di “panni”, come si legge nei documenti. Non è forse un caso se in questo quadro, come gli altri due che certamente Gentileschi realizzò per lui a Genova, la Maddalena poi in collezione privata a New York e il Lot e le figlie ora al Getty Museum di Los Angeles, Orazio è molto generoso nei panneggi, e offre il meglio del suo pennello proprio nel descrivere sete, velluti e rasi. Così seduce il Sauli, la cui mania di grandezza, era, per così dire, nel dna di famiglia. Sono loro, va ricordato, a costruire come chiesa gentilizia a loro riservata la monumentale basilica sulla collina di Carignano, chiamando come architetto da Perugia nientemeno che il celebre Galeazzo Alessi. Quanto a Giovanni Antonio, poi, aveva saputo rafforzare il potere di famiglia e il proprio prestigio personale con una saggia politica matrimoniale, sposando una Grimaldi prima e una Pallavicini, poi, legandosi in parentela con due tra le maggiori famiglie dei nobili “vecchi”.
Ma torniamo al candore di questa Danae, al suo corpo di porcellana, a quel volto che si staglia sul buio intenso di un baldacchino che cupido apre alla luce, perché la principessa, figlia del re di Argo, accolga quell’abbondante pioggia d’oro in grembo. Così Giove, con questa sua astuta metamorfosi, riuscì a possederla. La favola ovidiana è resa da Orazio con un estro narrativo e soprattutto con una teatralità tutta barocca, tesa a destar meraviglia e stupore. Allora, come oggi.
A giustificare il valore notevole di questo lotto, una cifra che raramente si associa un dipinto seicentesco, contribuisce certamente la succulenta voce provenance. Rimasta di proprietà Sauli fino alla fine del XVIII secolo, la tela risulta nel 1906 in casa del marchese Pierino Negrotto Cambiaso, quando la vide Wilhem Suida. Documentata poi nel castello Durazzo Pallavicini Negrotto Cambiaso di Arenzano, proprietà della marchesa Carlotta Cattaneo Adorno, che, come si vede dalla lista dei cognomi, aveva ereditato beni da più famiglie, viene venduta già prima dell’asta Christie’s del 1979 svoltasi a Cesano Maderno, quando vengono alienate molte opere del castello ligure. La strepitosa Danae infatti nel ’75 è già in Inghilterra, per poi varcare l’oceano con la vendita da parte della vedova di Thomas P. Grange al gallerista di New York Richard L. Feigen nel ’79. Un family trust possiede il capolavoro dal ’98. Il 28 gennaio prossimo ci si aspetta che la candida fanciulla passi in altre mani, messaggera del miglior barocco italiano in chissà qualche città del pianeta.