il manifesto Alias 22.11.15
Doninelli, ritorno alle stelle dal Disfacimento
«Le cose semplici» dello scrittore lombardo, da Bompiani. Cristiano apocalittico e illuminista: in un mondo imbarbarito del 2039, Luca Doninelli fa sorgere, secondo il modello dantesco, lo spirito di luce della conoscenza, che sola può salvare
di Graziella Pulce
Anno 2039. Sul pianeta regnano il disordine e il disfacimento. Tutto è già accaduto e i pochi sopravvissuti se ne stanno rintanati in tuguri ridotti alla primordialità e del tutto immemori del passato. Questo lo scenario del romanzo Le cose semplici di Luca Doninelli (Bompiani, pp. 838, euro 23,00), uno scenario che comprende Milano, Firenze, Roma, Parigi, New York, ridotte in macerie su cui dominano bande feroci. I personaggi di maggior rilievo sono Dodò (il protagonista), Chantal (‘Cha’, sua moglie e genio precocissimo della matematica), Steve (il loro figlio), Belinda Kellerman (una top model che impazzisce) e suo figlio Mark. Sarà lui a ereditare e organizzare i quaderni, scritti in tempi diversi e relativi a momenti e a storie diverse e autonome. Lui che nell’appendice fornirà una sinossi a chiarimento dell’intrecciata vicenda.
Dunque, anche qui «naturalmente un manoscritto», affollato da un gran numero di personaggi, dei quali abbiamo ben tratteggiati caratteri e peripezie, con frequenti excursus e flashback che costringono chi legge ad allontanarsi temporaneamente dal presente e dalla storia principale. Numerose, infatti, le storie secondarie e di minore interesse per il cuore della questione che occupano centinaia di pagine ma disorientano e fanno ogni volta perdere di vista la rotta. Solo nella parte finale si comprende quanto sia funzionale che il lettore si perda nei rivoli delle narrazioni secondarie e con esercizio di pazienza sappia procedere fino alla conclusione del percorso. In Cattedrali (2011) l’autore era stato esplicito: in una grande città esiste sempre un punto nel quale la pluralità che compone la città si raccoglie e prende la parola per raccontare una storia capace di comprendere i particolari, anche minimi: quel punto viene definito cattedrale. Nella società degradata e imbarbarita del 2039, sono cattedrali tutti quei luoghi nei quali il pensiero si trasforma in azione costruttrice: ospedali, università, opifici, luoghi che raccontano una storia che guarda al passato per costruire il futuro. Con Le cose semplici Doninelli porta a piena espressione un discorso profetico, cristiano quanto illuministico, ed erige a sua volta un edificio, un romanzo-cattedrale che è anche un monito sulla necessità di coltivare la memoria dell’essere e del fare per poter ritrovare i saperi su cui rifondare una regolata comunità.
Il primo quaderno è dedicato alla presentazione dell’orrore cui è ridotta la città di Milano, la cui desolazione trova culmine nella cattedrale divenuta deposito di cadaveri in putrefazione, allegoria evidente della corruzione in cui è immersa la città. Poi c’è – un passo indietro – l’innamoramento del protagonista per la francese Chantal, giovanissima e già illustre matematica. La catastrofe che si abbatte sul mondo ‘civilizzato’ li divide e li tiene lontani per un ventennio. Lei torna in Europa per ritrovarlo, ma ormai la scienza dei numeri è alle spalle, e Cha è una madre che ha messo in atto un progetto salvifico, l’unico che può far arretrare l’orrore dell’ignoranza e della barbarie: ha fondato un’università dove si insegna e si mette in pratica ciò che si sa fare e dove si reimparano i saperi che avevano fatto del mondo selvatico e ferino un luogo abitabile e civile. Solo in quel luogo strutturato, obbediente alla quieta e tenace figura di questa donna, si dà nuovamente la possibilità di convivenza e di pacifica coabitazione tra gli individui, ed è ovviamente quello il luogo nel quale il cielo torna a brillare e la via Lattea riprende a illuminare la terra e l’oceano. E ciò non accade solo per via del cessato inquinamento luminoso, quanto perché in quel riaffiorare della luce che scende dall’alto si attua quel ritorno alle stelle, perdute con l’avanzare del disastro (appunto, dis-astro), di dantesca memoria.
Il complesso della narrazione si configura come un prossimo venturo medioevo (Dissipatio H.G. di Morselli è evocata in chiaro), anzi un vero ritorno all’età della pietra: l’umanità deve darsi di nuovo delle regole e tornare a imparare le tecniche più utili alla sopravvivenza. L’università fondata da Chantal è una specie di monastero benedettino che applica non l’ora et labora ma il duplice precetto di imparare a conoscere e a costruire con le proprie mani. Ma questa è in primo luogo una storia dantesca, formulata dapprima nel registro stilnovistico e poi sviluppata come comedìa, generata dunque dal più cupo sentimento della desolazione e della corruzione, e protratta via via fino al compimento della salvezza, appunto la contemplazione di quel cielo stellato che segna l’effettiva rinascita. «Per rinascere – aveva scritto Doninelli in Salviamo Firenze — è necessario andare fino in fondo alla propria morte». Chantal, come la Beatrice dantesca, passa dal ruolo di ispiratrice dell’amore a quello di donna-madre, che rigenera la fiducia nell’umanità smarrita e incerta.
Il romanzo è impiantato su una solida e complessa struttura che parte da uno scacco e da un’invettiva. Il narratore è molto chiaro nell’attribuire la responsabilità della fine della civiltà alle stesse città: «anziché essere conquistate da questo o quell’invasore, esse cominciarono a perdere interesse, imbarbarendosi al proprio interno, spopolandosi e diventando sempre più povere». Ma il primo apparire dell’annientamento è indicato nella condotta criminale di «quelli che detenevano il vero potere sul mondo», i quali hanno usato il mondo «come teatro di un gioco molto privato», l’informazione come strumento di guerra, il sospetto come arma di distruzione del nemico. Quanto al potere della finanza e delle banche vengono ricordati bond e subprime, che scioltisi come neve al sole avevano avviato alla rovina una miriade di incauti investitori. Il disastro semplicemente è stato creato dai «cretini che governano» e il disfacimento è il risultato di un processo di distruzione consapevole orchestrato da bande di delinquenti che operano per i propri vantaggi personali. In sostanza il romanzo rappresenta una evidente requisitoria di natura civile e politica. Qualcosa di analogo, ma ben più ampio ed elaborato, alla testimonianza condotta dallo stesso autore nei confronti di Firenze, in Salviamo Firenze, del 2012, nel quale peraltro già compariva l’elemento decisivo della matematica. È la passione matematica per la grandezza e la compiutezza del Finito a spingere Brunelleschi all’edificazione della celebre cupola. Anche nel romanzo La polvere di Allah, del 2007, Doninelli scriveva: «L’universo stesso è una mirabile edificazione, e il linguaggio di Dio è vagamente rispecchiato da quello della matematica, che è infinitamente più sottile degli altri linguaggi umani». E dunque fare qui della donna amata un raro talento matematico, che a quindici anni insegna all’università, ha un valore simbolico non equivocabile. La matematica è il linguaggio più alto, quello più vicino a Dio, ma non è sufficiente perché Dio – gli rimprovera Dodò – ha messo in moto l’universo e poi l’ha abbandonato a se stesso. Pertanto il fatto che Chantal, famosa in tutto il mondo per i suoi teoremi, abbandoni la matematica e si dedichi agli esseri umani perché li sa bisognosi della sua pazienza e della sua tenacia è segno che qui la donna è portatrice di valori femminili in definitiva superiori a quelli espressi dalla stessa divinità. Perché Chantal non si disinteressa delle umane creature, ma si muove e si adopera in ogni modo per portarle in salvo impedendo così che la distruzione sia totale. Se la matematica è fuori dal tempo, la donna sceglie di entrare nel tempo umano e nel dolore che ne segna il ritmo. E l’università da lei fondata, il luogo del desiderio di sapere, è il centro propulsore di nuova vita su un pianeta che si era ridotto all’abiezione, di fatto una cattedrale, dedicata a una umanissima notre-dame, scesa dall’intemporalità dei numeri per farsi carico del destino di figli suoi e non suoi.